C on il passare degli anni, in un modo o nell’altro, si passa molto tempo da soli – la testa pensa le cose; per la prima volta, grazie a mia nipote, comincio a intravedere le luci di un futuro che non vedrò, e che vorrei esistesse. Sta crescendo in città, negli anni pandemici che iniziano a finire, e riconosce gli animali senza averli visti, come i neonati cresciuti nella penombra delle grotte pittate. La piccola bambina impara le parole della natura dalle immagini, dalle pagine dei libri; è protetta dai quattro muri, al riparo dalla pioggia e dal sole. Prima, vede le ombre delle cose: di animali e piante tutto le piace. Perché? Succede a tutti i neonati? Esiste una minima realtà aerodinamica ad attrarci, forse proprio la linea apparente che ci separa da tutto il resto?
Prima ci sono le ombre, poi arrivano le cose del mondo. Sono tutte deformate. La guardiamo scoprire gli animali che si muovono, che puzzano, che fanno i versi. La bambina cambia la luce degli occhi a capriccio, alterna lo stupore alla sprezzatura come se li stesse provando, come per capire che misura portare. La sua mente intanto scrive, cosí in piccolo che non si vede.
Ci vuole una certa età per ricordare. Il 12 novembre del 1982, il “Corriere della Sera” pubblica Suor Franca e le sue farfalle, un pezzo intimista nato da una scampagnata di Parise deciso a rivedere i prati della colonia frequentata da bambino. Negli anni Ottanta, lo scrittore si trova di fronte alla realtà della morte. Dopo tanti libri e tanti viaggi, il tempo torna a comprimersi: la malattia riporta l’uomo all’infanzia. L’incipit dell’articolo porta qualche eco proustiano, radicato però per bene a terra dalle cose semplici dell’ultimo Parise: “di quei coleotteri, e libellule e farfalle color lavanda non piú grandi di un’unghia di pollice e immerse nella lavanda, che ne sarà mai a tanti anni di distanza?”. Si sale la stradina allora, si arriva al grande cancello nero, si suona il campanello. Segue il silenzio, l’attesa: arriva inesorabile il guardiano, “una specie di demente di paese con grosse scarpe da montagna” che gli apre le porte dell’infanzia protetta come in un diorama, uguale a sé stessa, oltre ogni aspettativa. Suor Franca, che Parise non vede da quarant’anni, seguendo la logica piana dei sussidiari è diventata superiora; accompagna il bambino tra i ricordi, ma lui vuole soltanto una cosa: ritrovare l’odore di quel coleottero antico, perso nel passato. E dove sarebbe, gli chiede “giocando con il medaglione che aveva appeso al petto”, lo stesso medaglione che vedevo ogni giorno appeso alle mie maestre, dove si nascondeva il destino di tutti quegli scolaretti, gli onori, le illusioni e le date… Entrano nel parco allora, ovviamente ingigantito nella memoria, ci sono le cicale e le farfalle lavanda e le libellule verdi, ma il coleottero non si vede. Poi:
”Questi qui, questi insetti qui?” chiese suor Franca sempre ignara ma con l’intenzione di essere gentile con un pazzo. Annusai, portavano lo stesso odore e arrivò anche il coleottero. I nipoti dei nipoti naturalmente.
La discendenza genetica, naturalmente: Gadda ne sarebbe stato fiero, un po’ meno di questa vaghezza tassonomica. Il nome scientifico del coleottero, allo scrittore orfano, sembra sfuggire: ma il pensiero della sua livrea metallizzata lo accompagnerà fino alla morte. I due scrittori si erano conosciuti negli anni Cinquanta, il giovane stordito dall’adorazione per il vecchio, il vecchio innamorato della gentilezza dell’altro, dei giri in decapottabile, consolato dalle sue lettere. Si scrivono per anni, si lamentano degli affari, progettano incontri. Parise regala a Gadda del vino; Gadda gli regala la prima edizione italiana di L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto con il sesso (del 1871) e L’origine delle specie. Gli allarga la vista.
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Quando d’estate si andava al mare in una piccola spiaggia dove si pestava più carne che sabbia, con le carte da gioco di Forattini e un semaforo di bocce che sarebbe rimasto intatto, le bocce ingabbiate, ecco, quando si andava d’estate il parabrezza della Ford Escort bordeaux si macchiava di lacrimoni rivoltanti che si fingeva di ignorare, guardando avanti, al dopo; ero davvero solo, abbandonato nel ribrezzo a quella tempesta di vespe e mosconi che si incrociavano sulle statali e sulle autostrade? Tanto che i lavavetri finivano nei ricordi delle discese nel Meridione?
Meno api sul parabrezza, meno api nelle corolle. A cosa serve, essere belli? I fiori restano abbandonati: e perché sono belli, se non possono vedersi?
È tutto empirico, un gioco a spanne, ma oggi le autostrade sembrano piú sgombre e i viaggi piú puliti. Non mi ha sconvolto quindi – nel contesto di una sesta estinzione sempre piú documentata – scoprire che dalla mia nascita si è (almeno) dimezzata la popolazione della maggior parte di insetti in tutto il pianeta. La mia nascita stavolta non c’entra, si tratta piuttosto di una rete di concause: erbicidi e pesticidi, la contrazione dei prati e delle foreste, il riscaldamento globale; insieme agli insetti muoiono le specie che gli si intrecciano, spariscono i pesci e gli uccelli. Altra immagine mentale tatuata dalle scuole elementari: la catena alimentare. Una semplificazione della rete di interdipendenze del mondo vivente, ma sufficiente a spiegare perché l’indebolimento di un anello minaccia tutti gli altri.
Meno api sul parabrezza, meno api nelle corolle. Gli insetti non ci sembrano belli, ma per loro non è un gran problema. A cosa serve, essere belli? I fiori restano abbandonati: e perché sono belli, se non possono vedersi? Poeti e scienziati passano il tempo a indagare la natura delle linee inseguite dalla bellezza, e ci capiscono giusto un po’: tra giustificazioni di utilità e sezioni tecniche, ingegnerie al rovescio, ne escono tristi. Non abbiamo chiesto di disporre ossa nervi e tendini lungo una simmetria bilaterale; poteva essere radiale, ciclomerica, come nelle meduse. Che sono venute prima di noi: sono forme di vita separate dal regno dei camaleonti, dei mostri marini e degli esseri umani: hanno seguito un altro phylum, centinaia di milioni di anni fa, e ci sopravvivono, e continueranno a farlo.
Dopotutto, non è scritto infatti che la vita debba per forza complicarsi, discendiamo da spugne e cannucce vetrose; la civiltà industriale ci sta riavvicinando a una parodia delle condizioni iniziali, in uno scenario dove la vita non ha bisogno di noi, non ha bisogno di tante cose: negli ultimi cinquant’anni, da quando è morto Gadda, l’essere umano ha estinto il 60 percento degli altri animali.
La sesta estinzione di massa è una questione di qualità (la diversità delle specie coinvolte) e di quantità (il declino della biomassa, la densità delle popolazioni). L’apocalisse non si trova inserendo una precisa coordinata spaziotemporale, si diffonde come pioviggine. Le estinzioni sono coreografie lente: non sempre, ma quasi. Per un asteroide assassino di dinosauri caduto nel 65.000.000 a.C., si contano migliaia di estinzioni silenziose ogni anno. La complessità del mondo naturale è cosí crudele che preferiamo toglierla dalla visuale: di fronte alla sua assurdità siamo costretti a delle contorsioni cosí disperate che è meglio riderne. Siamo abitati e guidati da colonie di microbi che non riusciamo a mappare, circondati da distese d’acqua troppo buie per vederci, chiusi da un tettuccio di luci in continuo allontanamento: siamo energia e materia, e non abbiamo senso. L’universo del mondo degli insetti è solo un’altra battuta a commento. Ne abbiamo “scoperti” milioni di specie, li abbiamo catalogati ossessionandoci sulle antenne e i ventri e le elitre. Soltanto gli Hemiptera (che includono tra i tanti altri le cicale, gli afidi, le cavallette, le cimici), si distinguono in 80.000 sottospecie. Le formiche, 12.000; le api, 20.000; gli scarafaggi, 400.000.
Statisticamente associamo all’idea di bellezza quella di salute, e di successo riproduttivo, ma si tratta di un’illusione ottica – il nostro desiderio che supera il ragionamento.
Statisticamente associamo all’idea di bellezza quella di salute, e di successo riproduttivo, ma si tratta di un’illusione ottica – il nostro desiderio che supera il ragionamento. Nel suo saggio, L’evoluzione della bellezza, Richard O. Prum – docente di ornitologia alla Yale – scrive che quasi tutti i suoi colleghi che da decenni si professano darwinisti, di Darwin non hanno capito niente. Come in un incubo, il principio della selezione sessuale formulata da Darwin (che nel suo ultimo articolo scrisse: “rimango fermamente convinto della sua verità”) venne distorto da uno dei suoi rivali piú noti, Alfred Russel Wallace. ARW “era scettico sul fatto che gli animali possedessero le capacità sensoriali e cognitive necessarie per scegliere con chi accoppiarsi. Credeva che gli esseri umani avessero un posto speciale nella creazione e che Dio li avesse dotati di abilità cognitive assenti negli animali”. Nell’evoluzione delle specie, e nella selezione sessuale che la indirizza, le funzioni e l’utilità non spiegano tutto: “la bellezza capita”, cosí a caso, e tendiamo a cercare il piacere per il fine stesso del piacere. Chi fa biologia inventa dei nomi per sbrogliare la matassa delle concause; chi fa entomologia, come chi scrive gialli, circoscrive e descrive i dettagli del mondo per ricostruire la cospirazione che lo confonde: segue gli indizi, abbandona le false piste. Ma non serve per forza il morto, il mistero entra anche nella genetica del Carlo, il marito dell’Adalgisa di Gadda.
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L’ambiente del Carlo e dell’Adalgisa risponde alle loro esigenze: le persone piú colte, ricorda l’Autore, lo dicevano professore di etimologia – un lapsus curioso. Per quanto la natüra fosse talmente granda, talment infinida, il Carlo capí che occorreva specializzarsi, perché questo richiede il secolo; e l’entomologo specializzato non può discettare di lepidotteri o imenotteri o ditteri cosí, come se un nome valesse l’altro, ma neanche di calabroni e cimici, roba oscura… “Puntò sugli scarabei. Tutta questa crisi, diobono, dopoché alla fiera di Sant’Ambrogio, una domenica, s’era imbattuto in un volume scompagnato del Fabre”. Che sarebbe Jean-Henri Fabre, tra i capostipiti dell’entomologia, che vivendo ha scritto dieci volumi di Souvenirs entomologiques. Un lavoro gigantesco, ma anche quelli da qualche parte devono pur principiare: le prime pagine dei suoi Ricordi di un entomologo si avventurano nel racconto dello scarabeo stercorario. “A compensazione di un’incombenza tanto ingrata e immonda, piú d’uno di questi insetti emana un forte odore di muschio”: il ventre brilla metallizzato, dal rame al viola ametista; e tra questi colori, forse il verde velenoso che ossessionava Parise. Come Carlo Biandronni, Fabre è profondamente ammirato dalla solerzia stercoraria:
Quanta agitazione intorno a uno stesso escremento! Mai avventurieri accorsi in California da ogni angolo del mondo hanno messo tanto ardore nello sfruttare una vena d’oro. Prima che il sole sia troppo forte, sono già centinaia, grandi e piccoli alla rinfusa, di ogni specie, di ogni forma, di ogni dimensione, smaniosi di ritagliarsi una fetta della torta. Alcuni lavorano a cielo aperto, rastrellando la superficie; altri scavano gallerie dentro il mucchietto alla ricerca dei bocconi piú ghiotti; altri ancora sfruttano lo strato inferiore per nascondere subito il bottino nel terreno sottostante.
Fabre e il Carlo sono innamorati dell’Ateuco, lo scarabeo: Fabre lo trova in montagna, Carlo sulla sabbia che scotta, nascosto dietro al suo epistòma, la pala dentata per i lavori sporchi; sospinge in salita l’enorme tesoro, pesantissimo, venti volte piú grosso del proprietario, scollina e rovina, e riparte verso la tana, dove la famiglia lo aspetta, e con lui il cibo. Carlo preleva l’insetto, lo invasetta e se lo porta a Milano, dove “tra la diaspora dei cristalli e dei sassi” potrà mostrarlo agli amici. Che cos’è mai la natura!, esclama uno di loro, eh sí, com’è vero, si lisciano i baffi… Ogni generazione prepara il mondo a quella successiva, concordano gli amici nel salotto dell’Adalgisa, e Carlo si slancia dove ci sono le parole che si dicono a una certa età, che il tono borghese sembra appesantire di buon senso, parole che invece seguono quelle regole oscure del sangue che si passa tra nonni e nipoti, quella cieca vita assurda già scritta nelle cellule, quell’impulso che non ha nome e modella le società, “il sogno di poter allevare i nostri figli nel benessere… nella sicurezza del domani… di vederli crescere forti, generosi, con l’orgoglio di sapersi nostri figli!… E questo lo cerchiamo, lo otteniamo a prezzo di qualunque sacrificio… valendoci della fatica, dei risparmi sacrosanti di tutta una vita!”. Ecco, quei risparmi, scrive Gadda, a cosa potrebbero essere paragonati se non… “sí, insomma, a quella polpetta”.
I risparmi di una vita: una palla di merda.
Estratto da Fare i versi (Einaudi, 2022).