L eggere le prime pagine di un testo di Eimear McBride suscita sensazioni contrastanti. La prosa è rapidissima, le frasi brevi, troncate. Lo sguardo dell’autrice sembra schizzare impazzito da un dettaglio all’altro, da una suggestione all’altra: da un pensiero a un odore, da un colore a una sensazione, tutto insieme nella stessa riga. Le frasi finiscono senza punteggiatura e le successive iniziano subito di seguito. All’inizio ci si concentra su ogni parola, si cerca di ricondurre le impressioni a una cornice di senso unitaria, di orientarsi forzando la lettura nei binari delle regole a cui siamo abituati. Dopo qualche capitolo stare al gioco diventa più naturale, e prendere il ritmo della prosa sempre più immediato.
Il suo esperimento narrativo guarda indietro verso la tradizione modernista, seguendo le orme di Joyce, irlandese come lei, ma mescolando molto anche di Woolf, e ridando al flusso di coscienza una veste nuova ed estremamente contemporanea. L’autrice proviene dalle scuole di recitazione, e interseca letteratura e drammaturgia lavorando sul dialogo tra questi due piani. I suoi testi funzionano particolarmente bene se letti a voce alta, hanno un ritmo che consente di interpretarli e comprenderne al meglio forma e struttura. La stessa McBride inizia ogni sua presentazione con una lettura recitata di alcuni frammenti dialogici tratti dai libri, affermando di utilizzare questo come metodo di lavoro anche durante la scrittura. A causa del suo estremo sperimentalismo – sempre più raro nel panorama letterario attuale – le sue vicende di pubblicazione sono state particolarmente tortuose: il suo primo romanzo, Una ragazza lasciatà a metà, scritto in soli sei mesi, è rimasto senza casa editrice per nove anni perché giudicato troppo avanguardista; il secondo, Lesser Bohemians, ha avuto invece nove anni di lavorazione e una pubblicazione molto più immediata grazie al successo del primo testo, vincitore sia del Goldsmiths Prize che del Baileys Women’s Prize for Fiction.
Lesser Bohemians, più degli altri lavori, costituisce un esperimento notevole in cui l’autrice è stata in grado di coniugare l’estremo sperimentalismo della scrittura con una vicenda narrativamente accattivante. In Italia il romanzo è stato tradotto nel 2019 da Tiziana Lo Porto, ed è edito da La nave di Teseo con il titolo di Bohemien Minori. Una ragazza lasciatà a metà invece era già stato tradotto nel 2016 da Riccardo Duranti e pubblicato da Safarà Editore. Nonostante entrambi i romanzi dell’autrice siano stati tradotti anche in italiano, nel nostro paese di lei non si è mai parlato, e nessuno dei testi ha suscitato particolare dibattito. Al contrario, nel mondo anglosassone le novità stilistiche introdotte nel panorama da McBride sono state al centro di numerosi dialoghi e interviste, oltre che di diversi studi circa il suo metodo di scrittura, del quale parla la stessa autrice in un video del National Centre for Writing:
La mancanza di interesse nel conoscere la fine di un libro per me ha molto a che fare con il godere del processo di scrittura stesso, che secondo me dev’essere un processo di scoperta. Ogni volta che ho pensato ‘oh questa sì che è un’ottima idea’, e mi sono seduta per iniziare a scriverla è quasi sempre morta velocemente, perché sapevo già dove stavo andando a parare e cercavo di raggiungere subito un certo esito, un finale preciso. Forse è anche perché sono interessata ai personaggi e non molto alla trama, il piacere della scrittura per me sta proprio nello scoprire chi diavolo siano queste persone e cosa faranno.
Tiziana Lo Porto spiega il silenzio italiano sull’autrice proprio notando come il suo successo abbia molto a che fare con il linguaggio: “Quello di McBride è un libro anglosassone, che lavora sulla lingua inglese, e una traduzione – per quanto ben fatta – è un lavoro diverso rispetto alla scrittura originale di un testo. Un autore italiano contemporaneo che fa un lavoro simile con la lingua italiana a quello fatto dalla McBride con l’inglese sicuramente riscuote successo e suscita discussione in Italia, ma non altrettanto all’estero”. Lo Porto racconta infatti che prima di iniziare a tradurre leggeva ad alta voce tre pagine delle poesie di Emily Dickinson, per allenarsi con la musicalità delle frasi e cercare di dare più peso al ritmo complessivo del testo che non al significato delle singole parole.
Il lirismo dell’autrice e le metafore oscure che si insinuano e interrompono continuamente la narrazione possono rendere faticosa la lettura ma, come nota Lo Porto, questo accade soltanto se il lettore forza l’attenzione sulle singole componenti senza dare priorità alla struttura d’insieme, grazie alla quale tutto assume una forma e un senso più limpido. Molte delle metafore infatti dialogano tra loro, e afferiscono spesso al campo semantico dell’acqua:
She floats face down. The world can do anything to her. Under here she is fingers and the weight of water piled up over her head. Under here with the empty torch of her breath she opens an eye and a quick fish I Open mine to the bright, bright day. And the land and the life comes in.
E ancora:
This is how I’ve learned to fix my life. I don’t have to touch the walls. I can rattle around inside. It’s like looking down through water and seeing to when I’m old. I know exactly how I’ll get there if I stay on course. And that would be an alright life Eily.
La sperimentazione stilistica porta con sé tutta una serie di criticità rispetto alla comprensione diffusa, ma come riflette l’autrice chiunque abbia affrontato per la prima volta Joyce o molti altri grandi pilastri letterari ha dovuto scontrarsi con il loro uso del linguaggio, a volte sperimentale, a volte criptico. Spesso è solo dopo più letture che se ne comprende il codice e si diventa in grado di penetrarne il senso, e anche per questo quando si tratta di narrativa l’accessibilità totale del linguaggio non può essere sempre al centro delle intenzioni di chi scrive, o si rischia di tarpare le ali a ogni genere di sperimentazione linguistica. Sul canale della Politics and Prose Bookstore di Washington DC McBride risponde a diverse domande in proposito, in particolare a partire da alcuni articoli che la accusavano di utilizzare un linguaggio poco comprensibile e che impediva quindi l’accesso al testo a chi non era in grado di familiarizzarvi:
A differenza di Joyce che era molto un tipo da: qui c’è un lavoro di genio, beccatevelo. Io non scrivo mai per compiacere il lettore, ma sempre con l’idea di essere letta, anche se so che lo stile chiede molto ai lettori, soprattutto quando si stanno abituando al codice linguistico, per le prime dieci pagine circa. Ma è tutto lì, il contenuto è lì, se solo volessero dargli un poco più di concentrazione, non c’è niente che non possa essere compreso con un poco più di tempo. Quando si tratta di Joyce ad esempio, si torna sempre sul testo con più letture per comprenderlo al meglio.
Per quanto riguarda l’intreccio Lesser Bohemians segue invece uno schema piuttosto classico: la protagonista è Eily, una studentessa irlandese di diciotto anni, insicura e inesperta, che si trasferisce a Londra per studiare recitazione. Una sera in un pub di Camden Town incontra Stephen, uomo adulto e tormentato che lavora come attore e drammaturgo e ha una passione sfrenata per Dostoevskij. Nella prima metà la vicenda segue lo sviluppo di un romanzo di formazione, anche se in stile modernista e con frequenti interruzioni della narrazione in cui la prosa si trasforma quasi in poesia, e accompagna Eily alla scoperta del sesso e della vita notturna della vibrante Londra anni ‘90. Nella seconda parte del romanzo viene a galla, attraverso una lunghissima analessi monologica, il racconto del passato di Stephen, fatto di violenze subite in famiglia, dipendenze, autolesionismo e sviluppo di un rapporto problematico con la sessualità. Mediante la vicenda del personaggio l’autrice compie un’articolata decostruzione di tutta una serie di stereotipi sulla sessualità maschile mostrandone fragilità e sofferenze. Tra la prima e la seconda parte il testo subisce infatti una vera e propria cesura, non soltanto rispetto al contenuto narrativo, quanto più in termini di sperimentalismo linguistico. Il lirismo della lingua è l’indiscusso protagonista per tutta la prima metà del libro ma lascia spazio nella seconda a uno stile più didascalico, che sembra voler fornire maggior rilievo al racconto di Stephen, senza distrarre con metafore o prosa ricercata.
La vicenda centrale in tutto il romanzo è la costruzione dell’intimità tra i due personaggi, ma la cornice del racconto abbraccia in maniera spontanea un ventaglio tematico particolarmente ampio e a tratti molto crudo. Si parla di precarietà, della situazione abitativa a Londra, di sfratti e occupazioni; oltre che di abuso sessuale e dipendenze da sostanze di vario genere. McBride mette in scena, costruendo un vero e proprio palcoscenico teatrale, una vicenda semplice, con al centro una storia d’amore, arricchita da intrecci paralleli e riflessioni che toccano una moltitudine di tematiche spesso drammatiche. Nel modo in cui i temi sono trattati emerge piuttosto chiaramente la posizione dell’autrice in merito ai vari argomenti, ma non c’è mai velleità di posizionamento, o necessità di interrompere la narrazione per lasciare spazio a dichiarazioni forzate.
McBride ricrea la complessità dell’intera esperienza umana usando le parole anziché il corpo, ricostruendo una nuova modalità di utilizzo delle tecniche moderniste.
Il paragone con Sally Rooney sorge spontaneo soprattutto per il successo massivo che ha avuto l’autrice negli ultimi anni e per le similarità nei temi e nel contesto, oltre che per la provenienza geografica di entrambe. Le due autrici hanno modi totalmente differenti di affrontare il tema della precarietà. Se in Rooney è frequente una certa posa, una sorta di freddezza nel toccare le tematiche, che dà a tratti l’impressione di parlarne semplicemente perchè va fatto, anche a costo di interrompere il ritmo delle vicende e cucire addosso ai personaggi qualcosa che non gli appartiene totalmente; in McBride molte di queste fragilità sono caratteri costitutivi dei personaggi, delle loro vicende umane e del loro modo di muoversi in una città sì eccitante, ma anche complessa e spesso inospitale, e questo viene a galla in maniera cruda e dirompente, mostrando tutta la sporcizia, la violenza e la disperazione a cui conducono certi vissuti.
Anche l’Irlanda e gli stereotipi che la riguardano sono centrali nella narrazione: il personaggio di Eily incarna tutte le difficoltà di crescere in una società particolarmente rigida rispetto al sesso, al rapporto con il proprio corpo e con quello altrui, e racconta tutto il processo di scoperta di ciò che accade quando si esce da quel sistema e si riesce a scardinarlo da sè e a muoversi liberamente all’interno di una realtà nuova. Un altro aspetto molto caratterizzante della provenienza dell’autrice riguarda la riflessione sul razzismo che negli anni ‘90 avvolgeva gli irlandesi in Inghilterra a causa del conflitto nel Nord del paese.
Eily si smarca nel corso del romanzo da tutti questi limiti che la cultura di appartenenza le imponeva, ed è proprio il tema della sessualità ad assolvere un ruolo centrale nella costruzione del suo personaggio e nel modellare il racconto del rapporto tra i due protagonisti.
Esistono molti modi di scrivere bene di sesso, e nel panorama contemporaneo sempre più spesso viene lasciato molto spazio al tema, basti pensare, di nuovo, a Rooney, ma anche a Raven Leilani o Lilan Fishman. Questi passaggi possono essere resi erotici, pornografici e più o meno amalgamati alla narrazione, possono dirci qualcosa dei personaggi in scena, oppure possono soltanto essere funzionali a intrattenere il lettore con dei lati più eccitanti della storia. In McBride il sesso non è pornografico, non è scritto per il puro piacere dell’erotismo, ma è usato come un vero e proprio strumento di scoperta di nuovi elementi funzionali alla costruzione degli equilibri narrativi. Ogni gesto e tocco è scorciato e motivato dalle sfaccettature e dalle personalità dei personaggi, dal loro modo di muoversi, che cambia capitolo dopo capitolo e che rende il lettore sempre più conscio della dinamica relazionale tra i due. Senza descriverne le emozioni riesce a modellare e rendere chiari dialoghi che di fatto non avvengono, ma che sono resi evidenti dalle modalità fisiche e corporee con cui i personaggi interagiscono, e che cambiano repentinamente seguendo le diverse fasi della loro conoscenza:
Respiriamo l’uno nell’altra come un oceano a cui a lungo abbiamo pensato, sentendone la mancanza. Prima gli tolgo la giacca. Poi la camicia. Strattonando dove deve aiutarmi, sorridendo, sfilandosi i polsini. Ridendo quando bacio l’incavo caldo della sua ascella e, mentre si sfila via gli occhiali, gli sfioro le spalle lisce con la bocca. Lì dove si curvano per diventare clavicole. Lì, nel profondo, dove girano verso le braccia. Lunghe e magre e forti ai miei occhi. Che iniziano appena a diventare scure. E gli bacio il petto in mezzo ai peli neri. Alzando il viso sorridente, le braccia intorno alla sua vita. Aprendo, sfilandogli via pantaloni e cintura. Lui, obbediente, se li lascia togliere, fermandosi solo per baciarmi. Tirandogli adesso via i boxer, toccandolo solo un po’ e con cura. Sorridendo ai suoi occhi grigi che mi sorridono. Prendendomi per carezzarmi la guancia. Poi arretrando per guardarmi mentre mi spoglio. Sfilandomi i vestiti e mostrandomi a lui. La sua mano calda poggiata sul mio seno. Il pollice che muove toccandomi i capezzoli. Felici insieme ma così silenziosi che un orologio due piani sopra si sente di più, che i piccioni sull’albero più in là fanno più rumore di quanto noi due dobbiamo farne.
L’autrice racconta in varie interviste di come si sia formata con il metodo Stanislavskij, che viene spesso ripreso anche nel corso del romanzo parlando delle tecniche con cui Eily studia alla scuola di recitazione e lavora per ricreare scene della sua infanzia, o entrare in sintonia con i dialoghi e i nuovi personaggi che le vengono assegnati. McBride sembra cercare di traslarne la tecnica dal teatro alla letteratura, ricreando la complessità dell’intera esperienza umana usando le parole anziché il corpo, ma dando alla corporeità – soprattutto attraverso il sesso – grande rilievo e importanza nella narrazione, riuscendo a sperimentare ancora con la lingua e a ricostruire una nuova modalità di fare uso delle tecniche moderniste.