Q ualche settimana fa, a Napoli, durante una riunione di Redacta, una persona ha fatto un’amara considerazione: “Tanto lo sappiamo che l’editoria e la cultura più in generale sono uno sport per ricchi”. La risposta è “Sì”, è vero che in questo momento è così. La seconda parte della risposta, però, è che non deve per forza essere così, e si notano in giro degli sforzi da molteplici direzioni con la volontà di cambiare questo elitario stato delle cose. Spinte che vengono tanto da chi promuove un ripensamento collettivo e sindacale dell’editoria quanto da chi agisce nel solco della rappresentazione e decide di scriverci su un libro come Non è un pranzo di gala (minimum fax, 2022).
Con questo libro, Alberto Prunetti propone un gesto di verità, consapevole del fatto che “l’intellettuale è sempre al bivio tra solitudine e allineamento”, perché finalmente in un testo si mette a nudo tutto il classismo che aleggia dietro e dentro il mondo del libro. In forma anfibia, tra indagine sulla letteratura working class, analisi dell’industria editoriale, racconto in prima persona (“saltando dalla padella alla brace ero finito a fare il cleaner e il magazziniere a Bristol, senza prendere nessun ascensore sociale”) e critica letteraria, Prunetti sviluppa il nocciolo concettuale racchiuso in una nota stilettata di Audre Lorde: “una stanza tutta per sé sarà pure un requisito per scrivere prosa, ma altrettanto necessarie sono risme di carta, una macchina da scrivere e grandi quantità di tempo”.
Si tratta di riconoscere dunque che chi dispone di tempo – per formarsi, leggere, e scrivere di sé – può farlo solo perché qualcun altro non può (“Loro inventano mondi perché siamo noi a pulire i loro piatti”); e chi del tempo viene derubato sembrerebbe destinato a fare la sua vita senza passare dal via dell’autorappresentazione:
Persone che non riescono a raccontare la propria storia perché troppo occupate a fare tre lavori […] Persone che puliscono le case delle persone che scrivono libri o che pubblicano libri.
E se chi ha il tempo di scrivere parla del proprio ambiente, chi si prenderà l’incarico di mettere giù le storie di quelle persone che non hanno tempo? È piuttosto probabile che la mancanza di rappresentazione di alcune istanze sociali allontani chi in quelle condizioni ci vive quotidianamente, e se, per quanto riguarda le questioni di “genere” e “razza” comincia a essere pacifica l’idea che dentro un libro o una serie tv il primato del protagonista maschio bianco eterosessuale è in crisi, non la stessa attenzione viene concessa alle storie working class. E non perché un asse di oppressione debba prevalere sugli altri: “Mettendo race e gender contro class, si corre il rischio di far passare l’idea che la working class sia solo bianca e maschile”: basta guardare alla composizione tanto dei ceti creativi e culturali oggi quanto dei settori cosiddetti a basso valore aggiunto per rendersi conto di quanto razza e genere siano fondamentali; il lavoro sfruttato si è “femminilizzato” ed “etnizzato” e bisogna tenere insieme tutte e tre le dimensioni se si vuole dar conto delle condizioni della classe lavoratrice odierna.
Non si tratta, quindi, del Bildungsroman in ottica di ascensore sociale, ma anche (e soprattutto) di storie legate a un panorama working class, e che rimangono dentro la classe lavoratrice. Perché l’emancipazione economica non è il destino massiccio per i lavoratori, e il miglior servizio che si possa fare alla realtà sociale è quello di usare un realismo capace di responsabilità – come ben esemplificato nel quarto capitolo, la sede di un profondo esercizio di critica letteraria di cui si parlerà profusamente più avanti.
Nel primo capitolo, l’autore ricostruisce la storia dei contatti tra storie working class ed editoria, ricorda come “negli anni Settanta, sull’onda del protagonismo della classe operaia, c’è un diffuso interesse nei confronti di questi autori”, incontro che però si dissolve con gli anni Ottanta, momento in cui si comincia a latitare il più minimo concetto di “classe”:
Le persone si definivano non più attraverso il proprio lavoro, ma attraverso le merci che compravano o i luoghi in cui andavano in vacanza. […] In realtà era una cortina di fumo: la lotta di classe continuava sotto le maschere del carnevale della classe media.
Un rapporto con le merci ad oggi sbiadito, almeno per quanto pertiene al precariato cognitivo dei settori culturali e creativi: non si nota più un identitarismo legato ai consumi, ma al suo posto una spinta alla definizione attraverso il proprio (spesso povero) lavoro, una rivalsa in odore di neo-francescanesimo che fa a meno del rapporto con le merci ottenibili dalle ore lavorate, perché l’importanza data al proprio mestiere in alcuni settori è veicolata dal poter dire: “Faccio questo lavoro” e gioirne.
Una cultura del lavoro intimamente tossica, che l’autore rende molto bene nel secondo fulminante capitolo: All’unica persona working class nella stanza.
Per diventare uno scrittore, o un traduttore, o un editor, i tuoi genitori devono investire su di te, anche e soprattutto dopo l’università. Devi continuare a studiare, collezionare corsi e master, frequentare scuole, quasi sempre private, di traduzione, di scrittura, di editoria. Inoltre devi poter stare nelle città giuste, e cioè Roma e Milano. Se vivi in provincia, sarai escluso dalle tertulias dove si fanno gli incontri che contano e si decidono gli scrittori da arruolare, dove arrivano le voci su una posizione nell’ufficio stampa che si sta liberando. […] Perché per arrivare nel mondo della cultura tu devi fare chilometri, mentre qualcun altro deve solo aprire l’agenda telefonica dei suoi genitori.
Un ritratto fedele e veritiero di un’industria che “piange miseria ma ha un fatturato di primo piano”, e che si nasconde dietro la foglia di fico della cultura ma primeggia per classismo: “da un lato sfrutta la vanità di chi la prende come un’attività amatoriale, dall’altro il lavoro degli operai che con il sudore stampano quei libri e li movimentano nei magazzini”. Un settore in cui l’insistenza sulla bellezza del lavoro culturale annebbia gli occhi di molti di una “una manodopera specializzata e sottopagata che deve scoprire la lotta di classe, oltre che i refusi”.
Il cuore pulsante della diagnosi di Prunetti, però, è l’analisi di Acciaio di Silvia Avallone, l’opera che narra l’amicizia e le gesta di due ragazze adolescenti che vivono e crescono nella realtà operaia dell’acciaieria di Piombino, città di origine di entrambi gli autori. Arrivare a questa parte significa doversi occupare del rapporto tra realismo e letteratura perché è Prunetti stesso a metterlo in campo nel suo dispositivo critico:
“La rappresentazione che questo romanzo dà della classe lavoratrice è priva di qualsiasi realismo, a tratti grottesca. Non nel senso stilistico, piuttosto nell’aderenza rispetto alla realtà che le parole designano”; nella fattispecie, il testo soffre di elementi esiziali come “il misrepresenting, il fallimento intersezionale e il collocamento del lettore-modello nella posizione del voyeur”.
Il punto più critico, in cui la mancata responsabilità autoriale arriva al proprio climax, è da rintracciarsi per Prunetti nella descrizione della morte di Alessio, uno dei giovani operai dell’acciaieria. Nel penultimo capitolo di Acciaio, Alessio muore durante un turno in fabbrica e, tramite la testimonianza di una “vedova di un operaio morto sul lavoro”, l’autore ha ragione di credere che questo episodio si ispiri alla morte di Luca Rossi accaduta alcuni anni prima dell’uscita del romanzo. Si presenta un evidente parallelismo:
La morte di Alessio, l’operaio strafatto e distratto, ucciso da un collega nel reparto vergelle dopo aver telefonato a Elena, in Acciaio di Avallone. La morte di Luca Rossi, ucciso da un collega nel reparto vergelle, dopo aver fatto una telefonata a Elena, sua moglie, nella realtà.
Solo che nella realtà l’operaio ci rimette la vita “perché le norme della sicurezza non erano rispettate dalle aziende che dovevano farle rispettare”, mentre nella finzione di Avallone sembrerebbe che la colpa della morte ricada sull’operaio stesso perché è “strafatto”. Aggiunge Prunetti: “il problema è che la scrittura quando fa i conti con la realtà deve saperlo fare bene. Se esci dalla torre d’avorio, devi impegnarti a rispettare le storie delle persone che racconti”.
È senz’altro vero che esistono molteplici prospettive da cui prendersi l’incarico di raccontare una storia, e alcune di esse sono meno caute e accoglienti. Ciò premesso, tuttavia, avvalendosi della lettura di Realismo e letteratura. Una storia possibile di Federico Bertoni, diviene possibile segmentare il concetto monolitico di realismo, e parlare quindi di un “realismo plurale”, la cui presenza nel testo agisce su quattro livelli. Prunetti stesso ne individua due su quattro e spiega opportunamente come, da un punto di vista stilistico, il libro di Avallone non funzioni perché maneggia in modo goffo alcune tecniche di rappresentazione, e da un punto di vista tematico-referenziale l’universo di finzione dell’autrice sembra regolato da norme diverse rispetto a quelle che agiscono nel mondo.
Purtuttavia, sempre nel contesto dell’ipotesi di Bertoni, esistono altri due livelli in cui il realismo agisce, chiamati dal critico “semiotico” e “cognitivo”; e riguardo a quest’ultimo, bisogna pur ammettere che a livello cognitivo la rappresentazione letteraria della realtà può essere invece un “nuovo codice di lettura del mondo che infrange norme, canoni e schemi convenzionali, mostrando aspetti inediti della realtà”, come chiosa Pierluigi Pellini in Allegoria 56. Ovvero, al livello che attiene alla relazione estetica e alla proiezione nell’orizzonte di esperienza del lettore, la letteratura può e deve sparigliare le carte del reale e avanzare questioni mai poste; in altre parole, facendosi artificiale essere più “vera” del nudo fatto occorso.
Se nel libro la morte di un personaggio finzionale, che molto assomiglia a un episodio tragico, accade in un certo modo – magari utile nella parabola esistenziale del personaggio stesso – e quindi non ricalca pedissequamente l’evento reale, mi ritrovo a chiedermi se non si possa concedere che nello spazio di libertà dell’opera si apra un “leggero strappo”, ovvero se un fatto rielaborato dalla finzione possa sollevare riflessioni non nonostante, ma grazie al rifiuto di aderire al fatto di cronaca in modo assoluto.
E dunque, in quello che è per Prunetti il punto più teso del testo di Avallone, in quello stesso spazio rimane, per chi scrive, un dubbio, ovvero se il realismo possa raggiungere il proprio effetto di realtà anche diagonalmente, se “rispettare le storie delle persone” significhi riportare una vicenda per filo e per segno o se, invece, al di là del caso di specie, non si possa concedere un’autonomia anche rischiosa. Se l’interrogativo è “Si può ancora fare poesia quando in Italia muoiono tre lavoratori ogni giorno?”, la risposta è: sì, è fondamentale che i libri ci siano, e che esistano dentro un mondo in cui le prospettive coabitino dialettiche e legate da un realismo plurale. E che per ogni Acciaio di Avallone che scivola su alcuni cliché, esista un Amianto di Prunetti, perché “trasformare il mondo, e rovesciare un immaginario, è un fottuto lavoro. Non è un pranzo di gala, non è neanche una festa letteraria”.