P er arrivare a Lagos Island si attraversa un ingorgo cronico. Tra caldo umido, gomma e lamiere, migliaia di persone in coda nelle auto approfittano per ascoltare musica, telefonare, negoziare acquisti con gli ambulanti, litigare per gli scontri inevitabili in quel mare agitato di metallo. Qualcuno cucina, mangia. Il profumo del cibo si mescola al gasolio. Arrivo all’isola, adagiata dove il mare incontra la laguna, estesa per decine di chilometri, che diede il nome all’insediamento portoghese.
Lagos Island è la zona ricca, si stacca dal resto della città come Manhattan a New York. Il quartiere di Ikoyi, in particolare, è la zona più ricca di tutta l’Africa. Ma nonostante qualche pinnacolo di cemento solitario e l’occasionale fuoristrada di lusso, non c’è nulla dello spazio luminoso e dello smalto di New York. Il futuro qui non è annunciato su abbaglianti pannelli luminosi; va decifrato seguendo la gente tra le strade dissestate.
Il futuro a Lagos Island non è annunciato su abbaglianti pannelli luminosi; va decifrato seguendo la gente tra le strade dissestate.
Mi metto in cammino. Sotto un cavalcavia passa un canale pieno di rifiuti galleggianti, costeggiato di furgoni e container. Una coppia di sedili d’auto divelti guarda lo spettacolo. Oltre il ponte c’è il Museo Nazionale, e un edificio di architettura organica incompiuto che dovrebbe diventare uno stadio. Sotto la polvere di Broad Street si riconoscono gli edifici storici, palazzi costruiti dagli schiavi liberati che tornarono dal Brasile a fine Ottocento, uffici coloniali britannici. Un City Mall replica sommariamente la facciata di un tempio greco; più avanti quattro cavalli sollevati sulle zampe di pietra celebrano l’ingresso di un teatro chiuso.
Tutto è cadente o abbandonato, sembra un sito archeologico i cui reperti non descrivono la gloria del passato, ma il conato verso un futuro. Il suono dei clacson è un allarme rotto. Getti di calore e fumo vorticano nell’aria impregnata di benzina. Mi fermo sotto un ficus gigante, eccezione verde nel labirinto di cemento. Qualcuno si ripara dal caldo tra le radici pendenti. Il Sole batte ma non si vede: in alto c’è una foschia marmorea, una lastra che grava sullo spazio urbano scosso dal tremore di voci e motori.
Supero Freedom Park, dove tenevano i prigionieri politici durante una delle tante dittature militari. Ora si fa teatro e musica: stasera suona Dede Mabiaku, già nella band del leggendario Fela Kuti, e si rinnoverà l’incantesimo per cui la musica si accende sul fondo oscuro di rumori, e lo riplasma in struttura ritmica. Tiro avanti, fin dove la densità di gente giunge al parossismo. Ormai i mercati straripano per le strade, ovunque si cammina tra banchetti improvvisati, ciascuno col generatore di elettricità che stantuffa e sfiata, mentre la sera scende e i lampioni pubblici restano spenti. Quando arrivo in vista della grande moschea le strade sono un alveare a molti piani, carichi di merce. I sarti con le cucitrici a pedale lavorano accanto ai banchi di macellai infestati di mosche.
Ci si muove a fatica nella corrente di corpi, in cui le auto si aprono la via come navi rompighiaccio. Negli interstizi giocano bambini, mamme allattano, si balla tra casse che vibrano a volumi micidiali, tra gente rannicchiata che dorme. Si tengono sermoni religiosi e interminabili comizi di fronte a schiere di spettatori. È tempo di elezioni, gli slogan sopra i manifesti rivendicano il successo del paese: “You can’t fix what isn’t broken”. “Let the music play on”. Mi siedo sfinito su un marciapiede, con i muscoli in fiamme e i sensi assediati. Quando ritorno verso Ikoyi costeggio la laguna per prendere aria. Sotto un viadotto sta l’argine di cemento, mi affaccio sull’acqua. Lo sguardo si ferma su una schiera di navi petroliere, una barriera tra la città e l’Oceano.
La Nigeria è un’invenzione coloniale, un perimetro che include centinaia di etnie e lingue diverse, polarizzato tra il Nord islamico e il Sud cristiano. Dopo secoli di dominio europeo e schiavismo, il paese divenne indipendente nel 1960. Tre anni prima l’altro evento decisivo, la scoperta del petrolio. Nel tortuoso inizio della storia del paese, tra colpi di stato militari e brevi esperimenti democratici, s’intravedeva un possibile benessere nel futuro degli allora 35 milioni di Nigeriani. Ma divisioni e violenze culminarono nella Guerra del Biafra (1967-70), quando la regione che includeva gran parte dei giacimenti di petrolio dichiarò l’indipendenza. Ci furono oltre un milione di morti. In seguito il paese attraversò una crescita vertiginosa, ma agli inizi degli anni Ottanta il prezzo del petrolio crollò, distruggendo l’economia. Si susseguirono colpi di stato e governi militari, come un reset ripetuto per provare a far funzionare il paese.
Il sistema chiamato Nigeria sembra l’ombra della società industriale, un condensato delle piaghe del capitalismo: sovrappopolazione, insufficienza di cibo e risorse naturali, inquinamento, dipendenza dai combustibili fossili.
Ancora oggi la Nigeria è costruita sul petrolio (95% delle esportazioni e 85% degli introiti del governo), ma la promessa di benessere non si è realizzata. La corruzione politica continua a svuotare le casse dello Stato, mentre mancano servizi e infrastrutture: la sanità e l’istruzione pubblica non funzionano, la luce viene e va, l’acqua corrente è tossica. La spazzatura si accumula ovunque, non si parla d’inceneritori, semplicemente si dà fuoco ai mucchi di rifiuti o li si lascia per terra. L’agricoltura è stata in gran parte abbandonata dalla gente, emigrata in città in cerca di ricchezza, i terreni sono diventati infertili per il disuso e l’inquinamento, quasi tutto il cibo è importato e costa caro. La maggioranza dei Nigeriani lavora in nero. Ormai sono 200 milioni, la metà minorenni. Di questo passo tra trent’anni supereranno la popolazione degli Stati Uniti d’America.
Il sistema chiamato Nigeria sembra l’ombra della società industriale, un condensato delle piaghe del capitalismo: sovrappopolazione, insufficienza di cibo e risorse naturali, inquinamento, dipendenza dai combustibili fossili. Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe ha scritto:
Il problema della Nigeria è solo e soltanto la mancanza di leadership. Non c’è niente di sbagliato nel carattere nigeriano. Non c’è niente di sbagliato nel clima, il suolo, l’acqua, l’aria.
Una schietta sfiducia nei diversi organi dello Stato federale è un tratto che accomuna una società altrimenti divisa. Tra i Presidenti si sono distinti uomini corrotti e disinteressati al bene comune (al momento è in carica Muhammadu Buhari, già capo di un governo militare negli anni Ottanta, che stavolta si è limitato a comprare i voti). I capi del governo federale e di quelli locali favoriscono solo la propria cerchia e il proprio gruppo etnico. Le forze dell’ordine concorrono al disordine: ogni volta che fermano un’auto, i poliziotti cercano pretesti per ottenere denaro; nessuno crede che possano appianare banali conflitti come un incidente stradale senza venirne fuori con qualche banconota, o favorire il contendente che parla il loro dialetto.
In generale i militari sono temutissimi: qualche anno fa l’esasperazione per le milizie SARS, note per abusi e torture, ha portato i giovani di tutta la Nigeria a scendere in piazza, in quella che è diventata una protesta nazionale contro il governo, repressa con le armi e il coprifuoco. Si è ritornati al caos corrente, in cui ciascuno di destreggia come può, mentre nella città spadroneggiano gruppi di giovani armati, gli Area boys, che è bene evitare con cura.
Un giorno decido di andare a Tarkwa Bay per vedere l’Oceano. La spiaggia di Tarkwa Bay sta su un’isola dall’altro lato della laguna, ci si va in gommone. Quando arrivo vedo l’arco di sabbia, che è stata raccolta dal fondo del mare e disposta nell’insenatura. Dietro c’è uno sterrato dove si gioca su un campo di calcio invisibile. Alcuni ragazzini fanno surf sulle onde basse. Mi incammino verso l’altro lato del promontorio, verso Ocean Bay, che dà sul mare aperto. Quando arrivo il cielo s’inizia a spegnere. Sulla sabbia deserta, oltre arbusti e bottiglie di plastica, c’è il relitto spiaggiato di una petroliera. Un’altra nave è incagliata a venti metri da riva, si vedono gli oblò sul ponte sommerso. Il mare alto è punteggiato di luci, decine di navi in attesa di venire a prelevare il carico. Stringono la città in un assedio onirico.
Quando torniamo al molo è buio fondo e finiamo tra le mani di un gruppo di scafisti ubriachi. Proclamano che non ci sono più gommoni e che ce ne sono altri in arrivo. Mi mettono il giubbotto salvagente e me lo strappano, mi assicurano che non tornerò. Dopo estenuanti negoziazioni, tempi morti e gommoni che scompaiono nella notte, passo delle banconote a un misterioso passeggero mediatore, e m’imbarcano sull’acqua nera. Il viaggio avviene in un silenzio inquietante, tra varie soste sotto la luce delle torce della polizia navale, che per una volta rassicura: almeno non dovrebbero buttarmi in mare. Un ragazzino beninese, un intrigante che ha fatto da mediatore col barcaiolo e ha certo trattenuto parte dei soldi, si gira e mi fissa spalancando gli occhi come un pazzo. All’arrivo la banchina è chiusa con un cancello, e per passare si paga un altro pizzo. Abbandoniamo di corsa la zona portuale, che di notte è pericolosa.
A Lagos ogni metro è occupato dagli affari umani, la vegetazione è stata rasa al suolo, e nessuno sembra preoccuparsene. Nel quartiere di Surulele visito Femke e Igoni, una coppia di scrittori. Tra le mura della proprietà hanno un piccolo giardino. Igoni dice che curare le piante lo ha allietato nei mesi del lockdown. Ma loro sono un’eccezione: hanno due passaporti, vanno e vengono dall’estero, pubblicano articoli e romanzi diffusi in tutto il mondo. La loro casa è un angolo di quiete verde nel caos urbano. Il lagosiano medio è abituato al rumore e spaesato dal silenzio, legge soprattutto Bibbia o Corano, e si conforta con la fede. Credenza magica e bigottismo sono comuni. Le chiese pentecostali prosperano sulla miseria, promettendo battagliere “formule totali per la vittoria sulle durezze della vita”. Gli eventi con predicatori carismatici abbondano. I negozi possono portare insegne come “Panetteria grazie a Dio”, “Parrucchiere prega di più”, “Ottico loda il signore”. Sui monfo, i minibus decrepiti guidati da giovanissimi pirati della velocità, si vedono persone intente a leggere volumi che promettono miracoli: “Sblocca le tue finanze con la fede”.
La corruzione politica continua a svuotare le casse dello Stato, mentre mancano servizi e infrastrutture: la sanità e l’istruzione pubblica non funzionano, la luce viene e va, l’acqua corrente è tossica.
Tra prospettive trascendenti e sforzi quotidiani per sfangarla, la natura è ridotta a valore d’uso: è legname, olio, frutto, gomma, terra incolta su cui ammucchiare spazzatura, corso d’acqua in cui sversare rifiuti che defluiranno. È materiale, mezzo, merce. Non ha valore come viale alberato, aiuola, specchio d’acqua, terreno sottratto allo sfruttamento, animale libero. Secondo Chinwe, la madre di un ragazzo con cui faccio amicizia, è stato il colonialismo a sradicare la tradizionale vicinanza alla natura delle popolazioni nigeriane, introducendo forzatamente un sistema di vita occidentale, con le sue promesse di sviluppo industriale. “La nostra fiducia e dipendenza è stata rivolta a ciò che era importato dall’Occidente. Abbiamo perduto il nostro posto nell’ambiente naturale, la sua valorizzazione, e perciò anche il desiderio di conservarlo. Siamo diventati caricature di qualcosa che in fondo non capivamo”.
Nel rompicapo di Lagos sembra impensabile che a poche decine di chilometri verso Oriente, a Epe, ricompaia l’intreccio tropicale di mangrovie e canali che un tempo ricopriva la laguna, mentre verso Occidente la spiaggia punteggiata di palme continua ininterrotta fino a Badagry, dove ancora centocinquant’anni fa le navi al largo aspettavano un’altra merce da prelevare: gli schiavi. Ci vado per visitare il museo sullo schiavismo e prendere un po’ d’aria pulita. Sulla spiaggia battuta dal vento c’è un monumento, la Porta del Ritorno. Vuole ispirare il viaggio degli Afroamericani che vengono a visitare la terra d’origine: una rampa coperta che sale verso l’oceano, come facevano le passerelle delle navi schiaviste, poi si piega e torna indietro. Dovevano inaugurarlo nel 2018, ma il monumento è un gigante interrotto, un gesto incompiuto che arrugginisce mentre la gente di un paese vicino si ritrova sotto le impalcature, al riparo dal calore e dal sole accecante.
Di nuovo a Lagos, percorro a piedi il ponte per Victoria Island. Un barcaiolo avanza sotto un gigantesco cartellone luminoso, su cui l’immagine di una bibita sfuma in quella del candidato Presidente, che sorride al suo futuro suddito e lo invita a pensare positivo: “A great leader inspires others to dream more, learn more & be more”. Intorno volteggiano dei falchi. Inizia qui una zona di appartamenti di lusso, dove ho un appuntamento. La notte prima in un locale accanto all’hotel mi sono ritrovato in una serata open mike, con tanto di stand up comedians, cantanti e fashion blogger, che hanno fatto notte a discutere della guerra in Ucraina; una di loro mi ha invitato nel negozio in cui lavora per il lancio di non so che nuova collezione. Come sempre a Lagos questi locali di lusso sono invisibili oltre un alto muro sorvegliato dalle guardie. Mi fanno passare. L’interno è fresco e profumato, pieno di modelli altissimi con abiti dai prezzi spaventosi. Mi faccio un giro e chiamo un taxi.
La seconda tappa è la galleria d’arte di Nike Okundaye, un’artista divenuta celebre dopo il successo all’estero. All’ingresso della galleria c’è un giardino pieno di sculture fatte di materiali riciclati: un leone di cucchiai di ferro ripiegati, pezzi d’auto e pentole; uno scimpanzé di strisce di pneumatici. Dentro c’è proprio lei, Nike, una signora anziana, piccola e magra, che spicca come un’opera d’arte col suo enorme copricapo indaco e la lunga veste gialla e blu. Mi conferma che l’uso di rifiuti è al centro di vari progetti artistici che sta curando. Mi mostra un busto fatto di bottiglie e cavi, mollette, giocattoli, e altre parti di plastica, che ha la forma di una donna incinta: “è la natura che riempiamo di rifiuti, e che partorisce”. Subito dopo si lamenta: “ma questo non riesco a venderlo!” Arriva un altro artista, un sudafricano che sta esponendo in altra galleria, accompagnato dalla sua agente. Nike c’invita a accomodarci su un divano, ci offre vino francese e palle di Mozart; iniziano i selfie.
Appena esco inizio a camminare, deciso a farmi a piedi i dieci chilometri che mi separano da Lagos Island. Appena svoltato l’angolo comincia una serie intermittente di palazzi: complessi nuovi ancora sfitti (“Padroni di casa”, c’è scritto in italiano su uno di questi) si alternano a cantieri abbandonati e baracche. Il terreno si fa erboso e sabbioso. Un’asina allatta il suo piccolo nel mezzo di una spianata piena di frammenti di plastica e cartacce. Lungo le strade si alzano mura di mattoni, su cui in molti hanno scritto degli annunci firmati con il numero di telefono: “I give any type of jobs”, “electrician”. Mi avvicino a una zona di baracche basse di lamiera allineate in varie file e circondate da alti mucchi d’immondizia. Un gruppo di uomini gioca a biliardo al margine dello slum. Appena faccio per passare uno mi viene incontro urlando, mi dice che non posso passare, poi chiede soldi. Alzo le braccia e torno indietro. Sull’altro lato del muro passo senza proteste. C’è un’area recintata da cancelli con la sorveglianza, un quartiere con centri fitness e hotel, dove a un certo punto trovo un portone enorme: è il palazzo dell’Oba di Lagos, residenza del tradizionale capo che oggi è anche un luogo per eventi esclusivi. Le stradine intorno sono ripulite. Poco dopo si torna al buio, tra abusi edilizi e caotici mercati.
Tra prospettive trascendenti e sforzi quotidiani per sfangarla, la natura è ridotta a valore d’uso: è legname, olio, frutto, gomma, terra incolta su cui ammucchiare spazzatura, corso d’acqua in cui sversare rifiuti che defluiranno.
Lo spazio di Lagos è così: un reticolo di luoghi isolati tra loro, che le linee collegano solo in teoria, soggetti a diverse leggi e regimi d’illuminazione. Il tutto sembrerebbe una miscela esplosiva, ma la gente sembra essersi adattata alle proprie nicchie segmentate e al proibitivo azzardo di attraversare la città. Del resto l’homo sapiens si è adattato alla taiga e al deserto, ha attraversato oceani in zattera: qui s’impara a navigare nell’ingorgo eterno, tra buche, minacce e controversie, nella bolla di caldo torrido che ospita venti, forse venticinque milioni di persone. In fondo è solo un grado estremo di una situazione familiare a tanti Italiani.
I Lagosiani sono gente schietta e orgogliosa, carichi di energia ed iniziativa: ciascuno s’ingegna a vivere tra i continui ostacoli senza poter contare sullo Stato, si procura il lavoro e l’energia (abbondano i pannelli solari) con la creatività che alimenta pure tanta arte e musica. “Ogni famiglia è uno stato a sé”. Seun, un dottorando in storia, mi dice che ha affittato una casa a Cotonou in Benin, a diverse ore di auto da Lagos, perché là c’è la corrente elettrica e può studiare senta interruzioni. Così fa continuamente su e giù in auto, combattendo nel traffico, tra continui e inevitabili incidenti. Molti si lamentano di disagi e malfunzionamenti, qualcuno accetta l’illegalità come sistema: “Se non sei un ladro non vai da nessuna parte”, dice un passante. Per giorni osservo la gente seduta dove capita a mangiare: non manca quasi mai la carne, e una bottiglia d’acqua che si getta via, poi si riparte per i propri affari. Stato di natura senza natura.
Makoko è una comunità su palafitte che sorge di fronte a uno dei ponti urbani più lunghi di Lagos. Dalle case sulla laguna si può vedere Victoria Island, con la sua parte nuova, Banana Island, compound di ricchi a accesso riservato. Appena arrivo si presenta la rabbia sociale: due ragazzi mi corrono incontro gridando mentre transito sul ponteggio. Sono con Keko, o meglio Olufela Omokeko, un giovane artista locale che qui è rispettato. Keko si mette a discutere con la sua voce acuta, finché i due si tranquillizzano. Uno dei due mi passa avanti e mi saluta con il pugno: “God bless you”. Entriamo nel labirinto di terra battuta, tra gente che porta secchi d’acqua e bidoni di frittelle sulla testa, cucina su falò improvvisati o gioca a carte. Da ogni angolo spuntano bambini curiosi e saltellanti. L’acqua è grigioverde, grumi di rifiuti galleggiano sulla superficie stagnante, che è latrina e strada, risorsa a cui attingere e discarica. Le palafitte s’innalzano da travi conficcate in mucchi di stracci bagnati, sacchi e altri rifiuti. Alcune sono coperte da teloni laceri e sporchi. In ogni angolo stanno accatastati pezzi di legno e ceste, in un ordine che fatico a distinguere. Passiamo accanto a un edificio di mattoni colorati, con un balcone di pietra dipinta di marrone e blu pastello: è la casa del capo villaggio.
Dopo una trattativa per il prezzo della canoa, di fronte a una platea di curiosi che osservano il bianco intruso, iniziamo a navigare tra i canali. Nel traffico intenso, i piloti navigano con grande abilità spingendo lunghe aste di legno contro il fondo. Sulle baracche passano dei tronchi con i fili della rete elettrica, che a un certo punto s’interrompono. La luce non arriva oltre, ma la comunità solidale condivide generatori e sistemi improvvisati per portarla fino al fronte della laguna. Ci allontaniamo per venti metri oltre le costruzioni, verso il ponte con le auto che sfrecciano. Alcuni pescatori gettano le reti nella laguna salmastra. Mi volto verso i profili obliqui delle palafitte: il luogo visto da lontano è surreale, sembra un villaggio fantasma, i cui edifici si reggono sbilenchi e incappucciati in attesa che una pioggia o una violenta mareggiata li spazzi via. Invece Makoko dura da un secolo, ha scuole proprie, infermerie, una sua economia del baratto, e oltre ottantamila abitanti, tutti di un gruppo etnico di pescatori, gli Ogoni, che parlano una lingua diversa da quella della maggioranza Yoruba di Lagos.
Giungiamo al limite di un altro insediamento, dove si accumulano tronchi fatti scendere dal fiume. Il mio piano è visitarlo per informarmi sul percorso fatto da quel legno sradicato. Ma qui neanche Keko può farci passare. C’è gente diversa, che non vuole intrusi, tantomeno curiosi e perlopiù bianchi.
Sbarchiamo su una spianata fangosa color tabacco, che si apre nella selva di capanne. Dei ragazzi giocano a calcio in un campo tagliato in due da un’enorme pozza d’acqua stagnante. Intorno stanno sparse palme e acacie. Dall’argine della laguna si vede il complesso dell’università di Lagos, a poche centinaia di metri. Il palazzo del rettore è una villa racchiusa nella vegetazione. Fiaccato da improvviso mal di pancia, seguo Keko in un capannone. È il centro d’arte, dove stanno esposte, nella semioscurità, le opere prodotte al termine di un laboratorio per “ri-immaginare la comunità”. I partecipanti hanno collaborato con degli artisti in visita, con lo scopo di rappresentare la comunità “com’è e come desiderano che fosse”, in poesie, performance, fotografie e dipinti. Il risultato rimasto in esposizione è sorprendente: arte concettuale, in cui i particolari della vita quotidiana appaiono ricombinati.
I Lagosiani sono gente schietta e orgogliosa, carichi di energia ed iniziativa: ciascuno s’ingegna a vivere tra i continui ostacoli senza poter contare sullo Stato.
Un’artista dipinge scorci di Makoko in cui gli umani hanno il volto coperto da taniche di benzina, come maschere tribali. Un altro si concentra sulla “profondità con cui i bambini interagiscono con la natura”, girando per i canali d’acqua nera e giocando nel fango. Non c’è un meraviglioso altrove, ma un doppio fantastico di Makoko, fatto di oggetti comuni riscattati dalla propria oscurità. Piuttosto che guardare lontano, gli artisti hanno costruito le proprie opere lavorando con i materiali disponibili, esercitandosi a guardarli diversamente.
Keko mi parla di un nuovo bando di finanziamento inglese a cui vuole partecipare. L’arte è il suo modo per rompere l’isolamento della comunità, e stimolare la capacità d’immaginare un’alternativa. Durante l’epidemia di coronavirus, ha esposto peperoni e pomodori appesi a pareti o in reti sospese, lasciandoli ammuffire e decomporre. Voleva mostrare quel che avviene alle risorse naturali a causa dell’imprudenza umana, che in Nigeria si prolungava per lo scarso uso di mascherine. I frutti apparivano privati della loro funzione d’uso e esposti al passare del tempo per produrre la coscienza di un evento globale e la necessità di una reazione collettiva. In una sua performance, Keko si è avvolto in un mantello di bottiglie di plastica, reinterpretando così le popolari maschere dell’Egungun, un antenato che torna a proteggere dal male. In questo caso il male è la minaccia prodotta dall’uomo con i suoi rifiuti. Così l’alleanza di arte e “eco-spiritualità” riesce nella magia di evocare una parola che fin qui non ho mai sentito, quasi fosse un tabù: ambiente.
Calabar è stato il primo insediamento coloniale britannico, sull’ansa del fiume Cross che ancora oggi qui rallenta avvicinandosi al suo delta. Sono venuto da queste parti per osservare una delle ultime foreste intatte della Nigeria. Nel 1897 i due terzi del paese erano coperti dalla foresta, oggi meno del quattro percento. Gran parte della deforestazione è iniziata negli anni Ottanta. Ci sono molti parchi nazionali, ma gestiti male e esposti al bracconaggio. La foresta del Cross River National Park, però, è molto estesa e sconfina nel Camerun: in questo angolo remoto c’è ancora tanta vita. Il tappeto verde che circonda la città si può vedere dall’alta collina, dove stanno la casa-museo del vecchio governatore e una cattedrale neogotica. Il fiume è un nastro d’oro biancoverde, che sembra immobile. Scendo fino alla riva: di fronte a un nuovo parco pubblico con ristorante e sala di biliardo, affonda un veliero con la chiglia scarlatta. Ma il colore dominante in questa zona è il nero del petrolio.
Mi viene a prendere Bassey, un giovane di etnia Efik che mi farà da guida. È un ragazzo calmo, imbranato in un ruolo che non ha voluto, come mi racconterà nei giorni successivi. Voleva fare il medico. Ha tentato tre volte l’esame per entrare all’università, ma bisognava pagare una tangente, e la famiglia non aveva il denaro. Così si è buttato sul turismo, che però è scarso. La voce mite di Bassey svolge una critica severa del sistema politico nigeriano. Mi racconta che la società qui è ancora costruita sulle antiche gerarchie tra i clan. Le elezioni non sono che compravendite di voti. Il governatore uscente non ha fatto nulla, il governo federale non è meglio. Due anni fa ha partecipato alle manifestazioni contro la polizia. Dopo la repressione e le minacce ha smesso di parlare di politica sui social. Ma come Bassey, molti giovani nigeriani sono stufi della corruzione e della repressione, e vorrebbero che alcune cose cambiassero radicalmente. Tra queste c’è la dipendenza dal petrolio.
Il petrolio è estratto soprattutto nel Delta del Niger. Il prezioso prodotto è venduto dalle compagnie a forte partecipazione statale, tra cui l’italiana Agip, ed è qui che i governi europei oggi guardano in cerca di un approvvigionamento alternativo a quello russo. Ma alla fonte della ricchezza nigeriana la povertà della popolazione si fa sentire come un’atroce beffa. Negli anni Settanta Ken Saro-Wiwa, che sfidò la connivenza della Shell con funzionari corrotti, fu imprigionato e impiccato. Vent’anni fa sono iniziati episodi di guerriglia. Sono frequenti i rapimenti di funzionari delle compagnie petrolifere come Shell e Agip, che vivono isolati in compound con campi da golf e piscine, protetti da piccoli eserciti di guardie. La regione del Delta è ancora oggi proibitiva per un bianco senza scorta. Intere zone sono ancora sotto il controllo di milizie locali, che a suo tempo il governo ha armato per farsele alleate in conflitti locali, e le forze armate spesso dividono i ricavi sul petrolio rubato.
Le acque del Niger e le aree limacciose del Delta sono a tratti così inquinate da rendere impossibile la coltivazione, il che spinge ancora più gente a rubare il petrolio. Le mangrovie sono morte, gli animali sono scappati.
La povertà spinge la gente a rubare dalle tubature, per poi raffinare artigianalmente una specie di gasolio (il bunker oil) e venderlo, al dettaglio o alle stesse compagnie petrolifere, che così risparmiano sulla raffinazione e rivendono un prodotto scadente. È un furto del fuoco rischiosissimo ma molto redditizio, che è ormai una delle maggiori attività economiche della regione per chi è tagliato fuori dalla filiera dell’estrazione. Tutto questo ha conseguenze ambientali spaventose. Enormi torce d’idrocarburi, rilasciati nell’atmosfera quando si estrae l’olio, bruciano per ore, e un’impalpabile pioggia di fuliggine copre tutto. Gli sversamenti accidentali o dolosi hanno disperso milioni di tonnellate di petrolio. Le acque del Niger e le aree limacciose del Delta sono a tratti così inquinate da rendere impossibile la coltivazione, il che spinge ancora più gente a rubare il petrolio. Le mangrovie sono morte, gli animali sono scappati. Fiumi neri traslucidi ormai scorrono tra quelli d’acqua, come vasi sanguigni necrotizzati.
Il Cross River è presentato spesso come uno stato eccezionale per la pulizia delle strade, ed è luogo di popolari resort nella foresta e sui monti nebbiosi. Ma anche qui si estrae petrolio, e lo si ruba. Bassey mi racconta che qualche settimana fa c’è stato un incidente tipico proprio qui, alla periferia di Calabar. Di notte hanno aperto i rubinetti di una tubatura. Gesticola come scagliando un sasso verso un palazzo lontano: “se apri il getto arriva… fin là!” Lo spruzzo violentissimo è durato ore, finché la compagnia non mandato qualcuno a fermarlo. Nel frattempo i ladri erano scappati fino alle proprie case con le taniche piene. Il mattino dopo una signora è uscita all’alba con una lanterna per andare a messa, e una scintilla ha acceso il fuoco. Le scie di fuoco hanno seguito le tracce dei ladri, incendiando le case. Ci sono stati circa venti morti, secondo stime ufficiali a suo parere troppo prudenti. Per Bassey è chiaro che da questa situazione non si esce difendendo le tubature, ma smettendo di dipendere da un’unica risorsa. Oltretutto, concordiamo, sarebbe un modo per sviluppare il turismo che ancora stenta proprio per effetto dell’insicurezza e della distruzione dell’ambiente.
Dopo ore di viaggio sotto la pioggia violenta, su una strada scrostata e priva d’illuminazione, arriviamo al campo del Cross River State Park. Non c’è nessun visitatore. Insisto con il ranger che voglio inoltrarmi nella foresta, e non limitarmi a una passeggiata nei dintorni: un fatto che per lui è un’inutile seccatura, segno che il turista nigeriano medio si contenta di vedere qualche albero senza impantanarsi nel fitto della vegetazione. Animali, d’altra parte, non ce ne sono. Il ranger mette subito le mani avanti: sono scappati quasi tutti in Camerun. Qui vengono cacciati, e il personale del parco, scarso e sottopagato, non riesce a proteggerli. Già deve darsi da fare con i boscaioli che sconfinano per abbattere alberi secolari.
Nel verde brillante della foresta vedo in effetti un paio di tronchi mozzati e caduti. Ma le piante sono fitte e robuste, e mentre scivolo tra funghi, fiori e termitai a forma di campana dimentico il contesto deprimente. Osservo la diversità di foglie e semi, e chiedo spiegazioni. Il ranger risponde: “si mangia”, “non si mangia”, o al massimo “fa bene al mal di pancia”. Sa qualche cosa sul valore d’uso delle piante, ma non collega il suo dovere di protezione al valore estetico, scientifico, religioso dei viventi. Del resto sa bene che mammiferi e uccelli, qui, sono soprattutto cacciagione. Ne sono rimasti pochissimi. Sentiamo il verso inconfondibile di una coppia di buceri, che prendono il volo con quel flap flap robusto che riproduce in miniatura il battito d’ali di uno pterodattilo preistorico. Passa qualche cercopiteco: vediamo solo i rami che oscillano. Ma qui c’erano, o ci sono, drilli e scimpanzé, bufali e antilopi, elefanti, perfino una variante unica di gorilla, ritenuti estinti, che sono stati riscoperti negli anni Ottanta. Camminiamo per ore verso il Camerun, ma non vediamo che una traccia d’elefante, e infine dobbiamo fermarci di fronte a un fiume color tè.
Bastano poche ore nella foresta per suscitare una transizione cognitiva. Nella città mi oriento con le mie categorie, case e strade, negozi e bagni, che qui non valgono. I sensi urbani sono offuscati, assuefatti ai segni che indicano la disponibilità di cibo, comodo riparo, incontri, ricreazione, icone che spiccano sul fondo insignificante di suoni e odori. Invece qui i miei sensi sono tesi e attenti, ma stanno muti, incapaci di analizzare il cosmo di colori, suoni, odori e sensazioni tattili – punture di formiche, carezze di foglie e cortecce, pruriti – mentre il cuore pulsa più veloce e l’intera pelle si apre a nuovi esperimenti chimici. Il ranger con la sua tassonomia trae qualcosa da quel caos, ma è ancora poco. Capire la foresta implica risalire a un tempo più lungo di quello della storia di una civiltà, inferire la presenza di esseri nascosti e sfuggenti, connettere processi terrestri e acquei, sotterranei e sospesi tra i rami, leggere segni non scritti, comprendere un codice dei sensi che dischiude l’infinita rete di simbiosi tra i viventi. Ogni volta resto attonito e incapace, ma torno fuori col bisogno di un sapere che mi attirerà a tornare.
La guerra del petrolio innesca un meccanismo: meno visitatori, meno denaro in arrivo nei parchi, meno fondi per la conservazione; quindi ancora meno turisti, più dipendenza dal petrolio.
La sera scrivo un messaggio a Femke per consultarla sulla storia degli animali scappati. Lei sostiene maliziosamente che potrebbero essere diventati bush meat, selvaggina. Mi chiedo se il ranger fosse sincero, come sembrava. Il suo lamento è comunque giustificato, e permette di capire l’intreccio fatale che impedisce la protezione dell’ambiente nigeriano. Il salario dei ranger è molto basso e irregolare, come quello di tutti i dipendenti pubblici, che perciò sono più esposti alla corruzione. D’altra parte la gente locale è affamata, pronta a pagare per cacciare o far legna. Gli spiego come funziona in altri paesi africani: i parchi sono tenuti bene e i turisti vengono a migliaia, disposti a spendere moltissimo per vedere gli animali. Questo denaro, a sua volta, alimenta la ricerca e la formazione dei ranger. Perché in Nigeria non si può fare lo stesso? Perché il turista occidentale, che è il più sensibile alle attrattive faunistiche e naturalistiche in genere, non verrà mai in un paese insicuro per visitare foreste saccheggiate. Così la guerra del petrolio innesca un meccanismo: meno visitatori, meno denaro in arrivo nei parchi, meno fondi per la conservazione; quindi ancora meno turisti, più dipendenza dal petrolio, e i molti disperati che decidono di sfidare il fuoco. Senza diverse scelte politiche la foresta si spopola e muore, la regione resta isolata con la sua gente, su una terra avvelenata e sterile. Eppure proprio la solidarietà con la foresta che resiste e può ricrescere sarebbe una fonte di sostegno per la comunità, e potrebbe riportare alla luce legami latenti con gli esseri viventi che la popolano.
L’ultima tappa del mio viaggio è Oshogbo, località storica dove si trova uno degli ultimi boschi sacri degli Yoruba. È consacrato a Oshun, la dèa dell’acqua e della fertilità, bella e vanitosa, creatrice di vita, capace di provare dispetto e punire gli umani che non la rispettano. Ho scoperto Oshun e le altre orisha nigeriane mentre ero in Brasile a fare ricerche sui culti afroamericani. Ho visto i porti da cui salpavano gli schiavi che hanno portato con sé quegli dei. Adesso arrivo all’origine di quel cammino per ritrovare un santuario nell’entroterra africano, un boschetto dov’è proibito cacciare, pescare e tagliare alberi, un luogo dove vale un principio spirituale di una convivenza. La leggenda locale narra di due cacciatori che tagliarono un tronco per fare il fuoco e udirono una voce irritata. Era Oshun, che protestò perché avevano distrutto uno dei suoi vasi. La realtà animista è così, gli spiriti sono ovunque e invisibili. Così Oshun per la prima volta si manifestò ai mortali e pretese per riparazione che ogni anno una vergine portasse offerte. Ancora oggi una cerimonia con offerte e preghiere per Osun ha luogo qui ad agosto. Oshun è scolpita sul metallo all’ingresso del parco, in forma di sirena. È la prima di una serie di porte e sculture che compaiono qua e là nella vegetazione. Ma queste opere che adornano il bosco sono il segno di una storia più recente.
Le opere scolpite pochi decenni fa, quando il sito è stato riscattato da uno stato di incuria. Il tempio era invaso dalle termiti e semidistrutto, il bosco minacciato da chi voleva sfruttarlo per interessi commerciali. Nel 1961 arrivo qui un’artista austriaca, Susanne Wenger, che viveva in Nigeria da alcuni anni, e s’era innamorata della cultura e dell’artigianato locali. Lasciò il marito e si risposò. Venne ordinata sacerdotessa, assunse il nome di Adunni Olorisha. Fondò una cooperativa di artisti, con cui iniziò a lavorare nel bosco. Dopo di lei altri hanno continuato a lavorare la pietra in forme organiche. Il risultato è surreale: tra i giganteschi alberi di kapok, obeche e fraké, ci s’imbatte in sculture di pietra sinuose e slanciate, che sanno di arcaismo e insieme d’avanguardia. Porte-animali e serrature dischiudono un Paese delle Meraviglie. Il dio del cielo Obatala svetta estatico su un intreccio di corpi, immagine di una spiritualità saldamente radicata nella terra. Lo si ritrova in una radura, che spicca per oltre dieci metri in un gesto di celebrazione della sacralità del luogo. Iya moopo, dea dell’artigianato e della cura dei figli, ha un corpo gigantesco da cui spuntano altri animali, e protende le sei braccia a benedire e ammonire. Arte e natura s’incontrano e celebrano un’unione duratura.
Questo intervento degli artisti non è solo decorativo, ma rivelatorio. La natura “vergine” e “incontaminata” che tanto si decanta non è che un’astrazione, perché quelle sono parole degli umani che la abitano, e solo grazie ad essa percepiscono, vogliono e pensano. Per riscattarsi dal sopruso umano è vano fantasticare una natura pura, si deve invece agire, ripristinando con un patto la simbiosi. L’ecologia parla di un oikos, una casa, e prova a riportare alla coscienza le voci rimosse degli altri esseri che ci vivono. L’arte che qui ha animato alcuni angoli della foresta, plasmando forme organiche che rispondono con gesti umani a quelle circostanti, è simbolo di tale riconciliazione.
La potenza di questo gesto s’irradia nel mondo: arrivano persone dalla diaspora africana, in cerca delle proprie radici, e altre come me intenzionate a riconoscere radici universali in questo luogo-simbolo. L’idea di Wenger ha dato luogo al movimento della New Sacred Art, i cui artisti hanno decorato pure il National Black Theater di Harlem, nella lontana New York. L’UNESCO ha dichiarato il sito Patrimonio dell’Umanità. Ma quel che Wenger e gli altri artisti hanno mostrato qui è che la sacralità della natura va declinata al futuro oltre che al passato. Le statue sembrano reliquie di una civiltà aliena che ha concluso la sua vicenda, lasciando immagini d’esseri ibridi che spuntano nella vegetazione. L’esperienza del bosco rimanda a un tempo che ci precede e ci oltrepassa, a un linguaggio che ignoriamo.
Per riscattarsi dal sopruso umano è vano fantasticare una natura pura, si deve invece agire, ripristinando con un patto la simbiosi.
Arrivo alle rive del fiume sacro. Ecco il tempio, retto da pilastri teriomorfi e maculato di pitture. Più avanti la statua di Oshun, schematica nel suo abbraccio, con i piedi coperti dal burro arrossato delle offerte. Una sacerdotessa sta immobile sull’argine. Dopo un po’ si abbassa e raccoglie il liquido denso. Passa una scimmia che si arrampica su un ramo. C’è una pace indicibile, un senso di armonia perfetta. La luce pare tintinnare celebrando l’intesa tra i sensi. Intanto arriva una giovane donna in stampelle, con la testa coperta da un velo. Ha una gamba contorta, ma riesce a saltellare fino al fiume, dove si china per le sue abluzioni. La sua speranza è guarire. Più dei suoi gesti, lenti e dignitosi, mi colpisce il colore del fiume: un giallo paglierino cremoso, che scorre morbido nella luce forte che batte tra gli alberi, dorato e scintillante.
Una bellezza sovrannaturale, o meglio, credo, una meraviglia prodotta dalle forze naturali. Chiedo a Ojo, un giovane artista locale, come mai l’acqua sia così colorata: il fango che si scioglie? “No. Da alcuni anni hanno iniziato a scavare a monte, delle miniere. Buttano i metalli nel fiume, che così ha cambiato colore. Adesso è velenoso. Di fatto, il bosco è stato violato! Ma per la gente l’acqua è sempre sacra, ci s’immerge, la beve”.
Scrivo a Femke, che ha scritto un reportage sul bosco, e subito mi manda delle foto: il fiume è verde. Ecco l’umano sabotaggio, che non si vede, per chi non sa distinguerlo dall’equilibrio che lo precede. Il senso del colore è occulto, la sua attrattiva può ingannare, e lo stesso vale per ogni fenomeno naturale che si offre all’imperizia dei nostri sensi. Mi pare di sentire streghe mormorare il loro enigma beffardo: fair is foul, foul is fair. L’occhio continua ad ammirare voluttuoso le onde morbide del fiume, ignaro e ancora incantato dall’epifania del bosco, ma è magia nera quella che illumina le foto. Come distinguere l’inganno dalla verità che qui si svela?
Non basteranno altri miti, né un sapere che c’insegni a vedere meglio quel futuro comune di cui la Nigeria traccia il profilo. Si viene via di qui con un sano sgomento, ed è impossibile credere più che la città in cui si ritorna sia un rifugio sicuro.
Tutte le foto sono di Paolo Pecere.