I l disegnatore e autore serbo Aleksandar Zograf, all’anagrafe Saša Rakezić, classe 1963, cultore della ricerca storica, è uno scrigno di vissuti intensi che inizia a raccontare così: “È stato incredibile esordire negli Stati Uniti, mentre sopravvivevo nell’ex Jugoslavia disgregata dal conflitto fratricida degli anni Novanta. Il mio primo libro, Life Under Sanctions, è stato pubblicato oltreoceano da Fantagraphics, che è tra i più importanti editori di fumetti al mondo”.
Il suo percorso editoriale è davvero fuori dal comune: le opere pionieristiche di giornalismo grafico, che descrivono la deflagrazione e le attuali implicazioni delle guerre jugoslave, hanno costruito un inedito ponte culturale con l’America e l’hanno consacrato a livello internazionale. Dal debutto ha pubblicato molto più all’estero che in patria. Zograf ha unito il locale all’universale. È rimasto sempre molto attivo nella realtà artistica di Pančevo e Belgrado ma portandola oltre i confini della Serbia. In questo senso l’attenzione di Fantagraphics è stata determinante. Life Under Sanctions uscì nel 1994, quando il mosaico jugoslavo era esploso. Il fumettista rappresentò lo sgomento per la guerra civile, le dinamiche che l’avevano prodotta, la propria condizione di clandestinità e le conseguenze sulla popolazione delle sanzioni internazionali imposte alla Serbia.
Quando ero bambino, nella Jugoslavia degli anni Settanta, potevi leggere non solo fumetti locali, ma anche americani, britannici, franco-belgi e altri. I fumetti italiani erano tra i più popolari, per Alan Ford c’era un vero e proprio culto – ricorda Zograf –. Al momento della decomposizione della Jugoslavia, la scena underground era in ascesa: c’erano tante fanzine, piccoli festival ed eventi. Ora i fumetti si trovano perlopiù nelle librerie, sotto forma di graphic novel e antologie, e sono quasi del tutto spariti dalle edicole. È ancora una scena interessante, ma forse non così popolare come prima tra i lettori generalisti.
A causa della guerra nelle riviste locali scomparvero i fumetti. Zograf continuò a creare piccole fanzine autopubblicate, cercando una sponda all’estero:Da piccolo disegnavo su qualsiasi foglio di carta trovassi. Sono stato influenzato da mia madre che era una grande lettrice di fumetti, mentre mio padre che suonava mi avvicinò alla musica. A metà degli anni Ottanta collaboravo con riviste jugoslave. Da ragazzo mi impressionava la realtà americana del fumetto. Durante la guerra la Serbia sembrava un luogo ormai fuori dal mondo, ma presi contatto con artisti e case editrici che seguivo, mandando le mie storie illustrate negli Stati Uniti.
Tra i fumettisti di livello internazionale Chris Ware gli diede un riscontro particolare: “Ci ha accomunato la volontà di descrivere la vita quotidiana delle persone che appaiono raramente nei resoconti dei conflitti bellici. Mi propose di realizzare delle strisce di fumetti settimanali per riflettere sulla situazione”. Ware fu coraggioso specialmente nel 1999 quando gli Stati Uniti, nell’ambito della Nato, guidarono l’azione militare contro la Serbia per fermare il presidente Milošević nel contesto della guerra del Kosovo. “Forse per la prima volta un artista sottoposto ai bombardamenti pubblicava nel Paese da cui provenivano le bombe – sottolinea Zograf –. L’indipendenza e libertà dai condizionamenti politici ci ha permesso di mantenere aperto il dialogo, mostrando tutti i punti di vista per non dimenticare che i civili sono le vittime principali di ogni guerra”.
Forse per la prima volta un artista sottoposto ai bombardamenti pubblicava nel Paese da cui provenivano le bombe.
Il rifiuto della guerra è una scelta coerente e totale nella vita e nelle opere di Zograf che, trentenne, disertò l’arruolamento militare, perché era impossibile combattere in Croazia contro quella che considerava parte della sua famiglia: “Molte persone della mia generazione sono state mandate nel buco nero dell’assedio e della battaglia di Vukovar. Non avrei mai potuto partecipare a tutto ciò. Dove mi nascondevo avevo fame, ero lacerato intimamente, ma ho lavorato con la creatività per superare ciò che vivevo”. Zograf è un avversario tenace di quella forma di fascismo che è il nazionalismo post-jugoslavo. Ha rifiutato sempre il revisionismo storico attuato da culture politiche artificiose. La manifestazione della forma più barbara dell’etnonazionalismo tuttora aleggia: La verità è che nessun Paese della regione si è ripreso dalla fine della Jugoslavia. Prosegue una guerra latente nella quale ogni parte in causa si professa vittima. I politici agitano questo spettro nel vuoto di idee per il futuro, mentre non si sono mai fermate le speculazioni degli attori internazionali interessati alla destabilizzazione.
La cifra dell’identità di Zograf è l’apertura al mondo. Ha scritto gran parte dei testi in inglese, poi una volta pubblicati sono stati tradotti nella lingua madre. La libertà dal potere, che lo contraddistingue, gli ha permesso di affrontare anche il tema della forte stigmatizzazione dei serbi per via del ruolo assunto dal Paese nei conflitti degli anni Novanta: “Non sono mai stato un cattivo ragazzo, nonostante sia serbo (sorride, ndr). Mi sono sempre identificato con l’ambiente culturale e dei media dissidenti. Ogni artista dovrebbe risultare scomodo al proprio governo”.
Talvolta tutto viene presentato come bianco o nero, mentre questo fumettista “americano” figlio dell’underground culturale jugoslavo attinge all’intera tavolozza dei colori. Le pagine disegnate di Lettere dalla Serbia incarnano la complessità e le contraddizioni di ogni azione di guerra: “Il governo di Belgrado usava le sanzioni internazionali per rafforzare le forme di propaganda e controllo sui cittadini. Ho dubitato sempre della loro efficacia per dissuadere i despoti e criminali di guerra. Il mio passaporto continua ad assomigliare a uno stigma. La realtà del Paese non è monolitica e pesa dover dimostrare di non essere ‘figlio del diavolo’”.
Il quaderno di Radoslav e altre storie della II guerra mondiale è il nuovo graphic novel, pubblicato in Italia dalla casa editrice torinese 001 Edizioni, in cui restituisce i profondi stravolgimenti di quel conflitto nella penisola balcanica che si riverberano nel presente. I temi affrontati da Zograf sono trasversali e riguardano tutta l’Europa. Il fumettista conferma la capacità di scavare tra le preziose memorie di vite ordinarie sommerse dai fatti della Storia. Trasmette l’urgenza di indagare nelle terre dell’oblio, perché non sono sufficienti i memoriali, di cui abbonda il Vecchio continente, spesso ammantati dalla retorica dell’eroismo che garantisce sempre un futuro alla guerra. La raccolta di nuove prove, di testimoni attendibili delle responsabilità individuali e collettive dei crimini commessi appare tortuosa, faticosa, ma necessaria a ottant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che continua a segnare il nostro presente ed è ancora oggetto della disputa politica. Le memorie della lotta popolare di liberazione hanno caratterizzato il sostrato ideologico della Jugoslavia e dopo la sua dissoluzione degli anni Novanta sono state oggetto di revisionismo storico come nel caso del regime collaborazionista serbo guidato dal generale Milan Nedić.
Quella di Zograf è una forma d’inchiesta bidimensionale, che affronta una questione privata e al contempo pubblica della storia del Novecento.
Quella di Zograf è una forma d’inchiesta bidimensionale, che affronta una questione privata e al contempo pubblica della storia del Novecento: “I due aspetti sono intrecciati inscindibilmente” sostiene Zograf. “Durante le ricerche ho maturato la convinzione che anche nella storia della mia famiglia non ci fosse quasi nulla di natura prettamente privata”. Zograf si muove proprio dalla significativa vicenda del nonno materno Petar Pavkov, che ha scoperto setacciando gli archivi pubblici di Pančevo. Era un sindacalista socialista che diede protezione a chi resisteva contro i nazisti nel Regno di Jugoslavia. Nascose alcune famiglie di ebrei perseguitati dal regime di occupazione. A Pančevo nel 1941 fu aperto il primo campo di concentramento in territorio serbo chiamato Svilara, e lungo la strada che da questa città portava al paesino di Jabuka si trovava uno dei principali luoghi di esecuzione: secondo varie stime furono qui furono uccise più di diecimila persone. Dopo l’apertura, nell’estate del 1941, del campo di concentramento di Banjica da parte del comando militare tedesco e delle SS (con l’aiuto dei collaborazionisti di Nedić), Dušan Bogdanović e il nonno Petar si attivarono nella raccolta di cibo che attraverso vari canali giungeva ai prigionieri del campo.
I miei nonni materni, Petar e Spasenija, nel 1934 si stabilirono a Krnjača, proprio lungo quella strada che da Belgrado porta verso Pančevo – racconta –. Divennero i proprietari di una taverna al cui interno si trovava una parete che conduceva a una stanza segreta. Sapevo che durante la guerra vi erano stati nascosti i membri del movimento clandestino di resistenza, come anche le pubblicazioni antifasciste, il cibo, le medicine e le armi che da lì venivano distribuiti attraverso il Danubio alle unità partigiane o mandati dove servivano.
Dopo la liberazione di Belgrado nell’ottobre del 1944, Petar non condivise l’imposizione del nuovo potere e finì nel confino dell’isola di Goli Otok in quanto considerato dissidente politico. Da lì riuscì a tornare senza aver perso lo spirito critico. La precisa ricostruzione della storia del nonno illustra la dimensione personale dei conflitti e corrisponde a un metodo narrativo.
Nel graphic novel lo straordinario lavoro di documentazione di Zograf, che esplora archivi, mercati delle pulci, raccoglie fonti orali, fa riemergere molte storie interessantissime tra cui quella di Veljko Kockar. “Era un fumettista di grande talento vissuto in un’epoca difficile – spiega –. Creò un personaggio fortissimo: Kaktus Kid era la versione jugoslava di Mickey Mouse. Durante l’occupazione nazista molti artisti si compromisero con il regime. Lui no, ma fu lo stesso accusato di essere stato un collaborazionista e condannato a morte. Kokcar firmò sempre con coraggio i propri fumetti e voleva soltanto essere libero nel disegnare”. Zograf ha davvero riaperto il caso Kockar, analizzando anche gli aspetti oscuri della “giustizia rivoluzionaria” imposta dai liberatori a fine conflitto: “Kockar interpretò il ruolo dell’artista che rifiuta i condizionamenti posti dalla società e dalle ideologie. Inizialmente sapevo qualcosa di lui grazie alle ricerche del mio amico Zdravko Zupan che scoprì che era stato fucilato senza alcun processo nel 1944 nei giorni della liberazione di Belgrado”. I fumettisti che davvero avevano collaborato con la propaganda nazista avevano già lasciato Belgrado insieme all’esercito di occupazione, ma Kockar sentiva che non aveva ragioni per dover fuggire e rimase nel Paese: “Anche dopo una ricerca molto dettagliata non abbiamo infatti trovato un solo suo disegno che potesse essere considerato propaganda nazista. Preferiva disegnare ragazze seminude, fumetti umoristici e d’avventura. Come dargli torto!”.
Kockar aveva 24 anni ed era una delle più interessanti figure emergenti del fumetto jugoslavo. “Negli anni Trenta i fumetti erano talmente popolari che in una certa forma continuarono anche sotto l’occupazione nazista” – spiega Zograf –. “Nonostante a quel tempo, in Germania, il fumetto fosse praticamente sconosciuto, i tedeschi compresero che potevano usare i fumetti per i propri fini e assunsero alcuni degli artisti locali per creare strisce e illustrazioni di propaganda. Allo stesso tempo, anche la stampa partigiana clandestina pubblicava i propri fumetti, quindi si può dire che i fumetti fossero dappertutto”. La delazione che condannò a morte Kockar arrivò proprio dagli ambienti della scena artistica: chi lo segnalò alle autorità era nel mondo dei fumetti. Dopo la morte violenta finì nell’oblio e altri si appropriarono delle sue opere. Per restituire giustizia alla storia e al suo talento, Zograf è andato a raccogliere preziose testimonianze anche nella città natale di Osijek in Croazia, realizzando con il regista Đorđe Marković il documentario di animazione The Final Adventure of Kaktus-Kid.
“Poco dopo la fine della guerra, quando il regime di Tito plasmò il sistema jugoslavo sul modello sovietico, i fumetti furono considerati ‘troppo occidentali’ e in qualche modo messi da parte – sottolinea Zograf –. “Alcuni dei fumettisti dell’era prebellica smisero di creare fumetti, alcuni erano già morti e alcuni emigrati dalla Jugoslavia proprio per la loro collaborazione con la propaganda nazista. Le cose erano quindi cambiate, e l’età dell’oro finì lì. Tuttavia, con la rottura tra Tito e Stalin del 1948, i fumetti iniziarono a fare il proprio ritorno, e negli anni Cinquanta esistevano già un certo numero di riviste”.
La matita di Zograf aiuta a riscoprire un’altra figura di grande coraggio. Della giovane ebrea Hilda Dajč, nata nel 1922, ci sono rimaste solo quattro lettere indirizzate agli amici che fece uscire dal campo di concentramento di Staro Sajmište (Semlin Judenlager) situato nel centro di Belgrado, dove prima della guerra si era iscritta alla facoltà di architettura dell’università.
È la fine del filosofare davanti al filo spinato, è la realtà in tutta la sua interezza, che voi fuori non potete nemmeno lontanamente immaginare, perché urlereste dal dolore – scrive Dajč in una delle lettere –. Questa realtà è insuperabile, la nostra è una miseria immensa; tutte le frasi sulla forza dello spirito cadono davanti alle lacrime per la fame e il freddo, tutte le speranze in una prossima uscita si perdono davanti alla prospettiva ripetitiva di un sopravvivere passivo che non assomiglia in nessun modo alla vita.
Il Semlin fu uno dei primi campi di concentramento creati in Europa per gli ebrei. Tra il marzo e il maggio del 1942 circa settemila donne, bambini e anziani furono uccisi sistematicamente con il gas. La struttura poi divenne un centro di detenzione per prigionieri politici destinati ai lavori forzati in Germania. Dal maggio del 1942 al luglio del 1944, 32.000 detenuti transitarono nel campo dal quale 10.600 non uscirono vivi. Le lettere di Hilda Dajč documentano le condizioni nel lager, in cui fu uccisa, nel periodo fra il dicembre 1941 e il maggio 1942. Dopo la chiusura dell’università Hilda decise di fare volontariato come infermiera all’Ospedale ebreo di Belgrado. Il padre, Emil Dajč, era il vicepresidente del corpo rappresentativo della Comunità ebraica belgradese, fondato dai nazisti dopo l’occupazione, che gestiva le attività delle organizzazioni umanitarie ebraiche. Seppure all’inizio non fosse costretta, grazie alla posizione ricoperta dalla famiglia, Hilda decise di entrare nel campo di Semlin come infermiera volontaria.
Le lettere di Hilda fuoriuscirono grazie al personale ospedaliero ebraico che visitava il lager. Dopo l’ingresso per prestare aiuto agli altri, lei e la sua famiglia subirono la stessa sorte dell’intera popolazione ebraica. Hilda aveva appena 19 anni. Negli scritti poneva tutte le questioni filosofiche ed esistenziali riguardanti l’internamento. In alcuni passaggi colpiscono la sua ironia e la forza: “Devo resistere – non lo dico con troppa convinzione – eppure devo”. Illustrare le sue lettere è stato emozionante. Tra le pagine chiare e quelle oscure qualcosa rimane da non dimenticare.