U n cancello di ferro, sovrastato dalla scritta “ARBEIT MACH FREI”. Casermoni color del fango, recinzioni di filo spinato, rotaie che immettono i vagoni merci direttamente dentro il campo di sterminio. E ancora: i numeri tatuati sul braccio di persone che la fatica, la fame e la violenza hanno ridotto a fantasmi. Le foto di centinaia di cadaveri ammassati nelle fosse comuni, la pianta del forno crematorio, le lattine contenenti lo Zyklon B, i nomi e i cognomi dei profughi arrivati a Buchenwald nel 1943, le pagine del protocollo della Conferenza di Wannsee. L’Olocausto è l’evento storico che forse più di ogni altro è connotato da un livello di visività estremo. Se le testimonianze dei sopravvissuti ai lager hanno fornito la prima e definitiva conoscenza riguardo allo sterminio nazista, le foto e i documenti ci hanno costretti a guardare dentro l’anus mundi, a riconoscere un’innegabile corporeità delle parole dei prigionieri, a dimostrare definitivamente, se ci fosse bisogno, che è stato. Immagini che, sebbene a un certo punto abbiamo distolto lo sguardo durante i quasi cento anni trascorsi, non siamo mai riusciti a consegnare definitivamente al passato, ma le rievochiamo in continuazione per metterle in relazione con il nostro presente. Ed è dalla persistenza della Shoah nelle rappresentazioni estetiche – in special modo la letteratura – che prende piede il percorso critico di Arturo Mazzarella, nel suo nuovo saggio La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini.
Negli ultimi decenni, infatti, l’Olocausto è diventato un contenitore tematico a cui artisti e scrittori attingono frequentemente. Nelle prime pagine del saggio, Mazzarella fornisce una lista di solo alcuni tra le centinaia di romanzi, film e serie tv di recente pubblicazione che traggono ispirazione dalla Shoah: a riprova di come quell’evento continui a riverberare, quasi come un’ossessione, nelle produzioni artistiche contemporanee. Che sia per dare una cornice melodrammatica alla narrativa di genere (o scenografia edulcorata, ad esempio in La vita è bella di Roberto Benigni), o porti il marchio di una più profonda e consapevole indagine d’autore, la ri-messa in scena della Shoah come immaginario non costituisce per Mazzarella la banalizzazione – o, peggio, la mercificazione – di una tragedia indicibile ma, piuttosto, il sintomo che non è ancora finita la metabolizzazione di quello che è l’evento per eccellenza traumatico del Novecento; e che quel processo avviene con la traduzione visiva del genocidio.
C’è qualcosa evidentemente che continua a sfuggirci della Shoah, se l’orrore di fronte allo sterminio si è rapidamente dissolto in un motivo estetico. Significa che alla nostra comprensione manca ancora l’anello – un anello assolutamente cruciale – che consente di saldare questo evento al nostro presente.
Questo perché il repertorio di cui le opere contemporanee si servono non è fatto solamente di documenti che fanno da ponte tra il presente e il passato: sono state le testimonianze e gli scritti memoriali dei sopravvissuti ad aver reso la stessa Shoah un evento-oggetto, estendendone il significato ben al di là delle coordinate storiche e costituendo il modello cognitivo con cui il nostro presente lo riaffronta. Opere di importanza capitale come Se questo è un uomo di Primo Levi e La specie umana di Robert Antelme, le memorie di Jorge Semprùn e le riflessioni di Jean Améry, sono state in grado di detonare l’archivio storico in tutta la sua potenza immaginifica, portando a rivelarne “un residuo simbolico che rimane ancora enigmatico”. Attraverso l’analisi testuale dei più importanti scritti testimoniali sulla Shoah – oltre ai sopracitati, anche Jean Cayrol, Imre Kertész, Etty Hillesum –, Mazzarella dimostra infatti come la parola del prigioniero sia una parola estremamente visuale. “Per tre giorni ci si riempirà di immagini. Sarà questa la festa” scrive Antelme riguardo all’avvicinarsi del Natale nel campo di concentramento. Nel lager, la capacità di creare una giuntura tra lo sguardo e il linguaggio poteva essere determinante per la sopravvivenza, perché permetteva la trasfigurazione di una quotidianità insostenibile, di un’esistenza che veniva fatta scivolare inesorabilmente verso l’annientamento.
Di immagini che mutano, di metamorfosi, è piena la mente di ogni deportato. Nonostante l’inesorabile abbruttimento della vita nel Lager. La paura, la rabbia, il desiderio di riscatto, e anche la vendetta, la nostalgia, la speranza, si sovrappongono in un ingorgo di altrettante raffigurazioni create dal potere formativo dello sguardo.
Ma per riuscire a rappresentare i campi di concentramento in quanto simboli che sopravvivano alla Storia non basta descriverne il luogo, il fenomeno osservabile: occorre appropriarsi del significato delle immagini che riempiono gli occhi sia di giorno, che di notte attraverso i sogni. La testimonianza è “iconofilia”, percezione che partendo dalle immagini che registra tenta poi di staccarsi dalla cronaca mortifera del lager, per “dare una forma all’esperienza”, citando le parole di Elias Canetti ne Il frutto del fuoco; e, in definitiva, riuscire a esprimere un senso etico e umano che vadano oltre il racconto. Un passaggio da Se questo è un uomo – l’incontro con il Doktor Pannwitz, davanti al quale Primo Levi deve sostenere l’esame per lavorare come chimico nel laboratorio di Auschwitz – può essere utile a capire quanto sia fondamentale che tra questi due piani, quello dell’osservazione empirica e quello che per Mazzarella è la “metamorfosi”, si mantenga una tensione:
Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò. Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; […] Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.
Sguardo che si fa pensiero, e quindi interpretazione dell’orrore: ovvero il tentativo di riportare a chi ascolta le immagini della Shoah attraverso le parole; le quali, a loro volta, riescono invece a restituire solamente delle “immagini-lacuna” (Georges Didi-Huberman, Immagini nonostante tutto). Nel processo di traduzione qualcosa si perde, la corrispondenza perfetta è impossibile. Nonostante la capacità di cogliere con lucidità la propria condizione, la parola del sopravvissuto rimane una parola parziale: manchevole, quindi, di univocità, di valenza assoluta e comune a tutti i prigionieri, che gli ascoltatori e gli eredi ricevono solo in parte. Ma è proprio nell’eterogeneità e nel carattere definitivamente non-universale della rappresentazione estetica, che la ricognizione di La Shoah oggi ha il suo epicentro: lo sterminio è un’ombra perpetua che, attraverso il tempo, si rifrange in modo diverso quanto particolare è l’individualità di chi si trova sotto la sua coltre.
A ragione, quindi, Mazzarella non adotta gerarchie tra le opere che ripercorre: la rielaborazione del trauma dell’Olocausto da parte degli eredi, biologici o intellettuali, ha una valenza complementare alle testimonianze dirette. Anzi, è proprio attraverso l’altro spaccato della dimensione della memoria e del non-vissuto che l’indagine si sfaccetta ulteriormente, si arricchisce di nuovi significati. I sopravvissuti che si fanno immagini a loro volta: l’orrore del genocidio diventa un eccesso di contenuto che domanda l’integrazione nel presente. Come nel diario di Marguerite Duras – pubblicato poi nel 1985 come Il dolore – compagna di Robert Antelme che racconta l’attesa del di lui ritorno dalla guerra, e l’eterno “adesso” in cui è costretta a vivere e che la divora, affollandole la mente di allucinazioni e fantasmi fino a corrodere ogni forma di relazione con la persona-oggetto dell’assenza, portandola al definitivo rifiuto nonostante il ricongiungimento (“Lui aveva gli occhi alzati. Ha dovuto guardarmi, riconoscermi, sorridermi. Ho urlato di no, che non volevo vedere. Sono tornata indietro, ho risalito la scala. Urlavo, di questo mi ricordo”). O come per la parola poetica di Paul Celan, costretta a passare per la “grata” del significante reale, “attraverso un ammutolire orrendo, le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte”. Ancora, Georges Perec (W o il ricordo d’infanzia, 1975) e W.G. Sebald (Austerlitz, 2001), che con l’artificio linguistico e la finzione immaginativa riescono a riscattarsi dalla passività di memoria inutilizzabile, ri-significando una storia famigliare altrimenti destinata a vivere solo sottoforma di rimosso freudiano. Un campione di autori che sottende un’idea ben precisa, perfettamente contemporanea: “ognuno vede la sua Shoah personale”.
Chi, pur non essendo stato coinvolto personalmente nella Shoah, ne costituisce comunque un erede diretto, si troverà puntualmente di fronte a una parata di ombre, moltiplicate dalle interferenze tra passato e presente. Saranno, dunque, sguardi costantemente opachi, sfocati, costretti a vagare lungo traiettorie oblique, nonostante la loro intensità miri a una visione frontale ed esaustiva.
Ma in La Shoah oggi, Mazzarella compie un’operazione ben più sofisticata e pregnante di un’attenta critica tematica su un campione di testi, molti dei quali fanno parte da tempo di un “canone” della letteratura concentrazionaria. L’obiettivo profondo, in realtà, va anche ben oltre al dare una possibile risposta al quesito posto fin dalla prima pagina (“Ancora la Shoah. Perché?”): l’intento, se non addirittura il bisogno, del critico è quello di far ripartire un certo tipo di discussione intorno alle opere che raccontano l’Olocausto. Cioè rivivificare, ridare un centro di movimento a testi spesso ed erroneamente dati per appurati, fermi, verso i quali la memoria sembra sempre di più uno sforzo dettato dalla ricorrenza annuale del 27 gennaio. In questo senso, come il critico aveva già dimostrato di saper fare nel suo Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, raccontare i testi dal punto di vista del loro elemento visuale significa creare un rapporto diretto con la cultura e il gusto estetico contemporaneo, che è massimamente legato alla visività.
La letteratura, e questo saggio lo conferma, resta ancora il medium prediletto del racconto della Shoah, nonché il luogo in cui sono meglio osservabili le problematiche tensioni tra Storia e sua rappresentazione, e tra estetica e teoretica. Quello che oggi è diverso rispetto alla prima generazione di testimoni sono gli esiti che noi traiamo dal confronto personale con un “inconscio ottico” che il trauma dell’Olocausto tiene ancora in subbuglio. Opere che attraverso la manipolazione dei documenti, l’abbraccio definitivo e incolpevole alla fiction, la combinazione di linguaggi diversi, riescono a schiudersi “a nuove interpretazioni al passo con la contemporaneità”: per tentare di allargare senza sosta il cerchio della comprensione, per sottrarre al totem dell’indicibilità di Auschwitz spazi d’ombra, ogni scrittore, artista, creativo, attinge alla propria vis imaginandi per contribuire alla “massima estensione del punto di vista”.
Infine, per rendere più calda e acuta una percezione che si rivolge soprattutto al presente: che la stratificazione di senso fosse cruciale per permettere alla Shoah e ai suoi moniti di sopravvivere nell’immaginario collettivo lo avevano capito già i maggiori cineasti impegnati del Novecento, da Godard a Resnais, su cui Mazzarella non a caso conclude il suo lavoro – soffermandosi, dalle Histoire(s) a Notte e nebbia, sulle nuove soluzioni permesse dal montaggio, ovvero proprio l’aspetto che accomuna il cinema alla narrazione letteraria. Non solo perché fenomeni sociali e politici portano l’eco – vero o supposto – di ciò che è stato; ma anche e soprattutto perché, citando il poeta Charles Simic, “solo ciò che avviene dopo la Shoah può attribuirle significato più ampio e offrire un indispensabile ausilio alla decifrazione del presente”. Lungo lo stesso solco si pone questo saggio, che costituisce il primo tentativo di Mazzarella di perseguire la sua “aspirazione a un’immagine totalizzante”, che nient’altro è che la ricerca di un racconto-raccoglitore di tutte le narrazioni della Shoah, un tappezzato muro contro cui andrà a infrangersi “il tutt’altro che irripetibile intreccio di pulsioni” alla genesi del genocidio ebraico.