N ello scorso mese di agosto, il Tibetan Public Security Bureau, ossia la principale agenzia della polizia cinese in Tibet, ha acquistato dall’azienda del Massachussetts Thermo Fisher migliaia di kit per la profilazione genetica, con una commessa da 160.000 dollari, replicando un ordine dell’ottobre 2021, da 173.000 dollari, spesi per 3.500 sequenziatori. Secondo il sito The Intercept e secondo il rapporto di Citizen Lab, organizzazione dell’Università di Toronto che si occupa di diritti umani, la destinazione di questi strumenti e reagenti è molto chiara: servono per portare avanti la schedatura genetica di tutti i tibetani, iniziata nel 2016 e che, a oggi, ha permesso di inserire nei database i dati di un numero di persone compreso tra 900.000 e 1,2 milioni (da un quarto a un terzo di tutta la popolazione), compresi i bambini delle scuole. Le motivazioni sono quelle classiche delle politiche repressive e discriminatorie, quando non direttamente genocidarie, a tutte le latitudini e in ogni periodo storico: la salute pubblica, e la sicurezza sociale. Nel caso del Tibet, poi, la tolleranza zero contro il COVID ha rappresentato un’ulteriore occasione per accelerare l’identificazione, grazie ai tamponi obbligatori.
Ancora secondo Human Right Watch, del resto, la Cina sta consolidando una già robusta esperienza nel settore, iniziata anni fa nello Xinjiang con la raccolta dei dati genetici di centinaia di migliaia di uiguri e altre minoranze rinchiuse nei campi di rieducazione, sempre con la volenterosa collaborazione della Thermo Fisher e di altre aziende statunitensi, che continuano a trovare modi per aggirare embarghi e sanzioni. Ma i dati dei tibetani, gruppo etnico adattato a vivere in quota e caratterizzato da alcune specificità genetiche particolarissime, interessano anche a tutta la comunità scientifica mondiale che infatti, finora, non si è fatta troppi scrupoli, accogliendo le informazioni che i cinesi hanno scelto di condividere nei grandi database genetici internazionali. Hanno cioè praticato, sia pure indirettamente, la cosiddetta scienza paracadute o ricerca a elicottero, termini anglosassoni poco chiari in italiano, ma che sono utilizzati per descrivere ciò che fanno i ricercatori di paesi ricchi quando sfruttano le popolazioni di quelli più poveri per i loro studi, e ottengono risultati cui queste ultime non partecipano in alcun modo, talvolta non essendo neppure menzionate e talvolta essendone danneggiate: qualcuno lo chiama biocolonialismo. Perché praticarlo da un database europeo o nordamericano non è in fondo molto diverso dal praticarlo sul campo, se il materiale su cui si lavora ha quel tipo di origine. Nel caso specifico, uno degli archivi genetici più grandi, quello chiamato Y-Chromosome Haplotype Reference Database YHRD, tedesco, “open” e focalizzato sulle specificità del cromosoma Y e quindi dei maschi, che solo molto di recente ha reso più severe le regole sul consenso informato, ne contiene a migliaia.
I ricercatori di paesi ricchi sfruttano le popolazioni di quelli più poveri per i loro studi, e ottengono risultati cui queste ultime non partecipano in alcun modo, talvolta essendone danneggiate: qualcuno lo chiama biocolonialismo.
Le riviste scientifiche, dal canto loro, sono state più volte messe sotto accusa per aver pubblicato, dati di questo tipo, come è accaduto a uno studio uscito su Human Genetics, che definiva le differenze genetiche di tibetani, iuguri e altre minoranze, e a due studi simili usciti su riviste del gruppo Nature. Anche se il caso della Cina, che ha appena ristretto in misura rilevante le maglie della legge sulla condivisione dei dati genetici con altri paesi, è uno dei peggiori, non è di certo l’unico: in tutto il mondo sono in corso grandi studi di popolazione che, sfruttando possibilità fino a pochissimo tempo fa solo immaginate, ma oggi assicurate dei sistemi di sequenziamento rapido, con il supporto dell’intelligenza artificiale, stanno raccogliendo campioni di milioni persone, con finalità quasi non sempre chiare, soprattutto per i diretti interessati. E in non pochi casi si tratta di biocolonialismo.
Così, per esempio, negli ultimi anni sono stati condotti progetti che hanno coinvolto diverse comunità di nativi americani, i popoli San del Sudafrica, gli aborigeni e gli isolani di Torres Strait australiani, per citare alcuni dei casi più noti. E c’è anche di peggio: nel 2011 la CIA, per trovare i parenti di Bin Laden (disponendo del DNA di una sorella morta nel 2010 a Boston), ha ottenuto campioni genetici di centinaia di persone organizzando, in Afghanistan, una finta campagna di vaccinazioni gratuite anti epatite B.
Una delle vicende più emblematiche riguarda però quanto avvenuto per decenni in Europa, nella minoranza etnica per eccellenza: quella composta da dieci/dodici milioni di Rom e Sinti, ricostruita in un’inchiesta uscita su Nature nel 2021. Come riferiscono gli autori, in parte esponenti delle comunità stesse, l’origine di queste popolazioni è quasi sicuramente in India, ma dalla diaspora iniziata tra 600 e 300 anni fa a oggi tutto è cambiato. Ciascuno dei gruppi, nonostante molti siano rimaste relativamente isolati, ha ormai un suo radicamento, tradizioni e abitudini proprie, e diversi livelli di rapporti con le popolazioni circostanti. Tutti comunque condividono, da centinaia di anni, un’identità fortemente europea, ed è quindi di per sé bizzarro decidere che un certo gruppo sociale contemporaneo rappresenti un’etnìa indiana “pura” trapiantata altrove. Eppure, per decenni, l’isolamento li ha trasformati in una formidabile attrazione per i genetisti e gli antropologi medici di tutto il mondo, come dimostra il fatto che, tra il 1921 e il 2021, sono stati pubblicati almeno 450 studi su di loro. Nel già citato archivio YHRD, i campioni di Rom e Sinti raccolti nel tempo hanno costituito una bizzarra anomalia, e hanno reso queste popolazioni iper-rappresentate rispetto a tutte le altre, creando distorsioni palesi: alla voce Bulgaria, paese la cui popolazione è composta all’84% da bulgari, all’8,8% da turchi e a meno del 5% da Rom, l’archivio ha una rappresentazione rovesciata, secondo la quale i Rom sarebbero il 52,7%, i bulgari meno del 37% e i turchi il 10%. Lo stesso accade alla voce Ungheria, dove nella realtà gli ungheresi sono circa il 98% e i Rom poco più del 3%, ma nell’YHRD sono, rispettivamente, il 62 e il 37%. Ma c’è di peggio: ciò che è accaduto, per anni, in Slovacchia.
I dati genetici dei Rom e dei Sinti oggi sono ospitati in una mezza dozzina di database europei e nordamericani, alcuni dei quali non richiedono alcun consenso informato del diretto interessato.
Nel 2015 la Commissione Europea ha avviato una procedura di infrazione perché il paese continuava a tenere in piedi una legge degli anni Settanta, rinforzata negli anni Novanta, che prevedeva di inserire i bambini Rom e Sinti, identificati su base genetica, in scuole speciali, per studenti con un lieve ritardo mentale, nelle quali il livello di istruzione era nettamente inferiore rispetto a quello delle scuole normali. La giustificazione erano mai dimostrati deficit cognitivi che sarebbero provenuti dall’endogamia, cioè dal mancato ricambio genetico di quell’etnìa così “pura”. Solo nel 2020 il governo ha avviato un’indagine. Ma la legge, per il momento, è ancora lì.
E non c’è solo l’YHRD: i dati genetici dei Rom e dei Sinti oggi sono ospitati in una mezza dozzina di database europei e nordamericani, alcuni dei quali non richiedono alcun consenso informato del diretto interessato. E le domande, molte delle quali decisive per l’attendibilità dei dati, sono tuttora in attesa di risposta. Come si è deciso chi includere nella definizione di Rom o Sinti? Si è arruolato solo chi “si sentiva” tale o chi lo era in base alle proprie ascendenze? E in quest’ultimo caso, quante generazioni sono state prese in considerazione? Come sono stati ottenuti quei campioni negli ultimi venti o trenta anni, cioè da quando esistono codici etici specifici e direttive per il consenso informato? Come sono state valutate le commistioni con le popolazioni locali? Quali benefici ci sono stati, se ce ne sono stati o ce ne sono, per chi ha fornito la materia prima biologica? E ancora: come sono stati tutelati i partecipanti, considerando che, ancora oggi, in media, Rom e Sinti hanno redditi molto bassi e livelli di scolarizzazione inferiori a quelli della zona in cui sono insediati (ancora nel 2016, in nove paesi europei un terzo non aveva accesso diretto all’acqua potabile, e uno su dieci all’elettricità)?
A livello europeo, finora, la quota maggioritaria dei campioni dei database genetici che contengono gruppi etnici minoritari è stata quella proveniente dalle carceri, perché molti paesi non prevedono alcun consenso, anzi, prevedono l’obbligo di schedatura genetica. All’origine di quelle raccolte di dati c’è un’esigenza di sicurezza sociale: la stessa avanzata per gli uiguri, o dei tibetani.
In altri casi, invece, lo scopo dichiarato era ed è qualche studio sulle malattie genetiche, con autorizzazioni e moduli per il consenso informato che, secondo gli autori, o sono estremamente vaghi, o sono talmente specifici che nessuna persona senza una formazione in biologia o medicina potrebbe comprendere cosa c’è scritto. In altri, poi, è stata documentata una ricompensa, pratica considerata dalla stragrande maggioranza delle autorità bioetiche internazionali semplicemente inaccettabile, a maggior ragione quando rivolta a persone socialmente vulnerabili. Non esiste, infine, per Rom e Sinti, alcun caso noto di progetto collaborativo, cioè ideato e poi gestito insieme ad esponenti delle comunità. E ciò che è peggio è che potrebbe essere stato tutto inutile: raccogliere campioni da gruppi supposti “chiusi” espone al rischio di gravi errori statistici: tutti quei dati rischiano di non avere alcuna utilità scientifica, perché nascono viziati.
Negli ultimi anni sono stati condotti progetti che hanno coinvolto diverse comunità di nativi americani, i popoli San del Sudafrica, gli aborigeni e gli isolani di Torres Strait australiani, per citare alcuni dei casi più noti.
Ma un’altra via è percorribile, come dimostra il caso del Messico. Lì, tra il 1998 e il 2004, l’Università di Oxford, in collaborazione con il Ministero della salute messicano, ha sguinzagliato migliaia di infermieri specializzati con la missione di raccogliere i campioni e i dati clinici di 150.000 abitanti di due sobborghi di città del Messico, e portarli al sicuro in Gran Bretagna. Da allora, provette e cartelle del Mexico City Prospective Study hanno riposato per quasi due decenni nella campagna inglese. Poi, nel 2016, un primo grande risultato ha evidenziato una mortalità straordinariamente alta tra chi si era ammalato di diabete: un dato interessante, ma che per essere pienamente convalidato e compreso aveva bisogno di uno sforzo che il consorzio, da solo, non poteva affrontare. Per questo nel 2019, i responsabili hanno chiesto aiuto a un colosso delle biotecnologie, Regeneron e a due aziende farmaceutiche, AbbVie e AstraZeneca, per sequenziare e analizzare i materiali più velocemente. Detto fatto: nel giro di pochi mesi è stata scoperta una mutazione, chiamata GPR75, che protegge dall’aumento di peso e quindi anche dal diabete di tipo 2. Lo studio, pubblicato su Science, ha portato Regeneron e AstraZeneca a sviluppare in pochissimi mesi farmaci sperimentali antiobesità che, se dovessero essere approvati, garantirebbero introiti stellari. I quali però, secondo i contratti, dovrebbero essere condivisi con il Ministero della salute messicano e con l’università di Oxford, tutti detentori della proprietà intellettuale delle informazioni collegate al progetto, e delle loro ricadute commerciali.
Negli anni successivi sono stati fatti ulteriori progressi, partendo da quell’accordo comunque non del tutto limpido, e di cui sarà interessante verificare l’esito, qualora si dovesse arrivare ai farmaci. Nel 2016, infatti, Andrés Moreno Estrada, un genetista del Laboratory of Genomics for Biodiversity di Irapuato, ha dato vita, anche lui in collaborazione con l’Università di Oxford, al MX Biobank Project, inserendo i campioni e i dati dei primi 6.000 messicani di alcune zone rurali e comunità indigene. Ma si è ben guardato dal mandare i campioni in Gran Bretagna: questa volta tutto resterà in Messico, anche se gli studi si faranno insieme. È un segnale importante, in un paese dove dal 2008 esiste un’inapplicabile legge sulla “sovranità genetica” e dove, secondo il sito di informazione medica Stat, esiste un doppio standard, rigoroso con gli stranieri, e flessibile con i messicani: diversi gruppi di ricerca starebbero portando avanti ricerche a elicottero sulle popolazioni indigene, e guarda caso la legge sovranista non cita i diritti dei nativi.
Bisogna fare di più, secondo diversi genetisti messicani, e cioè coinvolgere le popolazioni studiate nell’ideazione delle ricerche, della definizione dei quesiti per i quali cercare risposte, e definire da subito le modalità dello studio, e poi la custodia dei dati, e la distribuzione dei profitti o dei benefici di qualunque altro tipo.
Quello che bisognerebbe fare è coinvolgere le popolazioni studiate nell’ideazione delle ricerche e definire da subito le modalità dello studio, la custodia dei dati e la distribuzione dei profitti o dei benefici di qualunque altro tipo.
È quello che stanno facendo gli aborigeni australiani, dopo decenni di biocolonialismo interno ed esterno, attraverso il National Centre for Indigenous Genomics, nel cui board siedono soprattutto rappresentanti delle popolazioni native, che decidono quali domande affrontare negli studi. Ed è ciò che si sta cercando di fare con i SING, Summer Internship for Indigenous peoples in Genomics, workshop che hanno scopo di formare i membri delle popolazioni indigene nelle discipline genetiche, epidemiologiche e bioetiche. Il modello, nato in Canada e Stati Unito, è stato introdotto anche in Nuova Zelanda e in Australia, ed è probabilmente una delle formule più efficaci di emancipazione dal biocolonialismo, perché investe sulle nuove generazioni, affinché vi siano ricercatori ed esperti in grado di dialogare alla pari con i colleghi dei paesi più ricchi.
In questi ultimi, il biocolonialismo assume forme più raffinate, ma non meno insidiose. Per citare solo gli esempi più noti, i dati del primo grande censimento genetico nazionale, il grande progetto DeCODE, lanciato in Islanda nel 1996, dal 2012 sono di proprietà del colosso delle biotecnologie Amgen, insieme ai dati clinici e alla storia di oltre 1.700 famiglie, mentre lo stato di Israele, durante la pandemia, ha ceduto i dati dei suoi cittadini (che hanno aderito firmando il consenso) a Pfizer, per avere un accesso prioritario ai vaccini. Dal canto loro questi ultimi, come accade ormai da anni con molti farmaci sperimentali, sono stati per lo più sperimentati, da parte delle aziende coinvolte, in paesi poveri come l’India o il Sud Africa, dove esiste un mercato di esseri umani che si prestano alle sperimentazioni cliniche, quasi sempre per pochi spiccioli, fornendo dati che, oltretutto, per vari motivi, spesso non sono o non sarebbero adattabili ai reali utilizzatori finali dei farmaci.
Nello scorso mese di maggio sono iniziate le udienze dell’ultima causa intentata dagli eredi di Henrietta Lacks, la donna afroamericana morta del 1951 per tumore della cervice uterina dalla quale furono ottenute, senza permesso, le cellule tumorali che ancora oggi sono chiamate HeLa (dal nome della donna). Le HeLa sono usate in tutto il mondo per scopi di ricerca, e la vicenda è stata al centro del fortunato libro di Rebecca Skloot. Sui banchi degli imputati siedono i legali dell’azienda del Massachussetts che ancora oggi commercializza le HeLa senza riconoscere agli eredi il dovuto (questa l’accusa): la Thermo Fisher.