L o scorso 25 luglio a Roma, nel quartiere di Primavalle, un uomo di nome Hasib Omerovic è precipitato dalla finestra del suo appartamento durante un’operazione illegale effettuata da quattro agenti di polizia in borghese. L’intervento non era stato autorizzato da un magistrato né risulta che vi fosse alcuna inchiesta ufficiale che coinvolgesse l’uomo, trentaseienne bosniaco di etnia rom, sordo dalla nascita e affetto da disabilità. Inizialmente in pericolo di vita, dopo aver subito tre interventi chirurgici al Policlinico Gemelli si è stabilizzato, ma è tuttora in coma in condizioni molto gravi.
I poliziotti sono intervenuti, non si sa ancora se autorizzati o per ordine dei superiori, dopo la comparsa di un messaggio su Facebook, poi rimosso, che additava Omerovic come molestatore seriale, con tanto di foto, accusandolo di infastidire donne e ragazze del quartiere. Gli agenti hanno fatto irruzione presso l’abitazione della famiglia Omerovic mentre l’uomo era solo in casa con una sorella disabile. Stando al racconto di quest’ultima, dopo averlo fotografato, hanno iniziato a picchiarlo con violenza fino a spingerlo giù dalla finestra della sua camera.
La versione degli agenti è di segno opposto. Sostengono di essere entrati per l’identificazione e che dopo alcuni momenti trascorsi nella calma, l’uomo si sarebbe agitato all’improvviso e, dopo essersi chiuso in camera, si sarebbe lanciato dalla finestra. Le circostanze in cui è avvenuto il fatto sono ancora poco chiare e le indagini della magistratura sono appena iniziate, ma alcune delle testimonianze e delle immagini raccolte (segni di colluttazione e macchie di sangue nell’appartamento) già smentiscono in parte la ricostruzione proposta dalla polizia.
Il fatto di maggiore gravità è che il caso sia stato reso noto soltanto il 12 settembre, grazie a una conferenza stampa indetta dal deputato di +Europa Riccardo Magi, che ha chiesto al Ministro dell’Interno di chiarire la vicenda. Senza questo intervento, voluto con forza dalla famiglia della vittima, della vicenda forse non si sarebbe parlato affatto, né sarebbero state svolte ulteriori indagini.
L’episodio di Primavalle ha riportato alla mente, con sinistre analogie, i molti casi di abusi legati all’operato delle forze di polizia avvenuti nel nostro Paese.
Al di là di come si siano svolti con esattezza i fatti, l’episodio di Primavalle ha riportato alla mente, con sinistre analogie, i molti casi di abusi avvenuti nel nostro Paese, riproponendo inoltre nodi e problemi di vecchia data legati all’operato delle forze di polizia: uso indiscriminato della violenza, eccessiva discrezionalità, poca trasparenza, impunità ed eccessiva subordinazione al potere politico.
La storia degli abusi polizieschi in Italia è antica come le istituzioni preposte al controllo dei cittadini e si è ripetuta in maniera ciclica nel corso di tutta la storia unitaria del Paese. A farne le spese sono state quasi sempre le persone più deboli, quelle appartenenti alle classi sociali più povere. Sin dall’Ottocento infatti, per queste persone finire nelle mani dello Stato italiano e delle sue polizie significava talvolta andare incontro a sofferenze molteplici, senza alcuna possibilità di difendersi, e per i più sfortunati si trattava dell’inizio di un percorso doloroso fatto di abusi, violenze, torture, e talvolta morte.
Le classi dirigenti dell’Italia liberale, oltre che dai “delinquenti politici” (gli anarchici, per fare un esempio), erano ossessionate dalle cosiddette classi pericolose, una definizione piuttosto labile in cui si includevano varie tipologie di persone povere e marginali, come senza lavoro, vagabondi e prostitute. Contro queste categorie, le polizie disponevano di una serie di strumenti legali, come l’ammonizione, che se impiegati rendevano ancora più precaria e vulnerabile l’esistenza, rendendo le persone ostaggio di polizia e carabinieri.
Quando gli appartenenti a queste classi sociali finivano nelle mani dei tutori della legge gli abusi e le violenze erano all’ordine del giorno, e spesso erano coperti dal silenzio delle stesse vittime, che avevano paura di peggiorare la loro condizione. Nel 1882 Federico Giorio, un ex allievo di Ps, in un pamphlet intitolato Ricordi di Questura denunciò come casi di percosse e torture fossero all’ordine del giorno.
Quanti arrestati non vanno a finire tisici e consunti in forza dei maltrattamenti e percosse subite dai questurini! Ma tutto si mette in silenzio e su tutto si stende un velo! Volete che un ammonito o sorvegliato abbia a parlare? Ei sa che la Questura gli è sempre alle calcagna e che un’altra volta lo farebbe morire sotto una tempesta di pugni. Che parlino gli oziosi? Hanno paura di essere ammoniti. Che parlino gli innocenti? Ma nessuno parla per paura delle percosse ricevute e di possibili continue persecuzioni. Eppure, abbenché nessuno parli, la voce gira, è diffusa, è convinzione generale che un arrestato dalla polizia venga sottoposto al martirio di pugni, d’insulti, d’atroci torture.
Se da un lato poveri, disoccupati e vagabondi erano visti dalla borghesia come una minaccia alla proprietà e all’ordine, le prostitute rappresentavano un pericolo per la moralità e per la salute. Pertanto la sorte delle donne schedate come tali poteva dirsi anche peggiore, senza dimenticare che spesso finivano incastrate in questa categoria anche persone che non esercitavano, solo perché meno abbienti, prive di domicilio o disoccupate. Viste da alcuni poliziotti dell’epoca come “malfattori in gonnella”, queste donne erano vittime di abusi fisici e psicologici e venivano forzate a continue e minuziose ispezioni mediche da parte di ufficiali sanitari uomini.
Le classi dirigenti dell’Italia liberale, oltre che dai “delinquenti politici”, erano ossessionate dalle cosiddette classi pericolose, in cui si includevano varie tipologie di persone povere e marginali, come senza lavoro, vagabondi e prostitute.
Nel corso del ventennio fascista, con le polizie completamente asservite al regime, certi metodi polizieschi che prevedevano il ricorso alla violenza, alla tortura o talvolta all’uccisione furono utilizzati, in special modo quando si trattava di procedere contro persone considerate pericolose per lo Stato. Per contrastare in maniera sbrigativa la mafia, il banditismo e qualsiasi forma organizzata di criminalità, il regime creò appositi Ispettorati, polizie speciali composte da funzionari esperti, risoluti e senza scrupoli, che utilizzavano ogni mezzo possibile (compresi gli omicidi) per conseguire i risultati richiesti dal regime. Parte di questo personale fu impiegato anche durante la seconda guerra mondiale, nel corso della brutale repressione operata contro le organizzazioni partigiane prima in Slovenia e poi anche in Italia.
Al termine del secondo conflitto mondiale certe pratiche poliziesche non scomparvero e furono portate in dote, come prassi consolidate, da molti di quegli uomini che transitarono dalle polizie fasciste a quelle della Repubblica senza subire alcuna epurazione. Nel nuovo clima democratico, fortemente condizionato dall’inizio della guerra fredda, i sistemi adottati dal passato regime tornarono di nuovo utili per contenere in maniera energica le opposizioni di sinistra. Accanto alla consueta discrezionalità e arbitrarietà, per volere del ministro democristiano Mario Scelba, la polizia mostrò il suo lato più violento e brutale nella gestione delle lotte sociali, dei conflitti di lavoro e degli scioperi, causando in meno di dieci anni, tra il 1947 e il 1954, oltre cento vittime tra braccianti, contadini e operai. Ma se dei morti nel corso di manifestazioni di piazza si aveva notizia, proprio perché gli episodi avvenivano in luoghi pubblici, poco o nulla si sapeva degli abusi e delle violenze commessi negli uffici di polizia, nelle caserme dei carabinieri, o nel corso degli arresti e delle perquisizioni.
Nel 1953 un piccolo volume scritto da Lelio Basso, intitolato La tortura oggi in Italia, tentò di rompere il muro di silenzio e impunità che copriva gli abusi delle forze di polizia. Lo scritto del deputato socialista era una triste discesa negli inferi che mostrava, ancora una volta come era avvenuto in passato, che le persone che subivano violenze da parte della polizia erano in stato di fermo o per motivi politici, o perché avevano commesso reati comuni e appartenevano “ai ceti più poveri e più sforniti di difesa sociale”. Nella sua denuncia Lelio Basso evidenziava inoltre le grosse difficoltà che le vittime della violenza poliziesca incontravano nella loro richiesta di giustizia, con una magistratura che tendeva quasi sempre ad avvalorare la tesi della polizia dando torto a chi aveva il coraggio di denunciare. Su tutto ciò si aggiungeva il peso delle differenze sociali, in quanto la possibilità di ottenere giustizia appariva ancor meno probabile quando la vittima apparteneva “ai ceti più poveri della società, a uomini cioè di un’altra classe, che quindi [avevano] un’altra mentalità, un’altra concezione della vita, altri problemi, altre relazioni sociali, [esprimevano] un altro mondo, e non [apparivano] pertanto al giudice come dei suoi simili”. In questo quadro, l’impunità di cui godevano poliziotti e carabinieri che commettevano violenze era pressoché totale.
Notizie di abusi, torture e omicidi costellano anche la storia dei decenni successivi. Vale la pena accennare al caso di Franco Serantini, un giovane anarchico di vent’anni morto il sette maggio 1972 nel carcere di Pisa, due giorni dopo le brutali percosse inflittegli dalla polizia nel corso di una manifestazione contro un comizio dell’Msi. La sua vicenda è stata ricordata quest’anno, in occasione del cinquantenario della morte, da un volume di Michele Battini. Serantini era un lavoratore studente, orfano e privo di una famiglia adottiva, cresciuto in un triste itinerario fatto di orfanotrofio, collegio e riformatorio. Dopo essere stato percosso in strada dalla polizia, il giovane venne arrestato e lasciato due giorni chiuso in cella ad agonizzare fino alla morte, nel più completo disinteresse delle autorità competenti. Del resto anche in questo caso si trattava di un soggetto debole, una persona da poter trascurare nella certezza che nessun familiare avrebbe reclamato. Come ha scritto Corrado Stajano, “Lo Stato e le istituzioni lo considerano fino alla morte figlio di N.N., dopo aver ossessionato lui incolpevole, come suddito capace solo di doveri, quasi a dar ragione a certe fantasie popolari, per cui uno nasce figlio di puttana e muore figlio di puttana”.
Al termine del secondo conflitto mondiale certe pratiche poliziesche non scomparvero e furono portate in dote, come prassi consolidate, da molti di quegli uomini che transitarono dalle polizie fasciste a quelle della Repubblica senza subire alcuna epurazione.
Nel caso di Franco Serantini, come in molte occasioni analoghe, anche senza esito mortale, l’impunità di cui godettero gli uomini delle forze dell’ordine che si erano resi responsabili della sua morte fu quasi assoluta. Anche in un clima pienamente repubblicano e democratico, a margine delle loro operazioni meno ortodosse e più violente, le polizie poterono sempre contare sulla complicità della magistratura. Come ha ricordato Giovanni De Luna, ripercorrendo alcuni degli omicidi avvenuti negli anni Settanta, “le sentenze relative ai casi in cui gli assassini appartenevano alle forze dell’ordine sono balbettanti, contraddittorie, perfino imbarazzanti per chi le ha emesse”.
Nella seconda metà degli anni Settanta, le istanze democratiche nate all’interno di alcune istituzioni dello Stato diedero ai contemporanei la speranza di un mutamento sostanziale che coinvolgesse anche gli apparati di polizia. In particolare, il movimento sorto in maniera del tutto spontanea all’interno della Pubblica Sicurezza mostrò di avere la forza e la capacità contrattuale per imporre una riforma della polizia ai vertici dell’Istituzione. La legge 121/81 che diede vita alla Polizia di Stato rappresentò un momento di cesura piuttosto importante: smilitarizzò la Ps, riformò alla base il sistema di istruzione degli agenti, garantì l’ingresso delle donne negli stessi ruoli degli uomini e consentì una sindacalizzazione, seppur mantenendo una separazione dai sindacati tradizionali che molto avevano fatto per favorire il movimento e la riforma.
Nonostante questi importanti cambiamenti, le torture verificatesi nel corso delle indagini sul sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense rapito dalle Brigate Rosse il 17 dicembre del 1981, furono il primo segnale della persistenza all’interno dell’istituzione di pratiche di lunga data. A distanza di anni, dopo le dichiarazioni di un poliziotto che aveva preso parte a queste “operazioni”, si ebbe la conferma che le torture ai brigatisti non rappresentavano un episodio isolato, ma erano il risultato del lavoro collaudato di una squadra speciale voluta dal Ministero dell’Interno, attiva già da alcuni anni e composta da funzionari di polizia esperti in pratiche come il waterboarding. Il ricorso a interrogatori violenti, che talvolta prevedevano anche la tortura, continuò dunque a far parte delle pratiche della polizia anche dopo la riforma della Ps. Alla fine di luglio del 1985 fece molto scalpore l’omicidio di Salvatore Marino, un giovane in stato di fermo con l’accusa di essere coinvolto nell’uccisione di Beppe Montana, commissario della mobile di Palermo impegnato nella lotta alla mafia. Nel corso di un violento interrogatorio durato molte ore Marino fu bastonato su tutto il corpo, costretto a ingurgitare ingenti quantitativi di acqua salata e torturato fino a causarne la morte.
A distanza di vent’anni dalla riforma della polizia, la violenta repressione operata nelle manifestazioni contro il Global Forum di Napoli del marzo 2001 e quella ancora più brutale, del luglio dello stesso anno, durante le manifestazioni contro il G8 di Genova, insieme con gli episodi accaduti nella caserma di Bolzaneto e nel corso dell’irruzione alla scuola Diaz, riportarono l’attenzione pubblica sul problema della violenza delle forze dell’ordine. Inoltre, proprio a partire dal 2001, una preoccupante serie di morti avvenute per mano di polizia e carabinieri, o comunque in circostanze poco chiare, ha aperto gli occhi sul persistere di una pericolosa anomalia nel comparto sicurezza della Repubblica.
Anche in un clima pienamente repubblicano e democratico, a margine delle loro operazioni meno ortodosse e più violente, le polizie poterono sempre contare sulla complicità della magistratura.
I nomi di alcune delle persone spazzate via da questa spirale di violenza, come quello di Stefano Cucchi (a cui è stato dedicato anche un film), sono ormai noti grazie ai familiari che non si sono mai rassegnati nella loro richiesta di giustizia. Restano altrettanto vivide nella memoria collettiva anche le immagini dei corpi martoriati delle vittime di queste violenze, fotografati e mostrati in pubblico per volere delle famiglie, affinché una presa di coscienza collettiva favorisse la ricerca di verità e di giustizia. Nel 2011, Luigi Manconi e Valentina Calderone hanno raccontato queste vicende nel volume Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri, raccogliendo le storie delle persone morte nelle mani dello Stato e delle sue istituzioni. Nel volume si presta un’attenzione importante anche al carcere e a quelli che erano gli ospedali psichiatrici giudiziari (dal 2015 sostituiti da strutture di accoglienza alternative).
In questi giorni ricorre l’anniversario della morte di Federico Aldrovandi, la sua storia è stata raccontata di recente in un podcast realizzato da Francesca Zanni. È importante accennare alla vicenda perché contiene in sé una serie di elementi importanti per comprendere appieno le dinamiche, i problemi e le distorsioni che emergono puntualmente in questi casi di abuso. Il 25 settembre 2005, tra le cinque e le sei del mattino, Federico Aldrovandi stava tornando a casa dopo una serata trascorsa con gli amici in un locale di Bologna, aveva diciotto anni e frequentava le scuole superiori. Venne fermato per un controllo da una pattuglia della polizia in una zona non molto distante da casa, su richiesta della prima intervenne anche un’altra pattuglia. Il ragazzo morì poco dopo le sei, al termine di un violentissimo pestaggio, per un trauma dovuto allo schiacciamento del torace causato dai quattro poliziotti che gli erano saliti addosso per immobilizzarlo.
Dopo l’omicidio iniziò subito un’operazione di disinformazione e di depistaggio, in cui le autorità si preoccuparono di diffondere versioni false, riprese dalla stampa locale, che attribuivano la morte a un malore dovuto all’eccesso di sostanze stupefacenti. Le indagini aperte dopo la morte del ragazzo seguivano la sola pista del malore e dopo un paio di mesi la vicenda sembrò cadere nel dimenticatoio. Fu soltanto la tenacia della famiglia di Aldrovandi a far sì che qualche spiraglio di verità iniziasse a intravedersi. La madre, Patrizia Moretti, aprì un blog per raccontare ciò che era accaduto a suo figlio, cercando di far conoscere l’episodio e ottenere nuove indagini che portassero ad avere giustizia. Le parole con cui si apriva il primo post del blog, datato 2 gennaio 2006, fanno male anche a distanza di diciassette anni dalla scomparsa del ragazzo. “Scrivo la storia di quel che è successo a Federico, mio figlio. Non scriverò tutto di lui, non si può raccontare una vita, anche se di soli 18 anni appena compiuti. È morto il 25 settembre, il giorno di Natale sono stati tre mesi… Ho sempre pensato che sopravvivere ad un figlio fosse un dolore insostenibile. Ora mi rendo conto che in realtà non si sopravvive. Non lo dico in senso figurato. È proprio così. Una parte di me non ha più respiro. Non ha più luce, futuro… Perché il respiro, la luce e il futuro sono stati tolti a lui”. Grazie al blog l’attenzione mediatica sul caso divenne fortissima e le indagini furono riaperte, fino alla condanna dei quattro poliziotti.
Nella lunga battaglia della famiglia per ottenere giustizia si verificarono episodi inquietanti che mostrarono la persistenza profonda di culture autoritarie all’interno della polizia, ma anche nella politica e nella stessa società. Innanzitutto, si registrò all’inizio delle indagini la sostanziale omertà dei cittadini residenti nella zona dove era avvenuto il fatto, che non videro o, per paura di conseguenze, sostennero di non aver visto nulla. L’unica a raccontare del pestaggio fu una donna di origine camerunense con il permesso di soggiorno in scadenza.
La vicenda di Federico Aldrovandi prsenta una serie di elementi importanti per comprendere appieno le dinamiche, i problemi e le distorsioni che emergono puntualmente in questi casi di abuso.
In parallelo, i poliziotti della questura di Ferrara espressero la loro solidarietà ai colleghi coinvolti nella vicenda Aldrovandi attraverso una sottoscrizione, organizzata da cinque sindacati di polizia, che raccolse 233 firme tra il personale ferrarese. Anche quando il coinvolgimento dei quattro poliziotti apparve chiaro e le responsabilità nette, almeno due sindacati continuarono a difendere a spada tratta gli accusati, mostrando ancora una volta una concezione chiusa, arretrata e corporativa del loro ruolo. Ancor più gravi furono gli applausi che i poliziotti riuniti al congresso nazionale del Sindacato autonomo di polizia, tenutosi nell’aprile 2014 a Rimini, dedicarono agli agenti condannati per l’omicidio di Aldrovandi. Questi episodi evidenziarono ancora una volta il permanere, all’interno delle istituzioni poliziesche (non solo della Polizia di Stato), di un tenace spirito di corpo che favoriva la chiusura e l’omertà, come era emerso anche in alcune testimonianze di poliziotti ai processi per l’irruzione nella scuola Diaz, al termine delle manifestazioni del G8 di Genova. In questo, come in altri casi di abusi polizieschi, buona parte del mondo politico (di centro-destra, ma non solo) ha giocato spesso un ruolo negativo, mostrando poca empatia o indifferenza nei confronti delle vittime e la tendenza ad assumere posizioni in difesa delle forze dell’ordine per puro calcolo elettorale. Reticenze analoghe si sono manifestate anche in una parte della magistratura.
Nell’ultimo ventennio è inoltre emerso all’interno delle politiche di sicurezza un fattore che ci riporta all’attualità e al caso da cui siamo partiti, quello di Hasib Omerovic. Terminate le grandi emergenze che hanno caratterizzato l’operato di polizia e carabinieri nei decenni passati – conflitti del lavoro, contestazione politica, terrorismo e mafia (nonostante la questione criminalità organizzata sia tutt’altro che risolta) – l’attenzione delle forze dell’ordine si è concentrata di nuovo, come nel passato remoto, sugli appartenenti alle classi sociali più deboli. Come in altre epoche su questo fronte hanno avuto un peso enorme le scelte della politica, non soltanto quella dei partiti di destra o centrodestra, che ha schiacciato il discorso sicurezza sull’opposizione decoro/degrado. La stessa politica di conseguenza ha spinto la polizia a svolgere un lavoro improprio di “pulizia sociale”, l’ha trasformata in un ammortizzatore per (re)spingere la devianza ai margini della società. Mostrando in tal modo un’idea di sicurezza di classe, da usare contro le persone considerate indesiderabili: povere, senza casa, con problemi mentali, tossicodipendenti, legate al mondo della prostituzione, nomadi o migranti.
Per molti partiti politici del resto è stato più facile ridurre il discorso sulla legalità alla persecuzione di queste categorie sociali, prive di potere, influenza e rappresentanza, piuttosto di rischiare di ledere interessi importanti facendo i conti, per fare un esempio, con i politici appartenenti alle centinaia di amministrazioni locali sciolte per infiltrazioni della criminalità organizzata negli ultimi trent’anni. Ma su questo punto i partiti politici non hanno fatto altro che intercettare e legittimare un sentimento piuttosto diffuso nelle classi medie e alte del Paese, un’intolleranza che non conosce differenze tra città e provincia, un fastidio per la diversità e la marginalità che viene ormai esibito senza alcuna vergogna.