L a cultura audiovisiva contemporanea è pervasa dalla costruzione e produzione di multiversi, iperrealtà (direbbe Baudrillard) autosufficenti e intertestualmente connesse. La grande forza di queste produzioni – benché si provi, al momento, la sensazione di una saturazione e della chiusura della loro fase espansiva – sembrerebbe risiedere nel modo in cui implicano la possibilità di sganciare le immagini filmiche dal piano allegorico e metaforico. Al posto di spazi, luoghi e figure dell’immaginario che condensano un insieme di tensioni, sogni, aspirazioni, ansie e conflitti (le codificazioni di questi processi formano i generi e le loro variazioni), troviamo la configurazione di mondi finzionali che operano in modo fortemente autoreferenziale e offrono visioni concluse, al punto di sembrare astrazioni incapaci di relazionarsi ad una realtà al di fuori di esse.
In questo senso, allo scopo di evitare una facile distinzione fra mainstream e cinema d’autore, che ci porterebbe a identificare questo trend esclusivamente nei prodotti Marvel e DC, anche la cosiddetta scena indipendente sembra nutrirsi di proprie “realtà parallele” autosufficienti: la trilogia di Gioia Tauro di Jonas Carpignano, le periferie statunitensi e i losers di Sean Baker, il northwest di Kelly Reichardt, o i reietti mistici di Paul Schrader, sono solo alcuni esempi di un possibile legame fra il cinema commerciale e gli altri cinema. Su questa linea, con Un autre monde (Un altro mondo, 2022), la coppia Stephane Brizé-Vincent Lindon (laddove il ruolo autoriale andrebbe quantomeno esteso al personaggio principale creato-interpretato da Lindon) sembra chiudere quella che appare come una trilogia del lavoro, avente al centro il corpo del famoso attore francese, di volta in volta alle prese con diversi ruoli e funzioni all’interno della continua precarizzazione della vita quotidiana.
La loi du marché (“La legge del mercato”, 2015, distribuito nel mondo con il titolo The Measure of a Man, da noi La Misura di un Uomo), primo capitolo di questa saga (?), mappa l’entrata di Thierry, un ex operaio di mezza età, nei meccanismi della gig economy. Valutazioni, continua formazione, individualizzazione, senso di colpa e la perdita di status e di un ruolo sociale attribuito all’occupazione stabile segnano il percorso doloroso del protagonista nell’accettazione sofferta di una nuova realtà lavorativa. A questo tragitto è associato un continuo sostrato di violenza, di rapporti sociali perversi di cui si è sia vittime che carnefici, in cui l’individuǝ al lavoro nella sua solitudine subisce la pressione dell’esame costante del proprio capitale umano; questo controllo soggettivo assume la forma di uno scandaglio fisico, emotivo ed intellettuale della propria “resilienza”, o capacità di sostenere il dolore, a cui si accompagna la colpa di essere inadattǝ, di non fare abbastanza per tutelare la propria famiglia, insieme al dover rinunciare a tutto ciò che portava le sembianze di una buona vita. Allo stesso tempo, questo regime terrificante si traduce nella necessità di identificare in ogni collega una minaccia da scongiurare e tenere a bada così come il percepire ogni possibile compagnǝ di lotta con unǝ nuovo nemicǝ. Thierry scoprirà, nel suo conflittuale trasformarsi in un membro del precariato, di non poter accettare questa mutazione, di dover abbandonare il lavoro, anche a costo di perdere ogni legittimazione dovuta al ruolo di buon padre di famiglia che vede e provvede, in nome di una dignità inscritta proprio in quel corpo che abbiamo visto soffrire, quasi sempre al centro di ogni inquadratura.
La frustrazione di Philippe nasce dal fallimento del sogno individualizzato della persona dabbene, in cui senso del dovere, merito, affidabilità e onestà devono portare a dei positivi risultati esistenziali.
Il rifiuto più che la rivolta o l’insurrezione sembrano definire il finale e tragico suicidio di Laurent in En Guerre (In Guerra, 2018). Qui Lindon si trova nei panni di un esperto ed empatico rappresentante sindacale alle prese con una serie di mancate promesse e infide strategie di speculazione finanziaria da parte del management della propria fabbrica, la cui diretta conseguenza consisterebbe nella perdita di più di mille posti di lavoro. Anche in questo caso il senso di responsabilità, il dover provvedere per lɜ altrɜ diventa un peso insostenibile per il corpo del protagonista, che, d’altro canto, non ci appare come vittima inerte e impotente. Laurent ha esperienza, è carismatico e capace al punto da mettere in imbarazzo le presunte “competenze” delle diverse figure manageriali con le quali si trova a confrontarsi durante lunghissimi ed estenuanti business meeting, e gli viene addirittura confessato che sarebbe stato un perfetto CEO. L’intelligenza e la sapienza politica di Laurent sembrano quasi portare ad una dimensione di alto pensiero critico e analitico (lɜ verɜ ateɜ devono saper diventare pretɜ, direbbe Nietzsche) che, allo stesso tempo, si fa continuamente prassi, relazione, e strategia attiva. Eppure il disperato gesto finale del personaggio ci racconta necessariamente un fallimento, una totale disfatta (militare, appunto, pensando al titolo). La sconfitta di Laurent è la rivelazione dell’incapacità (come accadeva per Thierry) di uscire dalla propria condizione individuale. Ad essere messa in scacco, com’è possibile notare nelle varie sequenze dedicate a riunioni sindacali e discussioni di gruppo, è l’emersione di una corporeità collettiva. Interessi personali, legittime preoccupazioni finanziarie ed esistenziali minano la formazione di una costante ed efficace comunione di intenti fra lavoratorɜ, sottopostɜ ad un progressivo processo di logoramento e divisione, fino al punto di completa inefficacia politica. Il sacrificio di Laurent diventa, così, un vero e proprio martirio cristologico necessario perché una forma di coscienza di classe si risvegli e il management venga messo di fronte ad un impasse politico inevitabile, dal quale uscire solo riconoscendo la necessità di un nuovo tavolo negoziale. Ma anche un potente suicidio politico non può che sottolineare una dimensione di mancanza e impotenza, delle quali, non a caso, risponde un individuo solo nella propria estenuante lotta.
‘Un altro mondo’ opera un passaggio ulteriore: dalla violenza estrattiva e senza scrupoli dei film precedenti si passa a una logica, per usare le parole di Philippe, indecente e squallida.
Ugualmente, seppur da un punto di vista completamente diverso (Lindon si trova qui a interpretare Philippe, manager di medio-alto livello per una multinazionale nordamericana), Un altro mondo evidenzia la riproduzione di questa trappola individualizzata, in cui alla sconfitta politica si somma un eroico e sacrificale senso del dovere. Philippe cerca strenuamente di opporre nuove e creative soluzioni che impediscano alla propria azienda di effettuare devastanti tagli al personale (sotto la minaccia di una completa delocalizzazione dello stabilimento gestito anche del protagonista) e, contemporaneamente, tenta di tenere insieme i cocci di una vita professionale e sentimentale distrutta. Philippe si trova a “deludere” le aspettative di ognuna delle parti con cui prova a interagire. Moglie e figlio percepiscono il protagonista come una figura estranea (diverse sono le sequenze che dipingono Philippe cenare frugalmente da solo in ufficio); lɜ rappresentantɜ sindacali con cui si confronta sono stupitɜ di vedere quello che sembrava un dirigente affidabile e di parola ridotto a zerbino e portavoce di superiori decisioni economiche; i vertici della multinazionale e lɜ suoɜ stessɜ colleghɜ (co-dirigenti) valutano Philippe come un debole e un illuso, una persona inaffidabile e incapace di prendere decisioni spietate, radicali, ma necessarie. La frustrazione di Philippe nasce anche dal fallimento di uno specifico sogno individualizzato, quello della persona dabbene (direbbe il Furio Jesi di Cultura di Destra), in cui senso del dovere, merito, affidabilità e onestà devono necessariamente portare a dei positivi risultati esistenziali. È in nome di questo codice, quasi cavalleresco verrebbe da dire, che Philippe, di fronte alla perdita del lavoro motivata, ironicamente, dalla sua apparente inaffidabilità, si rifiuta di scaricare responsabilità e colpe su un proprio subordinato.
La sua scelta di non collaborare è posta, infatti, su una dimensione squisitamente valoriale. Parafrasando la lettera/monologo finale di Philippe: “non posso più riconoscermi con l’uomo che mi chiedete di essere, una persona che non vorrei né come amico, né come padre, né come marito, pertanto mi assumo tutte le colpe che sembrate attribuirmi”. Tale rottura e presa di posizione, pur ponendosi come donchisciottesca e limitata forma di opposizione alle logiche di accumulazione contestuali, diviene, per il protagonista, un’opportunità per recuperare quantomeno una dimensione familiare e affettiva. Non a caso, Pier Maria Bocchi parla di Un altro mondo come di un film umanista alla Michael Mann (mettendolo in relazione a The Insider, 1999). Philippe, come le diverse figure maschili di Mann, pur tenendo conto delle dovute differenze, vive fuori tempo massimo, in una realtà che essenzialmente lo ripudia e con la quale, in modo romanticamente fatalista, decide che non è più possibile scendere a patti. Insieme a questa profonda frattura soggettiva, nell’ultimo capitolo di questa trilogia del lavoro notiamo anche una particolare evoluzione dell’analisi delle dinamiche capitaliste.
In La legge del mercato emergono, in modo secco e spietato, le contraddizioni e la bestialità del mito del lavoro neoliberale, del valere “individualmente”, del dover mostrare di meritare un salario. A coprire la patina insopportabile degli slogan di autorealizzazione arrivano i corpi del protagonista e dellɜ suɜ colleghɜ, segnati dal dolore, dall’esaurimento e dalla stanchezza. In Guerra mostra un capitalismo predatorio, violento e privo di ogni capacità progettuale se non quella di massimizzare i profitti con ogni mezzo necessario e non importa a quale costo (persino quello dell’autodistruzione e del completo smantellamento di una filiera produttiva). Un altro mondo opera un passaggio ulteriore: dalla violenza estrattiva e senza scrupoli dei film precedenti si passa ad una logica, per usare le parole di Philippe, indecente e squallida. Nessun manager, con l’eccezione del protagonista, è capace di assumersi delle responsabilità decisionali o programmatiche; persino il CEO della multinazionale, nel rigettare la proposta di riduzione dei compensi dei quadri di Philippe, afferma che anche lui ha un capo severo a cui rispondere: Wall Street e lɜ azionistɜ, a cui non interessano progetti e prospettive, ma solo una regolare flusso di alti dividendi. Su questo punto si viene a definire un’insanabile tensione conflittuale: in questa fase del capitalismo non è solo l’eterogeneità di interessi dovuta a varie posizioni nella catena di comando a delineare divisioni e formazioni di classe. La stessa macchina capitalista sembra autofagocitarsi, lasciando allɜ persone singolɜ il compito (la responsabilità, ancora) di fare i conti con le macerie che essa lascia al suo passaggio.
I protagonisti della trilogia ci appaiono come forze tragiche nel loro assoluto rifiutare quello che gli appare come un fondamentale e assurdo limite esistenziale.
È in questo senso che il fallimento della costruzione di una dimensione collettiva si trova in linea con quella che Jason Read difinisce solidarietà negativa, operante come una delle dominanti tensioni affettive che caratterizzano la vita contemporanea. Non è l’assenza di un senso di ingiustizia a definire l’ipercompetitività e l’atomizzazione, afferma Read, quanto la pervasiva sensazione che “la mia personale sofferenza” (di cui si è singolarmente proprietariɜ) implichi la diffidenza se non l’aperto contrasto con chiunque cerchi di portare il dolore e la rabbia sociali al di fuori di una sfera esclusivamente privata. Non si ha alcuna fiducia nel sogno imprenditoriale e nella futuribilità capitalista, eppure si continua nella stessa direzione, seguendo la logica di un “si salvi chi può” a cui non si accompagna neanche uno scaltro cinismo, ma soltanto l’incapacità di immaginare alternative e possibili vie di fuga. I protagonisti della trilogia ci appaiono come forze tragiche proprio nel loro assoluto rifiutare quello che gli appare come un fondamentale e assurdo limite esistenziale. I loro corpi sono sempre centrali, presi in una morsa di relazioni e sguardi (talvolta fuori campo, dall’alto, ma anche orizzontalmente diffusi nello spazio filmico) e tentano disperatamente di ribaltare la pressione a cui vengono sottoposti. Ciononostante, come si è discusso, la loro rivolta è comunque chiusa all’interno delle logiche della responsabilità individuale (di cui si fanno inevitabilmente carico) e della rinuncia personale. Inoltre, si potrebbe anche puntualmente alludere a come la loro protesta manifesti la paura e la rabbia provocata dalla loro “femminilizzazione”, o dalla perdita di status tipicamente associata al maschio-lavoratore padre di famiglia, e al senso di pervasiva vulnerabilità a cui possiamo associare tale frattura.
Eppure le potenti immagini di questi film ci dicono qualcosa che va oltre la precisa analisi della trasformazione di determinate categorie sociali. Come già sottolineato da altrɜ, quello di Brizé-Lindon è un cinema del reale e di attorɜ nel senso più alto del termine. La macchina da presa dà spazio alle corporeità, come si è più volte sottolineato, ma anche alla relazionalità e alla contestualizzazione di queste soggettività. Se Philippe, Laurent, e Thierry, talvolta ci appaiono impotenti non è tanto in nome di mancanze e colpe individuali, quanto per la coscienza di una realtà che esiste al di fuori del controllo individuale. Come evidenziato ancora da Bocchi, questi film lavorano per accumulo: i volti si sommano gli uni agli altri nelle sequenze di continuo confronto e discussione; Lindon trova sempre uno spazio prioritario, ma lo fa confrontandosi con schermi, persone, e spazi che ne deformano o testano i limiti soggettivi. Ogni momento è carico di una potente intensità drammatica, ma ciò non ci fa attribuire ai tre protagonisti uno status superiore o privilegiato; anzi, ci sembra di poter costruire una relativa “giusta” distanza con queste figure, tale da permettere di assorbire con quanta più forza possibile la dimensione ecologica delle loro esistenze. Paradossalmente, quelle che sembrano e, per un certo verso, si strutturano come potentissime parabole tragiche individuali divengono riflessioni politiche in cui ogni gesto, decisione e turbamento è un atto pubblico. I fallimenti di Philippe, Laurent, Thierry ci appaiono come dei test, dei tentativi di uscire da percorsi solitari; segnano, seppur in modo drammatico e toccante, la necessità di costruire un’alleanza fra corpi che rompa le logiche e la nefasta forza della solidarietà negativa, rivelandone anzi la meschinità e la stupidità a cui essa andrebbe associata. Mostrano, infatti, il bisogno di “un altro mondo”.
L’arte, quando porta con sé l’emersione di uno stile, è per definizione marxista e materialista. Non interpreta il mondo, lo cambia.
La forza di queste immagini e dell’universo filmico che abbiamo attraversato ci permette di tornare a chiederci, tornando al discorso sui multiversi nel cinema, quale sia allora il rapporto fra mondi audiovisivi e il reale nel senso più ampio ed enigmatico del termine. Chi scrive ama pensare che le arti non abbiano mai avuto il compito di costruire simboli e codici per cristallizzare e incasellare il mondo, ma che possano invece costruirlo, re-immaginarlo, trasformarlo e che, pensando allo scorrere di immagini filmiche, siano materialmente inserite nella realtà invece di esistere come astrazioni e pure figurazioni. In tal senso, allora, la creazione di universi paralleli dovrebbe apparirci come l’estrema realizzazione di una forma espressiva, la dimostrazione di un’assoluta capacità generativa. Ma forse andrebbe identificata proprio all’interno di questa tensione la differenza e la conflittualità che caratterizza la cultura audiovisiva contemporanea: molte di quelle che chiamiamo saghe e multiversi rappresentano il mondo e i personaggi al suo interno, trattano il proprio materiale come un insieme di segni astratti, di per sé privi di carica affettiva, evocativa, e creativa. Così facendo, questi tasselli vengono assemblati allo scopo di ottenere una valida corrispondenza di intenzioni, reazioni, e incontro di aspettative oltre ad un’interdipendenza e a una supposta coerenza all’interno del proprio universo narrativo. Da qui anche la frustrazione, il senso di debolezza che talvolta possiamo provare di fronte a nuove uscite che ci sembrano completamente esaurirsi all’interno di categorie commerciali e di consumo.
Se la trilogia di Brizé-Lindon, invece, ci sembra produrre una diversa tensione, non è semplicemente per i suoi profondi contenuti sociali, o perché dovrebbe rispettare i canoni e le categorie del cinema d’impegno. Questa saga trova la sua forza espressiva, come abbiamo visto, a partire da una potente riflessione sul linguaggio cinematografico e stabilisce uno stile, una singolarità all’interno della forma. I tre film discussi usano i propri protagonisti come strumenti per sondare, quasi in forma completamente sperimentale, i limiti di una trappola politica e antropologica generale trasformando ogni inquadratura e ogni scelta estetica in un’occasione per ripensare il medium e le sue possibilità. Quello che solitamente definiamo stile non è un vezzo, una banale estrosità estetica, né l’espressione di una qualità individuale. Lo stile è ciò che discrimina l’arte dalla rappresentazione; è ciò che in ogni forma artistica non risolve, non chiude, ma crea, e nel suo creare traccia nuove possibilità espressive ed esistenziali. Lo stile eleva personaggi a forme di vita, a tensioni e relazioni, fa di ogni narrazione un problema da ripensare, di ogni spazio finzionale una mappa e un nuovo territorio, di ogni immagine una possibile frattura esperienziale. Lo stile è la potenzialità politica inscritta in ogni esperienza estetica. Chiudo queste riflessioni evocando quello che sembrerebbe un paradosso: l’arte, quando porta con sé l’emersione di uno stile, è per definizione marxista e materialista. Non interpreta il mondo, lo cambia. A chi osserva il dovere di capire come.