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el suo libro Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati (Mimesis 2021) Giulia Grechi racconta la storia della restituzione ai nativi della Nuova Zelanda delle sedici teste Maori conservate nelle collezioni museali francesi. Si tratta di teste mummificate e tatuate, chiamate Mokomokai, che appartenevano sia agli antenati che ai capi di clan nemici. Nel primo caso venivano custodite in scatole finemente intagliate, nel secondo esposte come trofei sulla pubblica piazza e scambiate con i rivali nei momenti di pace. All’inizio del diciannovesimo secolo, con l’arrivo degli europei in Nuova Zelanda, le teste divennero merci di scambio, barattate con i bianchi in cambio di armi da fuoco e oggetto di collezionismo.
La restituzione delle teste da parte della Francia ha una storia articolata ed emblematica; auspicata dalle popolazioni Maori, prese il via nel 2007 su iniziativa dell’allora sindaco della città di Rouen, Pierre Albertini, e del direttore del Musée d’Histoire naturelle della città, ma fu bloccata sul nascere dal Ministro della cultura francese Christine Albanel. Successivamente, il tribunale francese dichiarò che le teste non potevano essere restituite perché facevano parte del patrimonio culturale della Francia. Solo nel caso in cui fossero state ufficialmente “declassate” dallo status di opera d’arte avrebbero potuto lasciare l’Europa.
Le teste avrebbero potuto lasciare l’Europa solo nel caso in cui fossero state ufficialmente ‘declassate’ dallo status di opera d’arte.
Dove risiede il valore artistico aggiunto di un resto umano ? Chiaramente nell’essere esposto in un museo. Secondo l’antropologo Renato Rosaldo, che per anni ha vissuto con gli Ilongot, tagliatori di teste dell’isola di Luzon nelle Filippine, il museo viene considerato “una rappresentazione fedele delle etnografie classiche e delle culture che esse descrivono”. Rosaldo sostiene che i musei operino una mummificazione: “Il museo congela il tempo, le culture appaiono immobili”. Le teste diventano quindi “oggetto estetico degno di essere contemplato”.
Grechi cita un tentativo di risposta alla presa di posizione del Ministro della cultura francese: l’opera Fair Trade Head dell’artista Maria Thereza Alves. Nell’Ottocento la domanda europea di teste maori tatuate era talmente alta da spingere i capi dei clan a ordinare di tatuare il volto dei loro schiavi per poi decapitarli e venderne la testa. Lo stesso destino a volte colpiva gli europei meno accorti, le cui teste finivano nelle case di ignari collezionisti oltreoceano, come racconta Frances Larson nel suo volume Teste mozze: storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri (Utet, 2016). In occasione di Manifesta 2008 Alves inventa un mercato “equo e solidale” delle teste. Una giovane donna europea offre la propria, decorata “alla Maori”, in cambio di quelle tenute prigioniere nei musei francesi, attivando una forma di reazione emozionale nel visitatore. Come reagiremmo di fronte alla decapitazione di una giovane europea? Ci sembrerebbe un’operazione puramente estetica? La provocazione viene spinta ulteriormente: l’artista offre al pubblico un numero di telefono da chiamare in caso si voglia donare anche la propria testa per la causa.
Nel caso delle teste musealizzate esiste una forma di distanza, di oggettificazione, su cui Alves riflette e che è in grado di colmare attraverso la sua opera. A questo proposito Grechi ci spiega che il museo etnografico, per essere decolonizzato, può beneficiare di operazioni artistiche che non intendono porsi come strategie di sovversione, quanto tattiche di deviazione, di disturbo, messe in atto allo scopo di rendere vulnerabile il dispositivo museale, esplicitandone le dinamiche, e permettendo un processo di emersione del rimosso, di ciò che è stato reso invisibile, proprio a partire dall’evidenza del mostrato.
Nell’Ottocento la domanda europea di teste maori tatuate era talmente alta da spingere i capi dei clan a far tatuare il volto dei loro schiavi per poi decapitarli e venderne la testa.
Oggi molti visitatori dei musei etnologici europei considerano ogni resto umano, che sia mostrato o semplicemente custodito, come una vera e propria violazione della dignità umana a causa degli atti di violenza spesso collegati ad esso. Se un cosiddetto “oggetto” di una qualsivoglia collezione è costituito in tutto o in parte da materiali di origine umana, ciò pare essere di per sé una giustificazione sufficiente per vietarne l’esposizione. È il problema che pone Eva Raabe, direttrice del Weltkulturen Museum di Francoforte, in un lungo e dettagliato articolo dove racconta l’esperienza dell’esporre teschi di antenati provenienti da Papua Nuova Guinea presso il museo che dirige. L’articolo di Raabe nasce dall’esigenza di ampliare lo sguardo del pubblico ed esaminare le sue reazioni emotive rispetto ai resti umani nei musei prendendo ad esempio, in particolare, il caso relativo ad alcune teste di antenati Iatmul, Medio Sepik; questo popolo credeva che i crani dei propri avi fossero una manifestazione di vitalità. In alcune occasioni specifiche, venivano mostrati in pubblico per dimostrarne la potenza. La loro importanza venne meno nel corso del tempo e alcuni esemplari furono venduti ai collezionisti europei. Riferendosi al contesto d’origine di questi resti, Raabe fa notare che la sensibilità locale e nativa può essere molto diversa dalla nostra:
se nella società d’origine sussistono le condizioni di un contesto sacro senziente e il significato culturale viene rappresentato correttamente, non è forse vero che la critica all’esposizione del teschio dell’antenato deriva in realtà da una specifica sensibilità europea/occidentale che riflette un determinato momento storico?
Raabe ci pone di fronte al fatto che non c’è un modo univoco di vedere le cose ricordandoci che il contesto di origine è importante e che, in certe nostre reazioni legate alla sensibilità contemporanea e occidentale, si nasconde un pericolo. Tornando ad Alves: operazioni come Fair Trade Head mettono in discussione la neutralità del display museale e riportano alle questioni che stanno alla base della storia coloniale dei musei e alla nostra freddezza di fronte ad altre culture. Ma nel prendere ad esempio il gesto della Alves, c’è il pericolo che si annullino le differenze tra una cultura e l’altra. Le teste Maori sono paragonabili alle teste Iatmul?
Molti visitatori dei musei etnologici europei considerano ogni resto umano, che sia mostrato o semplicemente custodito, come una vera e propria violazione della dignità umana.
La lezione più significativa in questo senso è quella di John Mulvaney, archeologo, attivista per i diritti degli aborigeni e dell’ambiente, considerato il “padre dell’archeologia australiana”. Di fronte al problema di cosa fare dei resti umani contenuti in collezioni museali del suo paese, Mulvaney prese due posizioni differenti. Nel primo caso si trattava dell’ultima donna della Tasmania, Truganini, considerata per tutta la vita una curiosità antropologica. Il suo corpo, subito dopo la morte, fu musealizzato ed esposto come una rarità. Mulvaney si batté per far sì che lo scheletro venisse restituito al luogo della comunità d’origine e cremato con la dignità che la donna meritava. Nel secondo caso, Mulvaney si oppose fermamente alla restituzione e sepoltura dei resti umani musealizzati di alcuni aborigeni, ritrovati durante degli scavi archeologici. Attraverso la datazione al carbonio 14 si sarebbero potute ottenere ulteriori prove dell’occupazione dei popoli nativi di quei territori dell’Australia, favorendo la causa della rivendicazione dei territori delle comunità. Per Mulvaney non si trattava di fare un formale gesto simbolico – forse caldeggiato dalla politica? – per ovviare a ciò che era stato fatto in precedenza da conquistatori, istituzioni e colleghi studiosi. La cosa giusta da fare per l’archeologo era entrare nel cuore delle questioni. L’esempio di Mulvaney ci dimostra che, come ci insegnano molte delle culture indigene, gli antenati sono tra noi e hanno modo di manifestare la loro forza vitale contribuendo attivamente a cambiare il presente e a costruire un futuro diverso. L’archeologo ci insegna a diffidare da letture ideologiche affrettate e a rimanere pazientemente fedeli alle differenti situazioni di contesto.
Siamo sicuri che la fretta per cui vogliamo fare la cosa giusta non si ribalti in una ridicola incapacità di metterci davvero in relazione con altre culture?
Il rischio intrinseco alle operazioni di critica istituzionale dei musei etnografici, dunque, è che il visitatore, ignaro dei motivi che spingono una cultura a imbalsamare e preservare una testa, sulla scia delle emozioni, faccia l’equazione testa tagliata uguale violenza uguale museo coloniale. Equazione in parte corretta, visto che i nostri musei sono colmi di reperti rubati, trafugati, legati a storie raccapriccianti che la maggior parte di noi ignora, ma che non può essere la sola logica in campo. Nel dibattito attuale sul “che fare” dei musei, sulla loro fondamentale macchia di essere portatori di una cultura neocoloniale, sul bisogno delle restituzioni, sul riscatto che i musei devono pagare verso i popoli indigeni, sul fatto che si debba fare giustizia, occorre fermarsi un attimo: siamo sicuri che la fretta per cui vogliamo fare la cosa giusta non si ribalti in una ridicola incapacità di metterci davvero in relazione con altre culture? Porsi questa domanda è, a mio avviso, l’unico modo corretto con cui affrontare oggi, con l’imbarazzante ritardo in cui ci troviamo, questa complicata sfida del ripensare i musei della contemporaneità.
Ad aprile sono stata ad Amsterdam a visitare il museo museo etnografico della città, Tropenmuseum. L’istituzione ha sede in un imponente palazzo realizzato negli anni Venti del Novecento per ospitare l’Istituto Coloniale Olandese ed è riccamente decorato con simboli legati a quella stagione storica. L’Olanda è da anni impegnata in un serrato dibattito sulla sua storia coloniale, dove correntemente vince la tesi che rimuovere i simboli del passato “non aiuta la discussione”. In una vetrina all’ingresso del museo tra molti altri cosiddetti “reperti”, c’è una testa umana. La didascalia recita solamente: “Antenato. Tribù Sepik, Papua Nuova Guinea”. A fianco un diagramma descrive la storia dell’istituzione museale e pone domande sulle logiche che sottendono a ciò che è esposto. Vi si legge: “Oggi, esporre un teschio umano in una vetrina è ancora accettabile? Il museo Tropen mostra questi reperti delle sue collezioni solo dopo aver consultato le società d’origine. Nel contesto nativo, un teschio può essere esibito con lo scopo di pagare un tributo ai propri antenati”.
Guardo la testa dell’antenato con attenzione, cerco dentro di me una reazione, di trovare vita sul volto, d’immaginare che quel viso ha sorriso, ha avuto paura, è stato il figlio di qualcuno e forse anche il padre di altri. Cerco, invano, un rapporto che sia un rapporto di vicinanza, di prossimità. In me risuonano solo le parole lette poco prima, lo statement museale. Mi chiedo: in questo caso specifico, era questa la modalità espositiva a cui le società d’origine hanno dato il consenso? Perché il museo ancora una volta espone la testa al fine di giustificare le proprie logiche invece di quelle di altri? C’è un qui pro quo: un’autogiustificazione morale al posto di un’esposizione contestuale. In linguistica, il concetto di falso amico consiste in una parola che suona e si scrive uguale in due lingue, ma ha significato differente. Pur presentando una notevole somiglianza e condividendo le radici con termini di un’altra lingua, i falsi amici sono la causa di costanti malintesi.
Era questa la modalità espositiva a cui le società d’origine hanno dato il consenso?
Perché non riesco a sviluppare un rapporto con la testa dentro la teca? Cosa manca? Potrei abbozzare una risposta dicendo che, pur con i limiti già menzionati, manca ciò che Maria Thereza Alves fa splendidamente con la sua opera. L’artista è in grado di farci entrare in risonanza con ciò che è musealizzato ed è questo ciò su cui oggi le istituzioni dovrebbero lavorare, di cui sono drammaticamente carenti. Non bastano gli statement, le ammissioni di colpe, le dichiarazioni di intenti, i falsi amici. Se si vuole creare un dialogo profondo con il pubblico bisogna andare oltre il problema di forma su cosa sia la cosa giusta da fare. L’antropologa Unni Wikan racconta che per i balinesi il sentimento è una parte essenziale della comprensione intellettuale, perché genera l’intuizione, la valutazione e il giudizio morale. Da questa prospettiva, un’epistemologia occidentale basata solo sul pensiero oggettivo appare un atto di arroganza e credo che non possa essere adeguata a un museo che aspiri a raccontare le donne e gli uomini di questo mondo.