Q uali sono i limiti della mia conoscenza? Essi sono insiti nella parola stessa conoscenza. Non soltanto la nostra conoscenza è limitata, ma la nostra stessa nozione di conoscenza è limitata. Del resto, la nostra stessa nozione di limite è angusta e si applica solo all’interiorità del limite, non anche al suo coté esterno. Sicché il limite della mia conoscenza include la conoscenza, ma non anche ciò che si trova al di là di essa, e di cui non so nulla. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” scriveva Ludwig Wittgenstein, semplicemente per mostrare che il linguaggio è una seconda nostra pelle, una seconda serie di sensori, altri occhi, altre orecchie, altre papille gustative. Per definizione ogni limite ha di per sé dei limiti, e i suoi limiti hanno limiti, all’infinito. Possiamo immaginarci il mondo come una successione di limiti, di curve di livello che gli conferiscono, tramite un’ombreggiatura infinita, rilievo e volume. Ma è questo il mondo, o almeno è il mio mondo? Ho una coscienza o sono una coscienza? Ho un mondo o sono un mondo?
L’immenso spazio che mi circonda non è sensoriale, non è nulla di ciò che posso avvertire, tanto meno di ciò che posso convertire in parole.
Cosa posso comprendere e cosa non posso comprendere? E perché non posso comprendere ciò che non riesco a comprendere? Qual è il confine fra intelligibile e inintelligibile? Potrò mai comprendere ciò che mi è ora incomprensibile? E perché l’incomprensibile mi è incomprensibile? In quanti modi non riesco a comprendere l’incomprensibile e per quanti motivi? L’incomprensibile che mi circonda è totale o scalare? È un muro o una nebbia che s’infittisce? Il poeta Nichita Stănescu parlava dell’incomprensione là dove esiste un senso come di una solitudine, e dell’incomprensione dove non esiste un senso come della solitudine della solitudine. Ma esiste davvero un che d’incomprensibile, magari ogni cosa incomprensibile è la conseguenza delle mie limitazioni? Sono una macchina per trasformare il caos in cosmo, lo spazio sensoriale in spazio logico. Però l’immenso spazio che mi circonda non è sensoriale, non è nulla di ciò che posso avvertire, tanto meno di ciò che posso convertire in parole. Dapprima il mio corpo ha cambiato questo non-percepito in un che di sensoriale, poi la mia mente ha ulteriormente convertito questo percepito, ancorché non-nominato, in nome. Ma in cosa cambierò ulteriormente addirittura lo spazio logico, per potere ancora salire un gradino nella conoscenza, per riuscire a superare un limite? In cosa convertirò il nome, decantando ancora una volta la percezione e il pensiero? Di fatto, se pongo un limite alla mia conoscenza, il limite non può che essere infinito, come una parete di roccia incredibilmente spessa che stia intorno a noi. Per me, tale idea è intollerabile. Perciò i limiti devono essere susseguenti, aerati, porosi, penetrabili, come una serie infinita di pelli che mi avvolgono, senza però soffocarmi.
Quali sono le cose grandiose e inutili che non conoscerò mai, poiché non ho bisogno di esse per sopravvivere, così come la formica non sa di vivere su un pianeta?
Riuscirò mai a estendere la zona sensoriale che mi sta intorno? In che modo potrò estenderla? Posso aggiungere sensori in numero maggiore o più potenti? La formica ha intorno a sé una zona sensoriale di alcuni centimetri. Nulla che sia al di fuori di essi la tange. La sua forma di conoscenza si chiama sopravvivenza. Essa non ha bisogno di sapere che esistono stelle, né che esisto io, che la osservo in questo istante. Eppure lei stessa conosce molto di più del nostro mondo inconoscibile rispetto a un verme parassita, che sa molto di più di un batterio. La parola stessa “conoscenza” cresce pian piano a livello embrionale lungo questi gradini. Quali sono le cose grandiose e inutili che non conoscerò mai, poiché non ho bisogno di esse per sopravvivere, così come la formica non sa di vivere su un pianeta? Esse sono sempre sotto i miei occhi, eppure non le vedo, stanno sotto la mia mente e non le comprendo, così come colui che sogna non sa di sognare. “Ci sono molte più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni nella tua filosofia” dice Amleto. Che cosa sa Amleto che non sa Orazio, perché la filosofia non sa, ma sogna? Questo posso dirlo anch’io alla formica, questo dico ogni giorno al mio gatto: “There are more things…”. Io stesso, la mia mente, il mio essere, incomprensibile per loro, sono uno di esse.
Lo accarezzo, e lui risponde garbatamente, ma non comunichiamo e saremo sempre estranei.
Il mio gatto ha una zona sensoriale molto più estesa rispetto alla formica, e una zona intuitiva come un nuovo gradino della conoscenza. Lui ritaglia sagome distinte dal caos del mondo, le memorizza e le usa per poter continuare a vivere. Ha molto più libero arbitrio della formica, tant’è che ci si chiede se per caso lo stesso libero arbitrio, la gratuità e la grazia dell’essere individuale, indipendenti dallo sfondo, non indichino la conoscenza. I minerali, le piante, i virus, i batteri, i vermi vengono più che altro pensati, dalle origini del mondo, dal punto in cui sono nate le leggi della fisica, rispetto a quanto loro stessi pensino. Quanto più si riflette a livello individuale tanto più si è liberi dal fondale ed è possibile cominciare a conoscere. Il mio gatto è consapevole di sé, vive dentro la sua propria vita come in una casa compiutamente conosciuta. Sente e intuisce lo spazio circostante. Nemmeno lui vede i libri, le nuvole, le altre innumerevoli cose che si trovano in cielo e in terra. La sua filosofia è parimenti sognatrice quanto quella di Orazio. Lo tengo in grembo mentre scrivo queste righe, e a volte lui mi guarda alzando i suoi occhi chiari verso di me. Non mi vede però realmente. Perché sono un essere fantasmatico, il cui mondo, benché in prossimità, gli è inaccessibile, così come non è possibile toccare qualcuno che stia al di là di una sottile parete di vetro. Mi vede, ma non mi conosce. Non comprende le mie motivazioni, non è colpito dalle mie capacità, comunque straordinarie. Posso accendere la luce, per esempio, nella stanza in cui siamo, posso guidare l’auto, posso far scorrere l’acqua in bagno. Lo accarezzo, e lui risponde garbatamente, ma non comunichiamo e saremo sempre estranei.
Quando penso alla divinità, m’immagino i rapporti fra noi sul modello di quelli fra me e un batterio, o tra me e una formica, o tra me e il mio gatto.
Quando penso alla divinità, m’immagino i rapporti fra noi sul modello di quelli fra me e un batterio, o tra me e una formica, o tra me e il mio gatto. Ma su una curva asintotica, precipite, frenetica. Né la formica, né l’uccello, né il lupo, né alcun altro essere ha mai voluto sollevarsi verso di me, per cingermi, per arrivare a sapere come sono la mia vita e il mio pensiero. Solo io ho spezzato questa simmetria e sento il bisogno disperato di comunicare con Lui. Per potermi protendere verso di Lui ho bisogno di sapere a che distanza si trova rispetto a me: quella tra un virus e me? Tra un insetto e me? Tra un gatto e me? Quanti gradini devo salire per riuscire a contemplarLo? Quanto si è evoluto l’embrione della conoscenza per giungere all’uomo maturo che è Lui, e dove mi trovo io nella sua assorta presa in forma di cuspide di felce?
Per conoscerLo non mi aiuta il pensiero logico, così come il cacciavite è troppo primitivo per essere impiegato in un circuito stampato.
Come starei tranquillo se la distanza fra noi fosse soltanto quella tra un bambino e l’uomo maturo! Allora aspetterei solo di crescere. Crederei che soltanto l’insufficienza delle mie aree prefrontali, non completamente sviluppate, m’impediscono di conoscerLo, così come non sappiamo, quando siamo piccoli, perché il nostro papà va tutti i giorni al lavoro, cosa fa lì, come si districa nel mostruoso labirinto della città che affronta senza che nessuno gli dica cosa fare e cosa non fare, ma abbiamo fiducia che comprenderemo la sua vita quando saremo grandi. Come sarebbe bello se io e Lui non fossimo specie diverse, regni diversi, ma età differenti dello stesso essere! “La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà”, scriveva Paolo ai Corinzi. “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato.” Se però il mio accesso allo spazio logico, al pensiero simbolico, non mi servisse granché per conoscerLo rispetto all’accesso della formica allo spazio ottico, nel limite di quei pochi centimetri che le stanno intorno? Se il mio pensiero, che fa sì che io sia incomprensibile per un gatto, fosse insufficiente, non per intensità, ma per ragioni di adeguatezza, per poterLo cogliere? Il gatto mi vede, ma non può pensarmi. Io posso pensarLo, ma non Lo posso… cosa? Non ho nemmeno parole per questo. Quale organo dovrei avere, che fosse rispetto al pensiero ciò che è il pensiero rispetto alla vista, per poter contemplare Colui che è al di sopra di me, che si trova in cieli metafisici su cui non ho alcun tipo di idea, e, se pure l’avessi, saprei che è sbagliata, essendo semplicemente un’idea e non… cosa? Sbaglio persino pensando a una supermente, a una metaidea, sbaglio infatti in maniera sostanziale mirando a una mente, a un processo logico. Per conoscerLo non mi aiuta il pensiero logico, così come il cacciavite è troppo primitivo per essere impiegato in un circuito stampato.
Tra ciò che potremo conoscere, gradualmente, in futuro, e ciò che non potremo mai conoscere c’è un baratro assoluto.
La nostra zona sensoriale è estesa, molto più estesa di quella di un batterio, di una formica o di un gatto. Si estende non per al cuni centimetri o per alcune centinaia di metri, “fino al limitare dello sguardo”, ma sulla distanza dell’universo “conoscibile”, fin dove tutto si allontana da noi più rapidamente di quanto non possa la luce unificare il mondo. Sappiamo delle strutture colossali dell’universo visibile, del Superammasso Laniakea, del Grande Attrattore, della Grande Muraglia e di quasar estremamente lontani. Li ho percepiti mediante le protesi tecnologiche dei nostri sensi. Auguriamoci che appureremo anche la composizione dell’universo invisibile, quel novantasei per cento di materia e di energia oscura sulle quali non abbiamo alcuna idea oggi. L’immensità dell’universo, nello spazio, nel tempo e nella causalità, i trilioni e i quadrilioni e i quintilioni e i sestilioni di galassie sembrano impressionanti, ma questo spazio resta uno spazio sensoriale, per nulla diverso da quello della formica: non c’è nessuna differenza fra alcuni centimetri e alcuni parsec in torno al nostro corpo. La formica è ammantellata in un po’ di fili d’erba, noi siano racchiusi nel cosmo: è la stessa medesima cosa. Però tra ciò che potremo conoscere, gradualmente, in futuro, e ciò che non potremo mai conoscere c’è un baratro assoluto, senza speranza, non diverso da quello che ci ha lasciato Immanuel Kant. Non sappiamo cos’è il mondo esterno alla no stra coscienza, prima che quest’ultima gli conferisca la sua stes sa forma. La vite e il cacciavite sono nati assieme e sono parte dello stesso concetto. È la stessa cosa col mondo e la coscienza, fatti l’uno per l’altra. Però il mondo è molto più vasto di una vite e di un cacciavite. Con quale attrezzo, inconcepibile per noi e non ancora in nostro possesso, potremmo dipanare la cosa in sé? Per questo non bastano né l’osservazione, né il pensiero, occorre qualcosa che trarrà origine dal pensiero così come il pensiero dall’osservazione.
Un essere che vivesse su un piano orizzontale potrebbe conoscere quel piano su miliardi di chilometri quadrati, eppure non sapere nulla di ciò che si trova nelle sue immediate vicinanze.
La mia conoscenza non può essere sopravanzata nello spazio e nel tempo. Il pensiero non è stato una crescita graduale dall’esperienza sensoriale, ma una rivoluzione, un’ascesa in verticale. Posso pensare di più o meglio senza che la mia forma di conoscenza muti. Il fatto che capisco oggi la fisica di un quasar è la medesima cosa con l’avere capito un tempo che è possibile conservare l’acqua in un recipiente d’argilla. Un essere che vivesse su un piano orizzontale potrebbe conoscere quel piano su miliardi di chilometri quadrati, eppure non sapere nulla di ciò che si trova nelle sue immediate vicinanze. In realtà non potrebbe né sentire, né pensare il mondo a tre dimensioni che ingloba il suo piano orizzontale. Lui non può evadere dal mondo, poiché non può pensare l’evasione se non come una fuga anche più in lontananza sul suo piano, mentre in realtà l’unica evasione vera sarebbe, per lui, la sua elevazione perpendicolare al piano, la conquista della terza dimensione, per lui inconcepibile. Né noi c’immaginiamo in che modo conosce la divinità. Lui non sa molto più di noi, ma conosce diversamente. Il Suo pensiero non è logico, ma è perpendicolare allo spazio logico, così come lo spazio logico è nato mediante l’elevazione dallo spazio sensoriale. Il pensiero della divinità non è una supermente, ma una conoscenza perpendicolare alla nostra mente e che ha accesso a un’altra dimensione. Come noi possiamo guardare dentro un forziere disegnato sopra un foglio di carta, la divinità, dalla sua dimensione a noi inaccessibile, può guardare dentro di noi. La divinità può passare attraverso i nostri muri e può vedere il nostro futuro monoplanare e può fare tutto ciò che fanno gli dèi di cui abbiamo nozione, dai Veda ai Vangeli. Chiamiamo miracolo l’intervento della divinità nel nostro mondo attraverso l’inconcepibile atto della discesa verticale.
Ogni limite ha anch’esso, per noi, una sola faccia: quella rivolta verso di noi.
Non sapremo mai cos’è il mondo, com’è il mondo, perché c’è il mondo, come si presenta il mondo quando non esiste neppure un occhio che lo veda. Come sarebbe se non fossimo mai nati. Come sarà dopo la nostra morte e dopo la scomparsa della coscienza – dell’ameba, dell’uomo o della divinità – dal mondo. Tutto quel che sappiamo è che ci protendiamo disperatamente verso di esso, così come il bambino tende le mani verso la luna, come il gatto tenta di afferrare su una parete il riverbero di luce di uno specchietto. Non potremo mai conversare con una divinità, non potremo comprenderne la vita, i moventi, la psicologia, i poteri, la bontà o l’atrocità. Nemmeno se la distanza fra noi fosse quella che c’è fra un bambino e un adulto. Ma se fossi un semplice batterio nelle Sue viscere? Un granello di polvere nel Suo mondo a quattro, a cinque, a cento, a un milione o a un sestilione di dimensioni? Quanti guardiani, sempre più potenti, presidiano l’infinita sequenza concentrica di porte della Legge? Dal terzo in su, scriveva Kafka, non riusciamo più a sopportarne lo sguardo. Queste porte sono i limiti della nostra conoscenza, loro stesse di uno spessore infinito. Come il disco con una sola superficie di un racconto di Borges, ogni limite ha anch’esso, per noi, una sola faccia: quella rivolta verso di noi. L’altra è la cosa in sé, destinata a restare per sempre sconosciuta. È la divinità il cui volto è semplicemente la sua ombra proiettata su di noi, che ci copre e ci consola.
Traduzione di Bruno Mazzoni.
Estratto dall’antologia Contemporaneo occidentale (il Saggiatore, 2022), a cura di Andrea Gentile.