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l vecchio sta morendo ma il nuovo non può ancora nascere, scriveva all’inizio del secolo scorso Antonio Gramsci. La frase è ormai abusatissima fuori dal contesto originario, che si riferiva alla prevista transizione tra capitalismo borghese e socialismo, ma se ricontestualizzata può indicare anche il particolare frangente storico nel quale ci troviamo oggi. Tra anni Dieci e Venti del XXI secolo, infatti, il vecchio ordine internazionale ereditato dagli anni ’80 e dalla fine della Guerra fredda è visibilmente entrato in crisi. Cosa seguirà l’epoca storica che si identifica col trionfo globale degli Stati Uniti e coincide col suo momento unipolare di unica reale potenza globale, però, non è ancora all’orizzonte.
La crisi dell’ordine globale costituito è ormai ben nota a tutti e spesso si cerca di simbolizzarla in una data precisa come il 2016, l’anno dell’elezione di Donald Trump. Questo tentativo, per quanto significativo, è solo un aspetto del cambiamento profondo che stiamo vivendo nel nostro tempo. Certo, l’esercizio del potere statunitense in campo internazionale era un elemento strutturale del sistema mondo che conoscevamo. Eppure, concentrare l’attenzione solo sulle tentazioni isolazioniste degli Stati Uniti e sul presunto ripiegamento di potenza statunitense ci impedirebbe di vedere gli altri elementi che stanno contribuendo a riscrivere l’ordine globale. Il primo, ma non l’unico tra questi, si chiama Repubblica Popolare Cinese.
Un vecchio ordine che si rifiuta di morire
Il mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni è nato tra jeans a vita alta, montagne svizzere e detriti di cemento. Un sistema mondo basato sull’espansione globale dei mercati, sulla rapida ascesa delle tecnologie di informazione e comunicazione e sulla disgregazione del blocco comunista, a cui corrispondeva una distribuzione del potere globale fondamentalmente monocentrica che aveva il proprio baricentro politico negli Stati Uniti. In questa sua fase di espansione, il capitalismo ha raggiunto la sua massima diffusione globale conservando però il carattere fortemente unipolare del proprio apparato di normazione politica.
La cristallizzazione plastica di questo stato delle cose è il cosiddetto “Washington consensus”, ossia una serie di politiche economiche fondate sulla centralità del sistema capitalista statunitense. Queste prescrizioni di ispirazione neoliberista hanno sospinto l’unificazione globale dei mercati contro dogane e barriere, l’arretramento del ruolo di arbitro economico detenuto dallo Stato, la deregolamentazione e privatizzazione di settori chiave del tessuto economico, a cui ha fatto da contraltare la flessibilizzazione del lavoro. La libertà di movimento dei capitali, alla ricerca del collocamento più efficiente e redditizio senza più ostacoli insormontabili e senza più vincoli ineludibili, è diventata l’anima pulsante dell’economia mondo, di cui lo shareholder value – la ricerca di prestazioni economiche adatte a remunerare l’azionariato delle corporation – ne è diventato invece la stella polare. In sostanza, era nato il capitalismo neoliberista unipolare.
Concentrare l’attenzione solo sul presunto ripiegamento di potenza statunitense ci impedirebbe di vedere gli altri elementi che stanno contribuendo a riscrivere l’ordine globale. Il primo si chiama Repubblica Popolare Cinese.
Con questa espressione si può intendere quel sistema economico globale in cui l’accumulazione della ricchezza avviene secondo meccanismi neoliberisti stabiliti da un centro decisionale unipolare. Da un punto di vista funzionale ovviamente questa fase dell’espansione capitalista rispecchia da vicino le priorità e le preferenze dei capitali statunitensi, più competitivi della concorrenza e per questo desiderosi di avere il campo libero da distorsioni normative, interventi statali o barriere intangibili. Le regole dell’economia mondo riscritte tra anni Ottanta e Novanta sono una testimonianza dell’influenza e del consenso globale di cui godeva Washington.
Questo paradigma, sebbene non incontrastato, è rimasto quello prevalente per alcuni decenni post-Guerra fredda. Nel solo quinquennio 1995-2000 gli investimenti diretti esteri che spostano capitali attraverso i confini sono aumentati di sette volte, e oggi il commercio internazionale intra-aziendale – cioè lo scambio di beni e servizi tra i differenti rami della stessa corporation – rappresenta circa un terzo del volume di tutto il commercio mondiale. Una testimonianza della capacità dei capitali internazionali di attraversare il globo per trovare la propria collocazione più efficiente e redditizia.
Alla soglia degli anni Dieci di questo secolo però, questa conformazione dell’economia globale fino a quel momento dominante ha iniziato a subire degli scossoni. La crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti che ha colpito il resto del mondo ha incrinato per certi versi la fiducia nel funzionamento di questo capitalismo neoliberista unipolare, portando alla nascita di formazioni allargate di controllo sul sistema economico globale come il G20. Allo stesso tempo, paradigmi alternativi emergevano a livello subregionale e per capirli bisogna guardare a oriente.
Il modello Pechino
Dopo l’inizio del periodo di riforme e aperture iniziato da Deng Xiaoping, negli anni Novanta e Duemila la Cina era entrata con decisione nel sistema dell’economia mondo. Per certi versi, le politiche cinesi di quegli anni avevano assorbito molti dei principi vigenti. Nel giro di pochi anni milioni di lavoratori delle società statali, a cui l’epoca maoista aveva dato lavoro stabile e protezioni sociali, perdevano il proprio impiego a causa dei piani di ristrutturazione industriale improntata all’efficientamento produttivo. La riforma dei permessi di residenza concedeva sì maggior libertà di movimento ai cinesi ma de facto sottraeva ai lavoratori migranti arrivati nelle città industriali il diritto di accedere a molteplici servizi sociali. L’accesso all’Organizzazione mondiale del commercio, avvenuta l’11 dicembre 2001, ha definitivamente sancito l’approdo della Cina al sistema economico globale e la sua apertura ai movimenti di capitali internazionali che ne hanno fatto la fabbrica del mondo.
La ricerca parallela di modernità e potenza è stata l’obiettivo che ha ispirato tutti gli esperimenti politici che la Cina ha vissuto nell’ultimo secolo.
Per Pechino questa formula che combina il monopolio del potere politico con la liberalizzazione economica è stata la risposta alla questione cardine che ha animato il dibattito intellettuale cinese negli ultimi 150 anni: come può riuscire la Cina a diventare un paese moderno e potente? La domanda ha perseguitato il paese a partire dalla metà dell’Ottocento, quando l’arrivo delle potenze imperialiste europee ha reso urgente trovarvi una risposta per impedire che il paese cadesse sotto la dominazione straniera. L’impero dei Qing, oscillando tra tradizionalismo e tentativi di riforma, non seppe trovare la quadra e nel 1911 collassò su sé stesso. La ricerca parallela di modernità e potenza è stata quindi l’obiettivo che ha ispirato tutti gli esperimenti politici che la Cina ha vissuto nell’ultimo secolo: il Guomindang individuò nella nazionalizzazione della popolazione e nell’istituzione di strutture burocratiche moderne i fondamenti per la creazione di uno Stato nazionale capace di contrapporsi agli imperialisti stranieri, mentre il maoismo seguì invece la strada del socialismo sovietico per accelerare il proprio progresso socio-economico, abbracciando prima l’internazionale socialista e poi il movimento dei non-allineati. Uno dopo l’altro entrambi i tentativi di costruire un nuovo Stato si conclusero in fallimento.
È la formula elaborata da Deng però a essersi rivelata la risposta adatta. Mettendo all’angolo gli istinti radicali ed entrando nel circuito del capitalismo globale, la Cina è riuscita a compiere un vero e proprio miracolo, trasformando un paese arretrato nella seconda economia più importante al mondo e sollevando dalla povertà centinaia di milioni di persone del giro di appena quattro decenni. Le istituzioni del capitalismo neoliberista, in un certo senso, hanno lavorato a favore di Pechino che dai processi della globalizzazione ha saputo trarre enorme beneficio. A suo modo, tuttavia, nel successo cinese si nasconde anche una sconfessione della ricetta neoliberista pura: se da un lato i capitali stranieri sono stati i benvenuti nel paese, dall’altro molti settori strategici sono rimasti preclusi o limitati agli investitori. Spesso, inoltre, le condizioni per investire erano tali da obbligare le società straniere a condividere le proprie tecnologie e competenze coi partner/rivali cinesi. Il Partito comunista (PCC) non ha mai abdicato definitivamente al proprio ruolo di arbitro dei rapporti economici interni: dall’erogazione del credito alla spesa pubblica, Pechino ha mantenuto una solida capacità di intervento e indirizzo sullo sviluppo della propria economia che dopo la crisi del 2008 si è fatta tanto più apparente.
Oggi che la Cina è diventato un paese moderno e potente, il vecchio dilemma intellettuale è stato sostituito da uno completamente nuovo: in che direzione orientare la modernità e cosa fare della potenza internazionale accumulata? Da oltre un decennio il Partico comunista cinese si interroga su quale debba essere la risposta a questo quesito inedito. Una risposta che permetta alla dirigenza di tutelare la propria autoconservazione, di continuare a promuovere lo sviluppo del paese e di supportare l’interesse cinese sul piano internazionale.
È da qui che nasce la rivoluzione politica di Xi Jinping, il segretario generale del partito che nell’ultimo decennio ha ridisegnato i contorni interni ed esterni della Cina. Xi, pur essendo l’uomo più potente dai tempi di Mao, non è un uomo solo al comando ma piuttosto è l’uomo designato dal PCC per portare avanti quelle riforme e quelle trasformazioni che una parte dell’élite cinese considera essere la migliore risposta al dilemma gestionale della Cina nel XXI secolo. Le politiche di Xi, in sostanza, sono il cambio di rotta rispetto al lascito di Deng su cui la dirigenza concorda per dare forma alla nuova modernità e alla nuova potenza della Cina. In realtà, però, si tratta di una risposta e mezza.
Nel successo cinese si nasconde una sconfessione della ricetta neoliberista pura: se da un lato i capitali stranieri sono stati i benvenuti nel paese, dall’altro molti settori strategici sono rimasti preclusi o limitati agli investitori.
Quando Xi Jinping è stato nominato nuovo segretario generale del partito nel 2012, la sensazione era che il governo cinese si trovasse di fronte a numerose criticità interne. Negli anni immediatamente precedenti la Cina aveva assistito a svariati episodi di disordini sociali, il modello di crescita economica iniziava a mostrare i propri limiti, tendenze culturali lontane dai valori socialisti del maoismo si erano diffuse nella società e soprattutto la direzione politica del paese doveva fare i conti con i numerosi gruppi di potere informali che si erano stabiliti nelle istituzioni e nella società civile. Davanti a questi fenomeni, la risposta di Xi per guardare al futuro è stata ripescare dal passato e lo ha fatto in due modi.
Come scritto nel 2017 nella costituzione del PCC: “partito, governo, esercito, società e educazione, est, ovest, sud, nord e centro, il partito guida ogni cosa”. Riasserire il predominio del partito nel paese dopo decenni di apertura ed erosione della propria autorità è stato il primo dei due compiti più importanti di Xi Jinping. Perseguendo per corruzione le fazioni politiche avversarie, rettificando le grandi corporation cinesi, accentrando le strutture della governance socio-economica, il PCC nell’ultimo decennio ha abbracciato sempre più convintamente l’idea del proprio unico e insostituibile ruolo storico di guida per la modernizzazione economica, sociale e culturale della Cina. Il secondo compito, invece, è stato quello di ridimensionare le categorie dell’economico per ridare nuovo spazio al politico. Dopo l’enfasi sulla crescita del PIL, Xi ha spostato l’attenzione pubblica sulla lotta alla povertà e sulla prosperità comune; dopo il boom di investimenti stranieri orientati verso l’export, Pechino sta lavorando per promuovere l’industria nazionale e migliorare la protezione dei consumatori-lavoratori; dopo aver rincorso lo sviluppo tecnologico occidentale, adesso le società cinesi competono per indicare la via sulla frontiera dell’innovazione; dopo la devastazione ambientale dovuta allo sviluppo industriale, l’attenzione ora è sulla preservazione del patrimonio naturale; dopo l’afflusso di modelli culturali occidentali, negli ultimi anni si è verificata una riscoperta dell’eredità maoista e dei valori storici del socialismo cinese.
Questa è l’idea di modernità verso cui la dirigenza incarnata di Xi Jinping vuole orientare la Cina: una dirigenza solida alla guida di un governo capace di intervenire con vigore, una società armonica del benessere diffuso, un patrimonio ideologico-culturale centrato su sé stesso, un’economia innovativa e soprattutto autosufficiente. Da molti punti di vista si tratta di un riorientamento verso l’interno che passa dalla costruzione di nuovi significati e valori politici, tra i quali rientrano anche concezioni trasversali di sicurezza e autosufficienza della nazione cinese che spaziano dall’economia all’ideologia. Il prezzo da pagare per molti cinesi è stato il carcere, la censura, la sorveglianza, gli abusi di potere e la propaganda e, in generale, una fortissima repressione sociale ed economica. Eppure, secondo Pechino il compimento di questa missione storica giustifica tutti i sacrifici.
E per quanto riguarda invece l’idea di potenza? Non è possibile disgiungere quest’ultima da quella di modernità e le due effettivamente si intersecano su vari piani. All’aumento di fiducia in sé stessi e nella propria missione, ha fatto da riscontro una crescente assertività sul piano internazionale da parte della Cina. Le contese marittime-territoriali in Asia, gli investimenti globali, i rapporti con le altre potenze: questi sono solo alcuni dei dossier su cui Pechino nell’ultimo decennio ha iniziato non solo a far sentire la propria voce nei consessi internazionali, ma anche a prendere misure per dar forma concreta ai propri interessi nazionali. Progetti come la Nuova via della seta o la costruzione di isole artificiali nel mar Cinese meridionale hanno suscitato apprensione negli osservatori esterni, soprattutto nel momento in cui questa proiezione esterna faceva il paio con una crescente stretta autoritaria interna e con il progressivo auto-isolamento internazionale del paese (culminato dell’attuale situazione di chiusura quasi totale dettata dalla politica zero covid).
La diplomazia cinese ha dimostrato in questi anni di non voler stravolgere l’attuale ordine internazionale, difendendo le istituzioni della governance multilaterale create durante il periodo di egemonia statunitense.
La diplomazia cinese però ha dimostrato in questi anni di non voler stravolgere l’attuale ordine internazionale. Nonostante il paese sia per molti aspetti un’eccezione ai canoni politico-economici del capitalismo neoliberale, la Cina difende le istituzioni della governance multilaterale create durante il periodo di egemonia statunitense. D’altronde, difficilmente potrebbe essere altrimenti visto che queste hanno sostenuto efficacemente gli sforzi di sviluppo interno cinese e possono ancora avere un ruolo nell’aiutare Pechino a effettuare il salto oltre lo status di paese a medio reddito.
L’intenzione cinese di partecipare responsabilmente all’ordine globale esistente senza rovesciarlo emerge in diversi frangenti. Sul tema della finanza per lo sviluppo delle economie emergenti, ad esempio, Pechino ha lanciato una propria banca internazionale nota come AIIB che per molti aspetti appare in competizione con le istituzioni finanziarie globali già esistenti. Eppure, dopo qualche anno di attività, non sembra che l’AIIB si sia posta in contrapposizione con le istituzioni a guida occidentale e spesso invece collabora con esse per realizzare progetti in questi paesi. Anche riguardo l’adesione alle disposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), un tema su cui la Cina viene criticata anche a ragione di una certa inadempienza, Pechino non si pone al di fuori del perimetro segnato dell’attuale regime commerciale globale. Anzi, la Repubblica Popolare riconosce i verdetti emessi dall’OMC contro le proprie pratiche commerciali scorrette e regolarmente modifica le sue politiche per rispettare le ingiunzioni dell’organizzazione, cercando pur sempre di tutelare i propri interessi economico-industriali nell’applicazione della sentenza.
Se quindi conosciamo quale sia la visione della modernità che il PCC ha in mente, per ora l’impressione è che la Cina non desideri usare la propria potenza per riscrivere le regole dell’attuale sistema internazionale ma che invece preferisca contribuire al suo mantenimento. Anche le politiche più controverse e criticabili portate avanti da Pechino in tema di diritti umani sono giustificate dalla dirigenza tramite rimandi ai principi vigenti nel sistema internazionale. Come a dire che, nonostante la diversa interpretazione e l’attribuzione di nuovi e diversi significati alle norme internazionali, la Cina intende rispettare le strutture e i codici della governance attualmente esistente. Per evitare fraintendimenti, spesso ciò che Pechino considera come adesione alle norme e agli standard internazionali per noi non lo è. Ciò che conta per questa riflessione è il fatto che la Repubblica Popolare voglia conformarsi allo stesso corpus di principi, consuetudini, trattati e convenzioni a cui fa riferimento il resto della comunità internazionale.
I fenomeni morbosi
Se della citazione di Gramsci la prima parte è quella più nota, la seconda è tuttavia quella più adatta per descrivere il tempo presente. Mentre il vecchio non muore e il nuovo non può nascere, è in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Ed effettivamente, il quadro degli ultimi anni è stato non poco parodistico. È bizzarro infatti che mentre nel 2017 il neoeletto presidente Donald Trump iniziava a prendere a picconate le istituzioni del sistema internazionale che tanto aveva favorito gli interessi statunitensi, contemporaneamente al forum di Davos Xi Jinping pronunciava un discorso in difesa del multilateralismo, della globalizzazione e del libero commercio: quasi uno scambio tra potenza egemone e rivale emergente, si sarebbe detto.
Cina e Stati Uniti non concordano più su quale debba essere la conformazione dell’economia mondo.
Sotto i simbolismi ironici però c’è una questione sostanziale: Cina e Stati Uniti non concordano più su quale debba essere la conformazione dell’economia mondo. Sfruttando le contraddizioni e le imperfezioni del capitalismo neoliberista unipolare, Pechino è riuscita a estrarre notevoli benefici dal sistema economico esistente e così facendo ha sviluppato il proprio tessuto produttivo, ha avanzato le proprie capacità tecnologiche e ha modernizzato il paese. L’ascesa della Cina nel panorama economico globale è tale che ormai è difficile parlare di unipolarismo del capitalismo neoliberista.
Lo sviluppo cinese infatti ha alterato fondamentalmente lo schema globale di accumulazione della ricchezza e si può argomentare che oggi gli Stati Uniti non sono più l’unico polo del capitalismo neoliberista. La necessaria funzione di normazione politica del sistema economico non può più essere esercitata unicamente da Washington poiché nei settori produttivi emergenti, dal digitale all’industria verde, la competitività e l’influenza delle società cinesi semplicemente hanno messo Pechino nella posizione di rivendicare il proprio diritto a fare il salto da rule-taker a rule-maker dell’economia globale.
Ed è qui che i fenomeni morbosi di cui parlava Gramsci iniziano ad apparire, perché iniziano a emergere le contaminazioni reciproche. Da un lato si è già visto come il modello economico cinese, sebbene sempre più ripiegato in sé stesso, abbia in realtà un interesse a mantenere le istituzioni del capitalismo neoliberista così come esistenti attualmente. Dall’altro, invece, la fiducia degli Stati Uniti nelle stesse istituzioni è entrata in crisi a partire dall’elezione di Trump, ma forse anche prima. Ciò che dal 2016 appare con chiarezza è che gli Stati Uniti abbiano rimesso in discussione i principi neoliberisti propugnati per tanti decenni pur di mantenere la formazione unipolare del capitalismo, che a questo punto rischia di recedere dalla propria copertura globale a una semi-globale.
La parola chiave qui è decoupling. Un disaccoppiamento che non intende divorziare in toto pezzi di economia globale come spesso è stato presentato, ma che invece intende segmentare alcuni settori industriali emergenti, tecnologicamente innovativi e promettenti per l’accumulazione della ricchezza. Si tratta di un ritorno alla competizione economica tra paesi, o blocchi di paesi coalizzati, in cui la concorrenza e la collaborazione tra industrie riscoprono la dimensione nazionale dei mercati attraverso l’erezione di nuove faglie tra segmenti dell’economia globale. Nel caso degli Stati Uniti, questo si è esplicitato in varie fasi. La reintroduzione dei dazi sulle importazioni cinesi, il rafforzamento delle funzioni statali di supervisione e controllo sugli investimenti stranieri in certi settori strategici, le restrizioni all’export di determinate tecnologie, il favoreggiamento di catene di approvvigionamenti tech che escludano specificatamente determinati paesi, i massicci pacchetti di spesa a sostegno di industrie emergenti: tutte queste sono manifestazioni di una riforma che mira a discostare il capitalismo statunitense dalla sua variante puramente neoliberista.
Si tratta di un ritorno alla competizione economica tra paesi, o blocchi di paesi coalizzati, in cui la concorrenza e la collaborazione tra industrie riscoprono la dimensione nazionale dei mercati attraverso l’erezione di nuove faglie tra segmenti dell’economia globale.
Questi strumenti politici, inizialmente introdotti da Trump nel confronto statunitense con la Cina e poi ripresi in chiave allargata anche da Joe Biden, hanno faticato a trovare consenso internazionale per essere ammessi come elementi legittimi dell’ordine economico. Eppure oggi, anche se magari in modo riluttante, anche i più stretti alleati degli Stati Uniti hanno iniziato a ragionare in termini simili dando quindi legittimità a una riforma del capitalismo globale per lo meno dal punto di vista discorsivo se non ancora da quello pratico.
La creazione di un bacino tecnologico-industriale per l’occidente separato dalla Cina, se da un lato abroga a gran parte delle prescrizioni del neoliberismo, consente però agli Stati Uniti anche di ridisegnare i flussi di accumulazione della ricchezza che precedentemente beneficiavano pure Pechino. In questo scenario la metà occidentale del capitalismo globale mantiene il suo unipolarismo centrato su Washington: seppur riducendo il perimetro del proprio mercato a un segmento dell’economia mondo, gli Stati Uniti manterrebbero il proprio predominio produttivo e conserverebbero quindi anche la propria capacità di normazione politica. In un certo senso si tratta di un arretramento del capitalismo unipolare dalla sua forma globalizzata e di un trinceramento di lungo periodo con l’obiettivo di arginare lo sviluppo tecnologico-industriale della Cina.
Non nasce ancora il sol dell’avvenir
La divergenza di visione tra le due principali economie del mondo si sta affermando come un fatto consolidato. Il sistema internazionale che Pechino desidera mantenere ormai sta andando incontro alla propria fine: concetti guida per la diplomazia cinesi come la “comunità umana dal futuro condiviso” o il “nuovo tipo di rapporti tra super potenze” non sono bastati per rassicurare l’occidente sulle intenzioni di Pechino. E la Cina stessa almeno a partire dal 2020 ha iniziato ad accettare la realtà di fatto, preparandosi per affrontare un sistema internazionale più instabile e incerto che nei prossimi decenni attraverserà un periodo di sconvolgimenti e trasformazioni.
Se però Pechino sta accentuando il riorientamento verso l’interno, rafforzando l’eccezionalità del proprio modello di governance rispetto al paradigma neoliberista, lo smarcamento degli Stati Uniti dallo stesso paradigma ha assunto dei contorni sempre più “cinesi”. Gli strumenti di politica industriale adottati prima da Trump e poi raffinati da Biden hanno infatti una radice comune coi piani di sviluppo cinesi nel tecno-nazionalismo, se non proprio nel protezionismo. Nella competizione per lo sviluppo delle tecnologie emergenti che ridefiniranno il panorama produttivo (pensiamo a internet negli anni Novanta), sia Cina che Stati Uniti riconoscono a se stessi il diritto di derogare alle norme internazionali concordate per asserire le proprie prerogative statali in difesa degli interessi economici nazionali.
Il fattore Cina ha avuto un ruolo determinante nel decretare il declino del capitalismo neoliberista unipolare. Cosa lo sostituirà non è ancora chiaro.
Negli anni Venti del XXI secolo, il sistema mondo è destinato a mutare profondamente e il fattore Cina ha avuto un ruolo determinante nel decretare il declino del capitalismo neoliberista unipolare. Cosa lo sostituirà non è ancora chiaro. Un vincolo dei capitali finora internazionali agli imperativi nazionali di sviluppo? Un neoliberismo relegato a paradigma organizzativo dei soli settori a ridotto valore aggiunto? Un sodalizio tra industria della frontiera innovativa e ritorno dell’autorità statale? Sappiamo cosa ci lasciamo alle spalle, ma non sappiamo ancora a cosa andiamo incontro.