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l problema non è il desiderio, ma la paura dell’omosessualità. Questo l’assunto di partenza de Le désir homosexuel di Guy Hocquenghem (1946-88) – filosofo, attivista e secondo personaggio pubblico francese dopo Paul Verlaine a fare coming out a mezzo stampa. Con approccio anti-essenzialista Hocquenghem si interroga non tanto su cosa sia l’omosessualità, ma su come funzioni, o meglio, su come viene recepita dalla società. Cosa succede alle strutture sociali di potere davanti al desiderio omosessuale? Quali sono i meccanismi che queste mettono in atto per contenerlo, respingerlo o assimilarlo?
Le vicende editoriali de Il desiderio omosessuale (1972) sono quantomai curiose. La prima traduzione italiana del libro si deve ad Adelina Tattilo, ex allieva di un collegio di suore, fondatrice e responsabile delle prime riviste erotiche e omoerotiche italiane ad alta diffusione (Playmen e Adam). Nonostante l’audacia editoriale, la Tattilo Editrice è costretta a sottoporre il titolo di Hocquenghem a una sorta di sublimazione lessicale, perché nella traduzione italiana la parola “desiderio” si trasforma in “idea”, certo più digeribile per il pubblico nostrano. La recente ristampa di Mimesis (2022) restituisce il saggio alle sue originarie scelte linguistiche e, grazie a una doppia prefazione, alla sua dimensione storica. Le riflessioni di Hocquenghem maturano in concomitanza con e grazie alla cosiddetta politica “frontista” o “delle alleanze”, ovvero quell’approccio alle lotte che oggi chiamiamo intersezionale o queer – si pensi al FUORI! – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano e al GLF – Gay Liberation Front negli USA, ma anche ai movimenti post-coloniali di liberazione nazionale, in primis al FLN – Front de libération nationale algerino.
Nella prefazione all’edizione francese del 2000, René Schérer (insegnante di filosofia, amico e amante di Hocquenghem) pone l’accento su come Le désir homosexuel sia la testimonianza particolare di un pensiero rivoluzionario nel suo farsi – “gesto fondatore” e “primo slancio” – oltre che un “libro-domanda”, ancora attuale per gli interrogativi che pone. Se gli Appunti del gruppo di lettura Maurice GLBTQ di Torino (2015) che accompagnano il libro sono indice di questa attualità, la forma sin troppo provvisoria che li caratterizza ne fa un’occasione mancata di ragionamento. Puntuale e utile, invece, la prefazione di Cristian Lo Iacono sul ruolo di Hocquenghem all’interno dei movimenti che nel 1968 hanno portato all’occupazione della Sorbonne, e nel 1971 alla costituzione del FHAR – Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire, fondato da un gruppo di gay e lesbiche tra cui Monique Wittig.
Sono gli anni delle contestazioni alle istituzioni psichiatriche e alla patologizzazione dell’omosessualità, tanto che nel 1973 questa viene espunta dal Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali dell’American Psychiatric Association. Ciononostante le ragioni profonde che hanno portato a fare dell’omosessualità un caso clinico erano e sono tuttora perfettamente radicate nell’immaginario. Si pensi, infatti, che ancora nel 1972 il settimanale France Dimanche pubblica La verità sull’omosessualità: una grande inchiesta che tutte le madri di famiglia devono leggere, presentandola come il frutto di un insuccesso dell’educazione.
Hocquenghem scrive che l’omosessualità minaccia lo schema piramidale del complesso edipico perché funziona in maniera orizzontale e polimorfa, molecolare.
A proposito di immaginario, nelle riflessioni di Hocquenghem riecheggiano gli studi, condotti con Schérer, sul pensiero politico di Charles Fourier. Noto per aver elaborato la teoria di una società utopica organizzata attorno al falanstèrio, Fourier è anche l’autore de Le nouveau monde amoureux (pubblicato nel 1967 dopo più di un secolo dalla sua stesura), in cui immagina una società, Armonia, dove tutti i tipi di amore – semplice, composto, poligamo, onnigamo, ambiguo – sono praticati senza repressione di sorta. Ma ne Le désir homosexuel troviamo soprattutto le tracce del Rapport contre la normalité del FHAR: una critica serrata alla presunta idea di normalità su cui si fonda la società borghese, compresa quella dell’operaio bianco ed eterosessuale.
Hocquenghem analizza innanzitutto il modo in cui le forme di vita associate all’idea di normalità derivano dal controllo della libido che la società borghese affida alla psicanalisi, soprattutto quella freudiana. È risaputo che questa colloca l’omosessualità in un limbo che oscilla tra paranoia e nevrosi, e stabilisce un nesso tra gerarchie familiari e sociali a partire dal fallo, oggetto parziale e feticcio per eccellenza da cui dipendono la sessualità e i rapporti sociali. Se Freud individua i due poli dell’organizzazione della vita psichica nell’invidia del fallo da una parte, e nella paura della castrazione dall’altra, Hocquenghem fa notare che questi diventano i pilastri di una società fallocratica e concorrenziale, dove la competizione si stabilisce sin dall’infanzia proprio a partire dal fallo, ovvero da quel particolare momento evolutivo che Freud chiama complesso di Edipo. Il desiderio del fallo, l’invidia e la paura di perderlo diventano un sistema generalizzato di funzionamento della società, tanto che anche le rivolte giovanili sono ricondotte a uno scontro generazionale tra padri e figli.
E sin qui nulla di nuovo, verrebbe da dire. Ma l’aspetto interessante su cui Hocquenghem invita a riflettere è che in questo gioco di paura e invidia familiar-sociale l’omosessuale resta automaticamente escluso. Non a caso Freud contesta la teoria del terzo sesso “intermedio” del sessuologo Magnus Hirschfeld proprio perché introduce un quarto elemento che rompe lo schema edipico (delle due teorie Hocquenghem propone uno studio comparativo). Per Freud, piuttosto, ci sarebbe dell’omosessuale in ciascuno di noi, ragion per cui questo non può essere considerato una categoria a parte, ma è come se fosse una componente tanto del maschile quanto del femminile. Una componente da sublimare: insomma, gli omosessuali sarebbero maschi e femmine che hanno sbagliato oggetto del desiderio, e questo va assolutamente sostituito per ripristinare l’ordine eterosessuale.
In realtà, l’obiettivo di questa universalizzazione dell’omosessuale non è tanto la sua accettazione, quanto l’universalizzazione di Edipo, obietta Hocquenghem, per il quale anche gli omosessuali, come le donne, “beneficiano di un’identità turbata”. Quella che porta a pratiche quali il battage – usato negli ambienti omosessuali italiani come battuage: l’incontro occasionale e anonimo che avviene in luoghi extradomestici e pubblici dove si è soliti passeggiare, che dal punto di vista psicanalitico sarebbe il sintomo di un condizione sfortunata, di dispersione e mancanza.
L’idea di Hocquenghem è che l’omosessualità sia una necessaria via d’uscita, un modo dell’esistere più che una condizione dell’essere verrebbe da dire, una precondizione necessaria a non soccombere alla colpevolizzazione e alla vergogna. Il passaggio dalla vergogna all’orgoglio è breve, ma affatto problematico per l’autore:
Il desiderio omosessuale è stato tanto ingabbiato nel gioco della vergogna, che ora in modo non meno perverso si trasforma in gioco dell’orgoglio. (…) Trasformarsi in zelanti propagandisti dell’omosessualità, trasformare il riferimento alla bisessualità freudiana nel riferimento a una ‘natura’ omosessuale opposta alla natura eterosessuale, vuol dire restare nel quadro del sistema degli amori civilizzati.
La risposta a questa sorta di aporia delle pratiche di vita omosessuali consisterebbe per Hocquenghem nel superamento sì dell’eterosessualità, ma anche dell’omosessualità, in una rivoluzione che non si accontenta del riconoscimento di una categoria protetta, e perciò resa innocua, quindi dentro il sistema, mobile ma non troppo, dei rapporti di forza. Una rivoluzione aperta alla politica delle alleanze, tanto che l’omosessualità cui fa riferimento il titolo, appare inevitabilmente provvisoria, una mera fase di transizione.
Hocquenghem, infatti, spiega che l’omosessualità minaccia lo schema piramidale del complesso edipico – “il castello di carta dell’immaginario” – perché funziona in maniera orizzontale e polimorfa, molecolare direbbero Deleuze e Guattari. Proprio da L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie (1972) l’autore riprende l’idea che l’inconscio funzioni come una fabbrica, per cui il desiderio è una merce, e l’omosessualità un prodotto della società psico-poliziesca, un costrutto di quel pensiero moderno che ha inventato anche i manicomi e le prigioni.
Non a caso, un’altra figura ricorrente nelle pagine di Hocquenghem è Jean Genet, il quale, oltre che poeta, è stato anche autore di un film a lungo censurato perché considerato pornografico, Un Chant d’Amour (1950): in una prigione tunisina, sotto lo sguardo attento di una secondino voyeur, un uomo respira attraverso un orifizio sulla parete per avvicinarsi quanto più possibile all’oggetto del suo desiderio, un tunisino recluso nella cella accanto, stabilendo un tenue contatto fisico che scivola in una proiezione onirica, capace di liberare entrambi dallo stato di cattività e di privazione sensoriale che ne ostacola la libido. Anche se Hocquenghem non fa esplicito riferimento al film di Genet, è lecito pensare che abbia avuto modo di vederlo nei circuiti del cinema indipendente e omosessuale, che lui stesso frequentava, talvota in veste di autore di alcuni film di finzione e documentari, in collaborazione con Lionel Soukaz. Si pensi a Race d’Ep (1979), film saggio sulla rappresentazione del desiderio omosessuale nel XIX secolo, o a Tino (1985), storia dell’incontro tra una ricca coppia americana e un giovane tuniso che richiama la figura di Antinoo, amante dell’imperatore Adriano.
Il film di Genet è un chiaro esempio dell’immaginario costruito attorno all’omosessualità, che viene individuata non solo come una categoria patologica, ma anche criminologica. Infatti, gli strumenti della sua condanna, psicanalisi e sistema penitenziario, coincidono con la fase avanzata del capitalismo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma in maniera ambigua: una società sempre più sessualizzata – anche grazie alla proliferazione di immagini – ma allo stesso tempo anche più repressiva, fondata su una tensione mai risolta tra colpa e trasgressione, piacere e dignità. Si tratta di una repressione che colpisce soprattutto le classi subalterne e “oppresse” e che, in maniera inversamente proporzionale, si è rafforzata nel ventennio che va dagli anni ‘50 ai ‘70 nonostante la liberalizzazione dei costumi.
Secondo Hocquenghem, “il capitalismo rende i suoi omosessuali dei normali mancati, come rende i suoi operai dei falsi borghesi”.
Non solo Hocquenghem mette in evidenza come psichiatrizzazione e reclusione, colpevolezza giuridica e psicologia della colpa siano le due facce della stessa medaglia, ma l’aspetto più interessante della sua analisi è proprio quello che riguarda il nesso tra eterosessualità e capitale. “Il capitalismo ha decodificato i flussi del desiderio, rinchiudendoli subito nella privatizzazione”, ed è per questo che il merito del movimento omosessuale, “tra i più rivoluzionari dei rivoluzionari”, sta nel fatto di sessualizzare la sfera pubblica. Al contrario, il movimento operaio tollera il fatto che “un investimento libidinale reazionario può benissimo coesistere con un investimento politico progressista o rivoluzionario, all’ombra della muraglia che separa la vita pubblica dalla vita politica”.
Il movimento omosessuale, del resto, è più vicino agli altri movimenti radicali che Hocquenghem definisce “vergini di passato politico”, fra cui il movimento delle donne e quello ecologista: nel primo caso proprio per la critica al concetto di normalità e alla segmentazione edipica “come se la dominazione della donna e la rimozione dell’omosessualità facessero tutt’uno”; nel secondo perché “a livello del desiderio, l’automobile e l’eterosessualità familiare rappresentano un solo e unico nemico” (l’autore pensa alla Manifestation à vélo del 1972). L’obiettivo critico è qui non solo il partito comunista, ma anche la sinistra gauchista che tenta di rivedere il rapporto tra desiderio e politica, immaginando un ruolo attivo del desiderio nella rivoluzione o una rivoluzione del desiderio. Per Hocquenghem, infatti, non è possibile integrare la spinta del desiderio dentro una rivoluzione già fortemente connotata dal movimento operaio, “un proletariato virile, burbero e con le spalle quadrate”, reazionario nei confronti dell’omosessualità. Ciò che occorre è un’idea nuova di rivoluzione e superare la compartimentazione delle lotte generata dal sistema familiare-edipico. Per l’autore quindi, più che a una lotta di classe bisognerebbe pensare a una “lotta di civiltà”, di umanità e di solidarietà, che aggiunge le rivendicazioni culturali e sessuali a quelle politiche ed economiche.
Il desiderio omosessuale guarda al passato e pensa al futuro. È un’operazione di scavo, nella storia del pensiero e nelle sue strutture profonde, ma è anche una lucida previsione sull’evoluzione del rapporto tra società e trasgressione omosessuale. Hocquenghem, infatti, aveva intuito che quel legame fondante e costitutivo tra capitale ed eterosessualità, sarebbe stato aggiornato in capitale e omosessualità, messo in evidenza anche da Lo Iacono:
il riconoscimento sul piano dei diritti e delle identità (…) non si è accompagnato a un superamento del capitalismo nei suoi tratti essenziali. (…) il capitalismo globalizzato e post-patriarcale è capace di fare a meno della norma eterosessuale, favorendo e anzi valorizzando (cioè sfruttando e mettendo al lavoro) la fioritura di soggettività eccentriche rispetto alla norma eterosessuale.
Per Hocquenghem, infatti, il capitalismo non ha più bisogno del patriarcato e trasforma gli omosessuali in “normali mancati”, portandoli a riprodurre i valori della coppia eterosessuale – un aspetto non privo di lati grotteschi come emerge dal recente documentario Normal (2019) di Adele Tulli. “Il capitalismo rende i suoi omosessuali dei normali mancati, come rende i suoi operai dei falsi borghesi”, rappresentanti di uno stile di vita basato sul sistema famigliare, ma soprattutto su quello dell’indebitamento e del lavoro come cappio esistenziale. Così come allora è stato capace di fare della famiglia proletaria la massima espressione dei valori borghesi, oggi fa del desiderio omosessuale la massima espressione dei valori del lusso, e di uno stile di vita brandizzato: “ciò che desideriamo è già interpretato come una trasgressione mercificata”. Un’interpretazione mercificante del desiderio (e) della rivoluzione che si fa tangibile nel rainbow washing à la Ferragnez o à la Gucci, dove tra smalti semipermanenti e bluse con il logo FUORI! su paillettes arancioni il corpo psico-somatico è ancora represso a vantaggio del corpo sociale e del capitale.