L eggo gli altri per non capire me stesso”, disse un mio studente una sera al pub, quando ero in Indiana. In quel periodo, dopo le lezioni che tenevo assieme al mio storico professore irlandese in un’aula abbastanza buia della O’Shaunessey hall, tentavamo tutti, o quasi tutti, di schivare il nevischio e il vento provenienti da quella gigantesca “macchina da neve” che è il lago Michigan, rifugiandoci a bere birra scura in un locale non proprio raccomandabile, giusto fuori dal campus gigantesco. Devo dire che non ho, sul momento, afferrato le implicazioni profonde di quel suo dire lievemente alterato. In classe aveva letto una lunga poesia, composta quale commento critico e creativo al quindicesimo episodio dello Ulysses: una interminabile ma divertente tirata in versi in cui c’erano, c’eravamo, tutti, noi due professori, ma anche i suoi amici, le sue amiche, i parenti del Guatemala, persino le due bariste, una bionda e una oro. Esattamente come in “Circe”, l’episodio chiave del capolavoro di Joyce, di cui quello studente aveva voluto occuparsi, la sua composizione era una vasca di allucinazioni, un continuo oscillare tra onde di presente (il presente della testa) e risacche di passato (il passato del testo), per poi leggere significati non ancora materializzati, sempre possibili, e vivi soltanto nell’aria che si respira e che tiene lontane, appunto, le teste, dai testi.
Ci misi un po’ a comprendere la lezione profonda di quella sua frase strana pronunciata sul momento a mezza voce, dopo una quasi provocazione venutagli da un compagno che stava invece concentrandosi sul saggio Why I write di George Orwell. Non credo ancora di averla capita a sufficienza dopo tanti mesi e anni, ma voglio provare comunque, nelle riflessioni che seguono, a dispiegarne una mia interpretazione nata da una serie di idee che mi sono intanto venute nel frattempo, e che mi stanno dando non poco da pensare ultimamente.
Leggere, ho capito, è sempre soprattutto un proiettarsi nel futuro, ma a partire dal tuffo in un passato ineffabile. Non si legge, credo, o non si deve soltanto leggere per immergersi nella storia precedente dei libri, nei loro “non sono più”: il passato, per quanto sia o appaia intricato, è ricostruibile soltanto come teleologia, ovvero come narrazione con un obiettivo, che può prevedere chiavi, soluzioni, e una lineare oppure caotica sequenza di racconti, vale a dire di quelle storie che amiamo chiamare eventi narrati. Ma, mentre gli eventi veri sono situati sul piano orizzontale dell’inarrivabile, essendo di essi vive e visibili nel narrato soltanto le macerie, le ripercussioni, i cocci, un loro racconto diviene potenziale soltanto se declinato idealmente al futuro.
Mi spiego meglio, facendo un esempio. Può anche interessarci il fatto di capire la mente malata e ossessiva di un dittatore del passato tanto per comprenderla, ovvero, tanto per averne un quadretto, un ritratto incorniciato, compreso dunque tra le quattro assi modellate della sua cornice; mi pare tuttavia operazione alquanto futile e altrettanto ossessiva. Certamente risulterebbe assai meno utile rispetto al tentare di cogliere i modi possibili in cui quel ritratto, si spera accurato, interagisce con le possibilità inesplorate e inesplorabili delle lande dei domani.
Allo stesso modo, mi chiedo quanto e quale senso abbia leggere l’Iliade solo come poema del passato, come un racconto che concede persino una visione etnografica di un periodo storico distante e per noi ora glaciale, piuttosto che provare a sondarne le dinamiche belliche in un’ottica di ricircolo delle idee e delle esperienze, degli eventi ancora non attualizzati, e dunque imparare a predire l’avvenire – e anche se possibile a comportarci meglio nel presente, grazie a quella consapevolezza. In soldoni, è più ammaliante interessarsi alla nuova vita dopo la morte dei testi, piuttosto che alla loro morte prima di quella preziosa nuova vita che sono la lettura e la fruizione.
La via dell’eccesso porta alla saggezza, lo disse Blake, e anche la follia alla santità, potremmo aggiungere noi in occidente.
Credo sia questo alla fin fine ad aver spinto Joyce a tradurre per la contemporaneità, e nella contemporaneità, le vicende di Odisseo, di Ulisse: trasmutandole quasi alchemicamente, rendendole ovvero depurate. Perché non c’è dubbio: Leopold Bloom è un Ulisse corretto. Non torna a casa per far strage dei pretendenti della moglie, come fece il suo predecessore, per dirne una. E per dirne un’altra, mentre è posto davanti alla scelta tra attraversare il braccio di mare tra Scilla e Cariddi e quello delle Simplegadi (le Rocce erranti), nell’Odissea sceglie la prima strada e non la seconda. Invece, Bloom le sceglie entrambe, donandoci un esempio di come, nella vita, a volte non esista soltanto la possibilità di fare una scelta singola e univoca che ne escluda altre. Possiamo fare scelte opposte contemporaneamente. Perché noi siamo quegli “altri che non conosciamo” di cui parla Amleto. Ed è di loro che, segretamente, credo stesse parlando anche quel mio studente più su rievocato.
“Leggo gli altri per non capire me stesso”: una frase che equivale forse alla decisione di smarrirsi dalla retta via per riuscire a imboccare magari la via sinistra, quella pericolosa, quella che non ci pone al riparo dal rischio; perché la via dell’eccesso porta alla saggezza, lo disse Blake, e anche la follia alla santità, potremmo aggiungere noi in occidente, sulla scorta di tante esperienze mistiche che hanno forgiato la nostra storia. Ma la follia porta anche al male, al dolore, all’abbandono. E all’essere abbandonati.
Allora, è necessaria una scelta che incorpori entrambe le strade divergenti: come nel caso di Lanark, il grande antieroe della saga omonima di Alasdair Gray. Nel libro quarto della sua scomposta e ordinatissima quadrilogia allucinata, quando Lanark esce dall’istituto in cui, per sopravvivere, degli umani più adatti si cibano di una pasta di carne fatta con i corpi dei loro simili inadatti, si trova a camminare mano nella mano con la sua compagna, Rima, lungo una strada avvolta nelle brume. I loro passi sono divisi da una linea di mezzeria. Senonché Lanark cammina in salita, mentre Rima in discesa. Riescono comunque, non so come, a tenersi per mano, finché poi lei non capitombola via, e lui la rincorre, ma solo per incontrarne una proiezione, un fantasma inerme. Uno spettro collocato nel passato e non più nel presente. In realtà, i loro percorsi apparentemente adiacenti, contigui non lo sono davvero. Una cammina verso il passato e l’altro verso il futuro. La linea al centro è il presente. Un presente da non travalicare, pena il fatto di cadere nel dirupo del noto da un lato, e dell’ignoto dall’altro.
Leggere gli altri solo per capire noi stessi, dunque, vorrebbe dire avere sicuramente una grande opinione di sé; il che non va mai bene, a meno che non si aspiri a divenire dittatori sanguinari. Capirsi, infatti, cosa significa se non capire del sé un momento esatto del tempo, uno suo fantomatico luogo situato in uno scenario mutevole e non soggetto a inversioni a U? Inoltre, capirsi significa capire i propri pensieri in uno stato di fissità, e non in movimento, come i pensieri sempre sono. Significa non coglierne la velocità, perché li si vede come in un modello in cui hanno una posizione e una velocità fissi e verificabili.
Percepite come polarità, scienza e arte non lo sono affatto; o meglio, non dovrebbero esserlo.
La realtà è di altro tenore. Il mio stesso pensarli, i pensieri, interagisce con loro e gli dà, come si suol dire, una piccola spinta: gli cambia traiettoria e velocità. Ecco allora cosa voleva forse intuitivamente implicare il mio studente: bisogna leggere la fuggevolezza senza volerla “comprendere” in un insieme, bisogna leggere lo scorrere che noi siamo, e non fissarci a fissare quel che fissato non può esser mai, perché farlo significherebbe fissare il vuoto, o peggio, fissarsi a voler fotografare una situazione che è già annichilita e morta.
Esiste una parola abusata nell’accademia anche negli studi letterari, ed è “scientificità”. Come tante altre che lambiscono spesso le nostre labbra e di cui non ci chiediamo altrettanto spesso la provenienza o il significato, questo termine viene usato a sproposito e in maniera ambigua in molte occasioni. Partiamo da lontano, da una dicotomia tutta moderna e contemporanea che appare però intrisa di menzogna: la dicotomia scienza-arte.
Percepite come polarità, scienza e arte non lo sono affatto; o meglio, non dovrebbero esserlo. Ma se lo sono, questo accade in nome di una falsa parcellizzazione dei saperi e in nome dell’erezione di fallaci paletti e steccati duri da smantellare e per nulla malleabili. È una situazione che non si viveva nel Rinascimento, ad esempio, quando le figure del poeta, dell’ingegnere, del matematico, del filosofo, del drammaturgo, e dell’astronomo potevano tranquillamente convivere in una stessa persona. Di questa infelice realtà è certamente stata responsabile la direzione presa nel tempo anche dalle università, sempre più acriticamente appiattite da un lato, negli ultimi tempi, su logiche quantitative, valutative e in fin dei conti del tutto utilitaristiche, e dall’altro sulla coltivazione, da parte delle varie discipline, di un proprio “particulare” del sapere, di orticelli a uso e consumo soltanto della comunità ad essi esposta. Di qui l’utilizzo del termine “scientifico” nell’accademia, non solo per fare riferimento agli ambiti della scienza, ma anche, e proprio in virtù di quelle logiche nefaste di cui sopra, agli ambienti dell’arte e della letteratura.
Collocazioni come “produzione scientifica” nei curricula che i professori devono costantemente tenere aggiornati, a beneficio di un qualche “Big Brother” ministeriale con l’ossessione per il controllo, sono entrate nell’uso quotidiano anche degli umanisti, e non vengono quasi mai messe in discussione. Sono collocazioni tristemente buffe che, se mi è consentito dire, hanno spesso destato una qualche ilarità anche nei colleghi stranieri allorché ci sia toccato di vederle tradotte. Ho personalmente assistito a più di una riunione imbarazzante, all’estero, in cui si doveva procedere alla valutazione dei famigerati curricula di studiosi di materie umanistiche i quali, nel caso specifico di questa espressione, avevano optato per “scientific production” innescando così tutta una serie di ambiguità e ben poca, ahimè, ammirazione.
È stato detto che i dizionari sono cimiteri di parole, e se questo è vero è perché le parole le possiamo sempre riesumare, dissotterrare, magari per scoprire che non sono affatto dei cadaveri esangui.
Se di queste incongruità ora non si parla, è perché, credo, non abbiamo ancora toccato il fondo. Quando ciò avverrà bisognerà affrontare la questione al modo dei gruppi di alcolisti anonimi che si riuniscono per parlare del proprio “problema” e risolverlo. Ma a ben vedere, questo problema specifico nasce da lontano, da un’aporia di fondo che è legata proprio al termine scienza. Mi si consenta di fare un altro salto oltre confine, allora, e di citarne l’equivalente inglese – non certo per sprovincializzare un potenziale dibattito, ma almeno per disambiguare in parte l’utilizzo di questo termine preziosissimo.
Stando all’autorità del plurivoluminoso Oxford English Dictionary, il lemma science, nel suo uso arcaico e raro, indicava “il fatto di sapere qualcosa”. Ricorrendo invece alla definizione etichettata come obsoleta dallo stesso vocabolario, avremmo: “conoscenza teorica o intellettuale, distinta dalle convinzioni morali”.
Soffermiamoci sulla prima spiegazione, che riguarda un uso del termine science attestato a partire dal XIV secolo. Non stupisce, tra la panoramica delle citazioni presenti in questo importante dizionario storico, quella di una traduzione in inglese moderno di un libro di Giambattista Vico ad opera di J. Taylor. In questa traduzione, science significa ancora “conoscenza, cognizione” (“God has science of all things…”) il che deve indurci riflettere innanzitutto sul fatto che le parole non muoiono mai. Anche quelle contrassegnate, in questo tipo di dizionari, da una sinistra croce per indicare che sono uscite dalla circolazione, non sono affatto defunte, stecchite, sepolte. È stato detto che i dizionari sono cimiteri di parole, e se questo è vero è perché le parole le possiamo sempre riesumare, dissotterrare, magari per scoprire che non sono affatto dei cadaveri esangui, e che mostrano, al primo accenno di ricircolo sanguigno, un incarnato roseo e rubicondo. Le parole non muoiono perché esse sono dei nosferatu, dei non morti, dei vampiri; e perché a dar loro vita siamo noi. A questa in particolare, scienza, dovremmo infondere e insufflare un alito vitale nuovo, rinnovato, proprio alla luce della sapienza degli antichi.
Ci ha provato il mio caro Joyce quando, negli schemi interpretativi dell’Ulisse, ha inserito una categoria che ha chiamato, in italiano, “scienza/arte”: fu un modo per lui di farci comprendere come anche un romanzo, se aspira non a ritrarre la vita ma ad incarnarla, deve essere in grado di abbattere qualunque tipo di steccato e di spezzare qualunque tipo di paletto, inclusi quelli che qualcuno vorrebbe usare per trafiggere il povero cuore delle parole in disuso, così da non farle risvegliare più da quel sonno di morte che chiamiamo oblio.
È questo uso raro, delicato della parola “scienza” che grandi pensatori quali Bruno, ad esempio, avevano in mente, nell’usarla. Ne è testimone uno dei suoi sodali londinesi, lui stesso un grande compilatore di dizionari importantissimi: John Florio. In una sua reminiscenza degli insegnamenti del Nolano, Florio dice che “dalla traduzione nasce ogni scienza” – intendendo per scienza non la matematica, l’astronomia, l’alchimia (o non solo), ma il sapere tutto, un sapere che vive soltanto se messo in comune, e dunque tradotto. Ma un sapere che vive di traduzione è un sapere che vive al contempo di stasi e di cambiamento. Perché la traduzione cambia tutto, persino le sillabe delle parole tradotte (la loro materia), ma al contempo tenta di conservare tanto – o perlomeno qualcosa (il loro spirito?). Tradurre il sapere vuol dire dunque fare scienza, fare conoscenza. Significa traslare una salma per farla risvegliare, per resuscitarla.
L’arte non risponde al principio di determinazione, ma semmai a quello di indeterminazione.
Torniamo allora a quell’uso abusato, o meglio a quell’abuso del termine “scientifico”. Se fosse usato nel nobile senso bruniano non avrei nulla da ridire, ma ahimè non è così. Infatti, se la produzione critico-letteraria deve, secondo alcuni, aspirare alla scientificità, questo è perché, sempre secondo alcuni, deve ambire alla verificabilità, alla quantificazione, alle leggi severe e spietate della misurazione come capita alle scienze dure. Deve, in soldoni, dimostrare la validità di un principio di determinazione secondo cui, date alcune condizioni, si devono per forza di cose ottenere taluni risultati e non altri. Il che riduce lo spazio dell’imponderabile a una mera chiosa, quasi che l’arte debba piegarsi alle regole dell’uso e del consumo; quasi che l’oscurità invocata dalle opere d’ingegno artistico possa risolversi nel suo essere, tramite proiezione di fasci di luce, dissipata.
E invece no. L’arte non risponde al principio di determinazione, ma semmai a quello di indeterminazione. L’arte non può essere compre(s)sa e definita, perché il suo spazio è un “immarginabile” della conoscenza. L’arte non può essere fotografata perché ci sfugge, e nel farlo finisce per collimare con l’esistenza – anch’essa sfuggente e scemante. Tanto vale accettare allora questa sua indeterminatezza, tanto vale fare i conti con questa sua fuggevolezza, e rinunciare a qualunque velleità autoritaria e totalizzante. Non certo per rinunciare a spiegare l’arte, sia ben chiaro, ma per aggiungere un senso nuovo alla parola “rivelare”, scrivendola in modo nuovo, modificandola tramite l’aggiunta di un semplice trattino: ri-velare. Ecco il senso della critica, ecco il senso dell’interpretazione.
Gli sparuti commenti che seguono sono dedicati a questo mio approccio incerto, che di scientifico ha il cuore e non la bieca metodologia. Ma prima di poter proseguire ho bisogno di introdurre, senza pretese di sorta, un concetto ancora che appartiene al mondo della rivoluzione scientifica più importante della storia, quella innescata dalla meccanica dei quanti. È per certi versi un concetto paradossale, ma anche forse utile anche per chi si occupa di arte. Parlo del principio di sovrapposizione (quantistica), ossia, in parole assai povere, la teoria per cui lo stato di un sistema risulta essere la sovrapposizione di tutti i suoi stati possibili, anche quelli che nella pratica, e non nella teoria, si annullerebbero a vicenda entrando in contraddizione. Io qui lo chiamerò assai più semplicemente, in beffa al deterministico principio di non contraddizione, “ambiguità”.
Tanti decenni fa, nel 1930, un grande critico inglese, William Empson, qualche anno dopo la famosa visita di Heisenberg all’isola sacra di Heligoland in cui il giovanissimo fisico scoprì che gli elettroni non avranno più orbite fisse, uscì in Inghilterra uno dei testi di analisi letteraria più sottili e influenti del ventesimo secolo – poi mandato in soffitta da approcci meno testualistici che, semplificando molto, potremmo definire più filosofico-culturali. Sto parlando di Seven Types of Ambiguity (Sette tipi di ambiguità).
Sempre semplificando alquanto, potremmo definire la concezione generale di ambiguità fornita da Empson come un fenomeno che occorre quando da un testo si possano derivare letture alternative compresenti, di cui nessuna scalza l’altra, insomma. Letture, quindi, che coesistono sovrapponendosi, e ponendo dunque il lettore di fronte, o alla possibilità di scegliere tra l’una e l’altra (ma possono essere anche più di due), oppure di abbracciarle entrambe.
Leggere significa entrare nell’ombra, che è sempre una proiezione al futuro anche quando ci segue.
Questo tipo di ambiguità generale pertiene di certo alla natura dell’arte; e in letteratura, si trova alla base di quello che altrove ho definito il “letterario”, ossia lo spazio. Non c’è tuttavia bisogno di affondare le unghie nel letterario per reperire fenomeni di ambiguità che a ben vedere regolano il funzionamento del linguaggio stesso, in virtù del fatto che quest’ultimo è arbitrario, e non dato a priori. Non c’è un motivo particolare, al di là del consenso all’interno di una comunità, per cui l’oggetto che sta ricevendo in questo momento dei lievi tocchi dei miei polpastrelli per veder comparire lettere su uno schermo bianco si chiami tastiera. Siamo noi a concordare di poterlo identificare tramite questa stringa di parole, e in via puramente ipotetica, il giorno che vorremo cambiarle nome potremo pure farlo, purché esista del consenso a riguardo. Vogliamo chiamarla keyboard all’inglese? Perché no, ma facendolo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che, sempre per via della legge dell’ambiguità, chi ci ascolta potrebbe persino credere che siamo dei musicisti, perché keyboard significa anche, appunto, “tastiera” (del pianoforte, del sintetizzatore, etc…).
L’ambiguità è il motivo reale per cui esistono i fraintendimenti, parola che dovremmo abituarci anche sempre di più a scomporre (fra + intendimenti), e così facendo, intendere, e far intendere, che viviamo tra intendimenti, nella speranza perenne di intendere menti. Ma le menti non si intendono, neanche tramite una loro possibile vivisezione; non foss’altro per via del fatto che, come si può immaginare, la vivisezione uccide.
Tempo fa scrissi di uno dei libri per me più importanti usciti in Italia negli ultimi decenni, Lettere a Valentinov del poeta, scrittore, traduttore, musicista, professore, Gabriele Frasca. Chiusi quel pezzo ponendo la questione delle questioni per un poeta, ossia la motivazione che spinge a scrivere poesia, e quella correlata così formulata: “perché scriverne ancora?” Restiamo su quest’ultima. Che significa? Significa forse perché scriverne ancora, di poesia, o perché scriverne ancora, di poesie? La grammatica ellittica non ci aiuta, e neanche la sua contestualizzazione, perché il quesito precedente così posto, “a che serve la poesia?” consente entrambe le letture. Come sciogliere il nodo? Ma soprattutto, vale la pena di scioglierlo? È più ricca di significati un’affermazione che ne comprende più d’uno di senso, o una che si limita ad essere univoca e (ma è davvero possibile?) univocamente interpretabile.
Ecco quel che intendo per sovrapposizione, e nell’affermarlo, chiedo scusa preventiva ai fisici, anche per le evidenti differenze tra il mio uso della parola e il loro, differenze che si appaiano alle affinità. In letteratura, dove regna la pratica della sovrapposizione/ambiguità, davvero coesistono i significati quando ci soffermiamo a guardarli. Ed è per questo che dobbiamo leggere per non capirci, per non comprenderci, per non ergere attorno alle nostre ombre – ovvero ai nostri futuri – muri solidi e invalicabili. Vivere è sempre vivere oltre, e leggere è sempre leggere oltre. Oltre le parole, oltre le cose, oltre i passati. Leggere significa entrare nell’ombra, che è sempre una proiezione al futuro anche quando ci segue (è la luce che appartiene al passato e che da esso proviene). Per tutto questo, e per tanto altro, ringrazio quel mio studente del Guatemala. Per avermi insegnato a non voler capire, a non voler comprendere, a non voler racchiudere.