U na sera d’agosto, a Marsala, apro la pesante porta a vetri di una libreria Mondadori e me la richiudo alle spalle. La libreria si trova di fronte alla chiesa di San Tommaso di Canterbury. Sono le otto e mezzo di sera e oltre a me è presente solo la libraia, barricata dietro la cassa. Non è l’inizio di una storia d’amore, anzi, sono certo che la libraia è una lettrice e il momento che ci unisce prova solo la nostra solitudine di lettori. Oltre la vetrina, uomini, donne e bambini, gente del posto e turisti arrivati da Roma, da Milano o da Bologna e poi dall’Inghilterra, da Francia e Germania, passeggiano avanti e indietro lungo il corso o restano seduti a bere uno spritz in uno dei bar di fronte al duomo. Il cielo è ancora azzurro.
Mi dirigo verso lo scaffale dei libri sulla Sicilia e su Marsala. Voglio saperne di più sul conto di una città di cui non so nulla, se non il poco che mi è stato accennato o che ho ricavato dalla consultazione di una guida Lonely Planet e di una Routard. Grazie a un libro in particolare, tra quelli dedicati a Marsala, sto per fare una scoperta. Come spesso capita, ciò che mi era stato raccontato a voce da qualche amico combaciava con i luoghi segnalati nelle guide: il museo archeologico, visitato il primo giorno, dove sono conservati il relitto di una nave da guerra cartaginese e i resti dell’insediamento punico di Lilybeo; la località di Mozia e le saline, la zona lagunare fra Trapani e Marsala detta anche “Stagnone”, visitata il secondo giorno, un paesaggio vasto e irreale, dove si aggiravano pochi turisti in bicicletta, simile alle visioni degli universi extrasolari ritratti sulle copertine dei romanzi Urania: da una parte le saline, rosa e turchesi, con i mulini a vento a sei pale costruiti nello stile dei mulini olandesi, dall’altro enormi tratti di mare scintillante, solcato in lontananza dalle tavole dei kite surf, sullo sfondo le isole Egadi, con le cime sormontate da colossali nuvole bianche, immobili, somiglianti a funghi atomici, e in mezzo al mare una striscia di terra, Mozia, raggiungibile in traghetto, dove un museo fondato da un archeologo di origini inglesi, Giuseppe Spadafora Whitaker, raccoglie reperti fenici e romani, dentro una casa ombreggiata dalla chioma di un ficus benjamina. Ma oltre al museo archeologico, alla nave punica, a Mozia, alle anfore dalle maniglie ricoperte di concrezioni marine, ai mulini a vento, alle saline, che cos’altro potevo scoprire di prezioso a Marsala?
M’imbatto nelle fotografie dell’ipogeo di Crispia Salvia. Si tratta di una camera funeraria di venticinque metri quadrati risalente al II secolo d.C. Le pareti dell’ipogeo sono decorate da bellissime pitture.
Così, in libreria, mi metto a sfogliare un volume. Non ricordo né il titolo né l’autore. Subito m’imbatto nelle fotografie dell’ipogeo di Crispia Salvia. Si tratta di una camera funeraria di venticinque metri quadrati risalente al II secolo d.C. Le pareti dell’ipogeo sono decorate da bellissime pitture. Figure umane, festoni, fiori, le sagome di due pavoni. Ma non è questa la scoperta. Stando alle foto pubblicate, i disegni sembrano ben conservati. Il carminio di alcune pitture, i sepolcri scavati nella pietra e il tono ocra della stampa fotografica sprigionano un grande fascino.
Decido di andare a dare un’occhiata. Marsala è piccola. L’indirizzo è via Massimo D’Azeglio 41. In realtà non è così vicino come pensavo. Prendo per un vicolo e mi allontano da via Roma e il duomo. Passo di fronte al portone del seicentesco palazzo Sala-Spanò. Camminando, noto la presenza di più croci celtiche, nascoste in agguato sui muri del centro, specie nei vicoli (molte di queste croci celtiche vennero disegnate durante un 25 aprile di qualche anno fa). Ci vogliono venti minuti per arrivare in via D’Azeglio. “Certo, certo”, mi dice un signore, “devi proseguire, salire più avanti… via D’Azeglio, sì, dove c’era il vecchio tribunale”. Esco dal perimetro del centro storico. Mi sembra improbabile che l’ipogeo possa trovarsi da queste parti. Verifico di nuovo l’indirizzo. Finalmente arrivo in via Massimo D’Azeglio, ma non c’è traccia di ruderi o di reti e staccionate a circondare scavi e zone archeologiche o di faretti puntati a illuminare qualche capitello. C’è solo uno scenario di palazzi e condominii di recente costruzione, terrazzini, tapparelle, cancelli, cancelletti, citofoni, saracinesche, insegne, alberelli, automobili, scooter.
Nella luce viola e blu del tramonto arrivo al civico 41 e mi trovo di fronte a un palazzo di cinque piani, non so se color grigio o vaniglia, non riesco a distinguere, con le balaustre e le ringhiere dipinte di un rosso carminio, come quello delle pitture murali fotografate nel libro. Direi che si tratta, a occhio e croce, di una costruzione degli anni Novanta. O forse più recente, posteriore al Duemila. Poi vedo una piastrella di ceramica, decorata con il disegno di due pavoni, su uno dei due pilastri all’ingresso del palazzo. Sulla ceramica è scritto “Palazzo Crispia Salvia”, e di fronte all’altro pilastro, a destra, noto un palo di metallo con un cartello. Dice “Lilybeo-Ipogeo di Crispia Salvia. Dal II sec. d.C. al IV sec. d.C. Azienda provinciale turismo Trapani”. Un passo più avanti trovo un secondo cartello con una storia più particolareggiata del sito. Resto paralizzato dallo stupore e dall’eccitazione per quella che mi sembra una mezza scoperta. Comincio ad avere il sospetto, infatti, che l’ipogeo risalente a quasi due millenni fa, si trovi in mezzo a questi edifici o forse proprio sotto il condominio e gli appartamenti che ho di fronte.
L’ipotesi di un luogo così particolare mi lascia senza fiato. Attacco a leggere il testo stampato sul cartello, ma per la frenesia sono costretto a ricominciare la lettura da capo. Un tale di passaggio sul marciapiede, con le buste della spesa in mano, deve aver notato il mio stupore e deve averne anche intuito il motivo. Gli brillano gli occhi dietro la montatura di metallo. Si avvicina. Vive in una delle palazzine qui accanto. Mi conferma, con emozione, che è proprio come probabilmente sto pensando: l’ipogeo si trova sotto il palazzo, separato da giusto un muro dalle cantine dei condomini. È difficile da credere, ma è proprio così. “È bellissimo, è meglio di certe tombe etrusche, mi creda, deve tornare a vederlo”. Forse da tempo aspettava l’occasione di poter comunicare il suo amore per questo luogo, che sembra poco frequentato e conosciuto. M’informa che a quanto ne sa è possibile organizzare una visita su appuntamento. Bisogna chiamare il numero di telefono indicato sul cartello e mettersi d’accordo.
Il mattino dopo alle nove e mezzo chiamo e fisso l’appuntamento per l’indomani. Dovrò prima recarmi al museo archeologico, pagare un biglietto di 4 euro e poi, insieme a un custode munito delle chiavi dell’ipogeo, percorrere circa un chilometro e mezzo a piedi e tornare in via Massimo D’Azeglio. Per ventiquattr’ore vivo nell’attesa di calarmi sottoterra, ma soprattutto sotto il condominio. Mi preme non solo l’interesse per l’ipogeo, ma la curiosità di vedere che forma hanno e come si presentano l’accesso e il viatico all’ipogeo. Si entrerà dal cortile del palazzo o, magari, da una porticina accanto all’ascensore usato ogni giorno dai condomini? Quanto saranno vicini e contigui i due ambiti? È questa ipotetica prossimità che in primo luogo mi sconcerta e mi provoca una vertigine. C’è un tratto di surrealtà e di surrealismo nella possibile continuità tra un ipogeo del II secolo d.C. e la quotidianità fatta di calcestruzzo, impianti elettrici e probabili arredi Ikea degli appartamenti di un caseggiato del XXI secolo.
A breve il rivolo nero di un dolore e di un lutto vecchio di quasi duemila anni ci bagnerà la punta delle scarpe.
Verso sera trovo in via XI Maggio una libreria, biblioteca sociale e associazione culturale, Otium, situata nelle ex stalle della casa che fu un tempo dimora di Abele Damiani, eroe marsalese del Risorgimento. Frugando tra i volumi in consultazione di archeologia e storia locale, trovo un libricino: Lilybeo. L’Ipogeo dipinto di Crispia Salvia, pubblicato nel 1996. L’autrice è Rossella Giglio, archeologa e responsabile scientifica del recupero del sito in via D’Azeglio. Nel 1994, durante la demolizione di un fabbricato, gli operai del cantiere inciamparono in una struttura, un dromos, cioè le scale di pietra che conducevano al vecchio ipogeo. È così che venne ritrovato l’ipogeo. L’area di Crispia Salvia, in effetti, corrispondeva a quella di una necropoli punica, che continuò a essere utilizzata fino alla tarda età romano-imperiale.
Seduto su una delle poltrone di Otium, scorro le pagine di una relazione storico-archeologica. Non avevo idea del rigore e dello scrupolo a cui si deve attenere un archeologo. La puntigliosità del rapporto e il lessico specialistico possono risultare soffocanti, ma mi rendo conto che il salvataggio e la conservazione di un luogo passano anche attraverso la sua registrazione minuziosa e un rigore descrittivo che avvolge l’oggetto come una carta millimetrata: “Il dromos di accesso è realizzato con dieci gradini, interamente scavati nella roccia tufacea; gli ultimi quattro, in basso, hanno la pedata rivestita con lastre di calcare compatto, due sembrano spezzate in antico. Tracce di usura sono presenti anche nel gradino n. 10 […]”.
Crispia Salvia morì intorno ai 45 anni di età. Vantava nobili origini. Da un lato si suppone una discendenza dai Crispius, famiglia romana con interessi economici nella Sicilia occidentale, per l’altro lato le è stata attribuita l’appartenenza alla gens dei Salvii. L’ipogeo, di forma trapezoidale, venne costruito su iniziativa di Iulius Demetrio, marito di Crispia Salvia. Lungo una parete sopravvivono due amorini che reggono un festone, su un’altra di nuovo un festone e una coppia di pavoni e su una terza parete la scena di un gruppo di commensali seduti di fronte a un banchetto e a un tripode su cui è posata una coppa di vino. Ma è sulla parete est che resiste un’esplosione di vita e ardore: cinque danzatori, a piedi nudi e in tuniche corte a mezze maniche, poggiando ciascuno un braccio sulla spalla dell’altro, formano una coreografia, attorniati da “cinquantacinque fiori rossi dischiusi, su steli di colore ocra e verde”. Il climax è nella figura del danzatore a capo della fila, raffigurato nel gesto di donare un oggetto a una donna, mentre la donna, seduta, performa con l’aulos, il flauto doppio usato nell’antica Grecia.
Rossella Giglio descrive l’oggetto donato come “un oggetto di forma allungata il cui corpo centrale, reso con il colore giallo, termina con diversi tratti orizzontali di colore rosso”. Probabilmente raffigura una composizione floreale. I cinque danzatori sembrano agiti dalla propria volontà e al tempo stesso paiono trascinati e calamitati dalla melodia dell’aulos. Del volto di lei sono evidenziati, scrive Giglio, “l’occhio e i capelli che, resi con corpose pennellate, sono raccolti sulla nuca in uno chignon e ricadono morbidamente sulla fronte”. Tutto ciò che sappiamo sul conto della vita e della persona di Crispia Salvia resta nell’iscrizione lasciata su una lastra fittile:
CRISPIA SALVIA
VIXIT ANNOS
PLUS MINUS XLV
UXORI DULCISSIMAE
IULIUS DEMETRI
US QUAE
VIXIT CUM SUO
MARITO ANN XV
LIBENTI ANIMO
Significa, grosso modo, che Crispia Salvia visse all’incirca 45 anni, che fu una moglie molto dolce e che per 15 anni restò, con animo lieto, accanto al marito Iulius Demetrio. È una biografia che pur nella sua concisione dice ed emoziona. Anche per il particolare della scomparsa avvenuta all’età di 45 anni. È una morte che oggi ci appare, per le nostre abitudini e aspettative, insopportabilmente precoce e crudele.
L’appuntamento è alle dieci del mattino. Non sono l’unico visitatore. C’è anche una donna, originaria di Trapani. Insegna Lettere in una scuola di Roma ed è un’archeologa dilettante. Anche l’insegnante ha scoperto per caso l’esistenza dell’ipogeo, di cui non c’è menzione in guide molto usate come Routard e Lonely Plant. A entrambi l’ipogeo sembra poco pubblicizzato e quasi per niente conosciuto. Accompagnati dalla guardia museale varchiamo il cancello di metallo che immette nel cortile del palazzo. Il cancello si chiude con uno scatto alle nostre spalle. Sotto il sole di agosto percorriamo il cortile deserto lungo le piastre di ghiaino. Ci fermiamo in fondo all’edificio di fronte a una porta a vetri con infissi in alluminio bianchi. L’ingresso all’ipogeo si trova quindi all’interno del corpo del palazzo, ma è dotato di un accesso distinto. Non si trova, insomma, nell’androne condominiale, tra una pianta di edera e l’ascensore, eventualità che avevo preso in considerazione. L’ingresso dei condomini si trova giusto a fianco. Negli occhi di una residente incrociata nel cortile, colgo quella stessa intuizione del mio stupore e della mia trepidazione che avevo riconosciuto nello sguardo del passante la sera prima. Vorrei avere il tempo necessario e una buona scusa per entrare negli appartamenti di Palazzo Crispia Salvia, per sedermi, parlare con gli inquilini e capire che effetto fa vivere sopra i resti di una necropoli e in particolare di una camera funeraria costruita da un uomo del II d.C. in memoria di una sposa defunta. Come potrei fare per rompere il ghiaccio? Con quale domanda? Magari a nessuno interessa granché dell’ipogeo, non mi stupirebbe, la capacità di provare interesse e stupore mi sembra andata in deflazione, eppure nella mia esperienza bussare e domandare ha sempre portato a scoprire qualcosa che non sapevo, che non avevo messo in conto. Peccato non avere tempo. Il custode sceglie la chiave dal mazzo ed entriamo.
Eccoci in un corridoio pavimentato con mattonelle di marroncino chiaro e in fondo due solitarie seggioline con le rotelle e la seduta regolabile. Il clima, l’atmosfera, ricorda la sala di attesa di un ambulatorio o di un ufficio postale, quegli spazi impersonali dove ci si siede e insieme a gente che non conosciamo si attende l’uscita di un numero davanti a un monitor. Alle pareti sono appesi un paio di pannelli con una descrizione dell’ipogeo. Lo spazio è anonimo, ma è pulito e dignitoso. Una porta sulla destra apre su un bagnetto con water e lavandino. Le scale, il dromos, si trovano in fondo al corridoio, oltre le due seggioline a rotelle. A breve il rivolo nero di un dolore e di un lutto vecchio di quasi duemila anni ci bagnerà la punta delle scarpe. La guardia ci fa strada. Accende la luce delle scale, indica i gradini di pietra e c’invita a scendere. Dice che lui aspetterà sopra. Ci caliamo lungo i gradini accanto a un muro intonacato di recente, fino agli ultimi quattro scalini con “la pedata rivestita con lastre di calcare compatto”. In compagnia dell’insegnante sono finalmente nell’ipogeo. Lo spazio è angusto, ma le pitture intorno sono meravigliose e stupefacenti nella loro intatta e cordiale eloquenza. Non possiamo che guardare ed esprimere la nostra sorpresa nel tenue chiarore offerto da una lampadina.
L’insegnante è molto preparata e mi aiuta a comprendere meglio lo spazio in cui ci troviamo. Mi chiedo, banalmente, se le sepolture non siano troppo piccole per contenere un essere umano. L’insegnante non è dello stesso parere, poi divaga e inizia a raccontarmi delle Verrine, le orazioni scritte da Cicerone nel 70 a.C. in difesa degli abitanti della Sicilia, in una causa contro Gaio Licino Verre, il propretore dell’isola. Mi distraggo. Mi rendo conto di una certa approssimazione nei contorni delle figure dipinte. La mano non è eccellente. Anche l’insegnante è d’accordo. Mi monta un dubbio. Per un istante penso che i cinque danzatori potrebbero essere i progenitori di una volgarità danzante e di un edonismo scadente che durante l’estate ho visto protrarsi come una maledizione nel diluvio di video delle vacanze caricati su Instagram e poi in tante piccole città assediate dai turisti. Di colpo cade una luce diversa sull’ipogeo, come se il filo che lega due epoche e due civiltà nei millenni non fosse altro che quello della mediocrità e della piccolezza umana. Sul conto dell’espressione “UXORI DOLCISSIMAE”, incisa sulla lastra, mi domando se non sia altro che una formula cerimoniale, buona per nascondere le miserie di un rapporto. E così, risalendo le scale verdastre dell’ipogeo, mi ritrovo di fronte a un dilemma che si pone ogni giorno nella mia vita, quello che costringe ciascuno a scegliere tra il dubbio o l’incanto, tra una nuova illusione o la disillusione di sempre, tra il non credere più o il credere ancora.