C on oltre 500 casi confermati di vaiolo delle scimmie al giorno nel mondo, il direttore generale dell’OMS, Thedos Ghebreyesus, il 23 luglio ha dichiarato l’emergenza di salute pubblica internazionale. È strano scrivere oggi di vaiolo: è una parola pregna di terrore antico – viene dal latino varius, variegato, o da varus, foruncolo – che speravamo di non dover più pronunciare. Il ritorno di una forma di vaiolo dovrebbe angosciarci, eppure dopo due anni e mezzo di pandemia siamo stanchi; l’idea di un altro virus di cui monitorare il contagio e per il quale prendere provvedimenti di salute pubblica, magari invasivi, ci pare uno scherzo grottesco.
Ci sono molte differenze rispetto al COVID-19. Sembra abbastanza chiaro che il vaiolo delle scimmie non si possa diffondere con la stessa rapidità; a differenza di Sars-CoV-2 inoltre il virus del vaiolo delle scimmie è noto da decenni e abbiamo già vaccini funzionanti. Come sintomi, in prima approssimazione, il vaiolo delle scimmie è un vaiolo lieve. Meno grave del vaiolo umano storico, ma non è affatto un’esperienza insignificante. I sintomi sono mal di testa, febbre, stanchezza, seguiti dalle caratteristiche pustole vaiolose, spesso concentrate nella zona ano-genitale e estremamente dolorose, che in seguito seccano e possono lasciare cicatrici. A seconda del ceppo virale la mortalità può oscillare – nei paesi africani dove è endemico, per esempio – dall’1 al 10%. Il vaiolo vero e proprio, in confronto, aveva una mortalità del 30%. Il vaiolo delle scimmie colpisce più gravemente bambini e immunodepressi (come i sieropositivi all’HIV, che in Africa nel 2018 erano poco meno di 38 milioni).
Il vaiolo delle scimmie non si dovrebbe diffondere con la stessa rapidità del COVID; a differenza di Sars-CoV-2 inoltre il virus del vaiolo delle scimmie è noto da decenni e abbiamo già vaccini funzionanti.
Però – dovrebbe essere ovvio, ma ovvio non sembra – la seconda fuga e invasione planetaria di un virus nel giro di tre anni è un segnale che dovremmo imparare a leggere: l’ennesimo sintomo del nostro approccio problematico con la biosfera. Eppure, viceversa, il vaiolo ci dovrebbe insegnare anche che, contro i virus, possiamo fare qualcosa che oggi, dopo tre anni di pandemia e in mezzo a nuove varianti di Sars-CoV-2 può suonare strano: possiamo vincere.
Da dove viene il vaiolo delle scimmie
Il 30 giugno del 1958 un macaco, che avrebbe dovuto fare da cavia per la ricerca sui vaccini contro la poliomielite, allo Statens Serum Institut in Danimarca, si ammala di una curiosa eruzione cutanea molto simile a quella del vaiolo. Nei giorni successivi altri cinque animali vengono colpiti. A novembre un altro focolaio della stessa malattia colpisce un altro carico di macachi; gli scienziati dello Statens Serum Institut isolano dagli animali un nuovo virus di una malattia che chiamano monkeypox, vaiolo delle scimmie.
In realtà il nome è parzialmente ingannevole: a dispetto delle circostanze della sua scoperta, il virus infatti è più comune nei roditori o nei ghiri dell’Africa, che nelle scimmie. Solo nel 1970 si registrò il primo caso di infezione nell’essere umano: un bambino di 9 mesi nel territorio di Basankusu, una regione quasi interamente coperta dalla foresta pluviale, nel nord della Repubblica democratica del Congo, remotissima. Da quella prima infezione il vaiolo delle scimmie in mezzo secolo è diventato endemico in Africa centrale e occidentale. I numeri ufficiali non sono mai stati altissimi anche se comunque preoccupanti (quasi 4600 casi e 171 decessi confermati solo da gennaio a settembre 2020 in Congo, per esempio) ma lentamente il virus estese il suo raggio d’azione, con focolai in Sudan e in Nigeria, lanciando anche timidi tentacoli fuori dal continente africano, negli Stati Uniti per esempio. Finora però gran parte dei focolai di vaiolo delle scimmie era stata limitata a popolazioni che consumano cacciagione selvatica, la cosiddetta bushmeat, e fuori da lì il virus era stato posto spesso rapidamente sotto controllo. È evidente che ora invece il vaiolo delle scimmie è ben capace di sostenere la sua diffusione da persona a persona. Finora le malattie della famiglia del vaiolo non erano mai state considerate malattie veneree (anche se casi di trasmissione sessuale erano noti). Ma è comunque un’infezione che si trasmette tramite contatto stretto. Nei casi degli ultimi mesi, sembra abbastanza chiaro che la principale via di trasmissione attuale sia correlata ai rapporti sessuali, concentrata in particolare tra gli uomini che fanno sesso con altri uomini.
Nei casi degli ultimi mesi, sembra abbastanza chiaro che la principale via di trasmissione attuale sia correlata ai rapporti sessuali tra uomini con altri uomini. C’è il pericolo dello stigma e della sottovalutazione del pericolo che avvenne con l’HIV.
È una situazione pericolosa, in cui rischia di ripetersi l’errore che venne fatto per HIV/AIDS, che per un breve periodo venne chiamato dalla comunità medica “gay-related immunodeficiency disease”, “malattia di immunodeficienza relativa ai gay”, col duplice risultato di addossare lo stigma alla comunità LGBT e di far sottovalutare il pericolo al resto dei cittadini. Come ha spiegato Kai Kupferschmidt su Science, è probabile che in questo caso il vaiolo delle scimmie si sia diffuso accidentalmente all’interno di una sottoinsieme della comunità gay con una rete di contatti sessuali molto fitta. È stata questa molteplicità di partner, quindi, a favorire la diffusione del virus. Ma il virus sta già debordando al di là di questi confini e inizia a colpire, per esempio, anche i bambini. Non è con lo stigma e con la buoncostume che si fermano le pandemie.
Breve storia del vaiolo
Il virus del vaiolo delle scimmie è il principale parente del vaiolo storico ancora in circolo. Il ritratto di famiglia è però abbastanza affollato. Vaiolo “classico” e vaiolo delle scimmie sono solo due rappresentanti di una dozzina di virus estremamente simili tra loro, gli orthopoxvirus. Il vaiolo delle scimmie non è l’unico vaiolo ancora esistente a colpire gli esseri umani.
Innanzitutto c’è il virus vaiolo bovino, la cui infezione è rara e il cui nome è, di nuovo ingannevole: ormai pressoché inesistente tra le mucche, viene invece trasmesso alle persone dai gatti (ha però come vera specie-riserva le arvicole, che infettano i gatti quando le cacciano). Un altro è il cosiddetto vaccinia virus: uno dei più noti, in quanto è il virus alla base dei vaccini per il vaiolo, ma le cui origini in realtà sono oscure; oggi viene trasmesso spesso proprio da persone vaccinate contro il vaiolo con vaccinia virus infettivo, come i militari statunitensi. In rari casi può passare all’uomo il vaiolo dei cammelli, e vi sono inoltre virus che attaccano l’essere umano scoperti di recente, come l’alaskapox (identificato solo nel 2015) o il virus Akhmeta. Nessuno di questi virus ha dato prova di essere pericoloso, almeno finora.
È una famiglia tutto sommato giovane. Essendo capaci di replicarsi rapidamente, l’evoluzione biologica dei virus segue le scale dei tempi della nostra storia e preistoria, più che di quelle del tempo profondo, di milioni di anni, che spesso attribuiamo all’evoluzione dei viventi. Gli orthopoxvirus del Vecchio e del Nuovo mondo si sono separati circa 42.000 anni fa, e il virus del vaiolo delle scimmie si è separato dagli altri orthopoxvirus intorno a 3500 anni fa. Il virus del vaiolo delle scimmie, o quantomeno la sua linea evolutiva, è dunque più antica del virus del vaiolo umano, che invece sembra essersi originato intorno al 280 dopo Cristo.
Il virus del vaiolo delle scimmie è il principale parente del vaiolo storico ancora in circolo. Il ritratto di famiglia è però abbastanza affollato.
Questa parentela evolutiva stretta è quella che oggi ci permette un vantaggio enorme nei confronti del vaiolo delle scimmie: un vaccino contro un qualsiasi orthopoxvirus è estremamente efficace anche nei confronti di tutti gli altri. I vecchi vaccini del vaiolo (che sono a loro volta basati sul vaccinia virus, non sul virus del vaiolo in senso stretto) hanno un’efficacia dell’85% contro il vaiolo delle scimmie. Virus come quello dell’influenza o del COVID evolvono e mutano molto più velocemente, e avere vaccini universali è molto più difficile. È importante ricordare che comunque evolvono: il virus del vaiolo si è evoluto nel tempo diventando più virulento, non meno, a smentire definitivamente la fola secondo cui i virus diventerebbero più “buoni” col tempo.
Viceversa, come ogni ente biologico, i virus del vaiolo hanno comunque dietro di sé una storia remotissima. Essi sono una piccola parte di un gruppo tra i più eccezionali della vertiginosa diversità dei virus, i cosiddetti grandi virus a Dna citoplasmatici o NCLDV. È una famiglia di virus probabilmente più antica di tutti gli eucarioti (organismi con cellule complesse) viventi, e che probabilmente ha influenzato l’evoluzione di gran parte della vita sulla Terra. Il nostro rapporto con il vaiolo è solo un piccolo, recentissimo capitolo di questa storia. Fedeli al nome della categoria, i virus del vaiolo sono dei piccoli giganti: circa 220 – 450 nanometri di lunghezza, con un genoma di quasi 200.000 “lettere”.
Meno della metà di un batterio, eppure non ci sono molti altri virus umani così massicci, tranne forse il virus dell’Ebola, la cui lunghezza può arrivare al micrometro. Ma anche il virus del vaiolo è un nano al confronto dei suoi parenti, tra cui ci sono i virus più grandi del pianeta, come i mimivirus o i pandoravirus, il cui genoma è più grande e complesso di quello di diversi batteri. Questi remoti cugini del vaiolo hanno messo in crisi l’idea di virus come quella di semplici replicatori molecolari indegni dell’etichetta di viventi, e li hanno avvicinati alle forme di vita vere e proprie.
Memorie di una vittoria
L’8 maggio 1980 l’OMS dichiarò il vaiolo finalmente eradicato. “Il più terribile dei sacerdoti della morte”, secondo lo storico Thomas Macaulay. Comparso circa 1700 anni fa (o forse anche prima, se venisse confermato che colpì e uccise il faraone Ramsete V), il vaiolo solo in Europa uccideva, nel Diciottesimo secolo, 400.000 persone all’anno, su una popolazione di 150 milioni. Era un flagello particolarmente democratico: non si faceva scrupolo di uccidere o colpire zar, imperatori, cesari. Il vaiolo ha ucciso l’imperatore Giuseppe I d’Austria, re Luigi XV di Francia, lo zar Pietro II di Russia, il re Luigi I di Spagna e la regina Ulrika Eleonora di Svezia, oltre ad aver sfigurato la regina Elisabetta I d’Inghilterra. Fino a poco prima della sua eradicazione, mieteva ancora migliaia di vittime: un singolo focolaio a Bihar, in India, uccise 10.000 persone nel 1974. Quando non uccideva – cosa che accadeva nel 20-30 per cento dei casi – il vaiolo sfigurava e accecava: copriva il corpo delle vittime di centinaia o migliaia di pustole, che lasciavano spesso cicatrici sul volto e ulcere alle cornee. Prima della comparsa del vaccino, il vaiolo causava un terzo dei casi di cecità in Europa.
Negli anni Ottanta è stato possibile possibile eradicare il vaiolo perché, nell’orrore, siamo stati fortunati. La malattia aveva numerose caratteristiche che la rendevano un bersaglio perfetto per l’eradicazione.
Sembrava impossibile liberarsi di un flagello così endemico e letale, eppure oggi è solo un ricordo. Già eliminato dai Paesi occidentali entro il dopoguerra (il primo Paese a eliminare il vaiolo dai propri confini fu la Svezia nel 1895, con l’eccezione di due focolai negli anni Trenta e negli anni Sessanta), il vaiolo venne eradicato da tutto il globo con una campagna mondiale coordinata e senza tregua. Questa iniziò ufficialmente nel 1958 con la risoluzione WHA11.54 dell’OMS, su proposta del ministro della salute sovietico Viktor Zhdanov, ma il presidente americano Thomas Jefferson aveva già espresso questa speranza nel 1806, scrivendo a Edward Jenner, colui che mise a punto la vaccinazione contro il vaiolo: “Avete eliminato una delle più grandi sventure umane. […] Le nazioni del futuro sapranno solo dalla storia che il ripugnante vaiolo è esistito”.
È stato possibile perché, nell’orrore, siamo stati fortunati. Il vaiolo infatti aveva numerose caratteristiche che lo rendevano un bersaglio perfetto per l’eradicazione. Non aveva casi asintomatici, la malattia era ben riconoscibile, l’infettività era associata all’evidente eruzione cutanea, non c’erano portatori a lungo termine, il vaccino era estremamente efficace contro tutti i ceppi del virus (in generale, i vaccini per il vaiolo sono efficaci contro tutti gli altri orthopoxvirus umani) e non c’era nessun animale che potesse fare da “serbatoio” per il virus. A differenza di quanto spesso si crede, l’eradicazione del vaiolo non è stata raggiunta tramite una vaccinazione a tappeto: nelle fasi finali dell’eradicazione i focolai potenziali venivano cercati ossessivamente, meticolosamente in ogni villaggio, e poi spenti in modo mirato. Una volta identificati i casi di infezione questi si contenevano isolandoli («quattro guardie venivano assegnate, giorno e notte, a ciascuna abitazione infetta», ricordava Frank Fenner, uno dei medici leader della campagna di eradicazione) e vaccinando tutti i possibili contatti.
L’ultimo caso naturale di variola major, la forma più letale del vaiolo, è stato quello di Rahima Banu, in Bangladesh, il 16 ottobre 1975; l’ultimo di variola minor colpì Ali Maow Maalin, cuoco di un ospedale somalo, il 22 ottobre 1977. Entrambi guarirono dalla malattia senza gravi complicazioni. Il vaiolo avrebbe però reclamato un’ultima vittima: la fotografa medica inglese Janet Parker, l’11 settembre 1978, infettata in seguito a un incidente di laboratorio all’Università di Birmingham, in circostanze mai davvero chiarite, morì dopo un mese di agonia. Fu in seguito a quell’incidente che tutti i campioni di vaiolo esistenti nei laboratori vennero distrutti o inviati a due laboratori di massima sicurezza, negli Stati Uniti e in Unione Sovietica. Il terrore del vaiolo resta comunque alto, anche oltre 40 anni dopo. Nel 2018 è stato approvato il primo farmaco contro il vaiolo, il tecovirimat, e per l’occasione la rivista Nature chiedeva di tenere ancora alta la guardia.
Il vaiolo ha dimostrato che eliminare una malattia infettiva dalla Terra è estremamente complesso: ha richiesto una coincidenza di condizioni fortunate e uno sforzo collettivo ineguagliato. Oggi abbiamo eradicato la peste bovina, e siamo vicini a eradicare altre malattie umane, come la poliomielite o la dracunculiasi, ma non è chiaro quanti patogeni potremo lasciarci alle spalle, ricordi nei musei della sesta estinzione insieme a migliaia di altri viventi, ma che una volta tanto non mancheranno a nessuno. Prendiamo il Sars-Cov-2: al contrario del vaiolo ha una diffusione aerea molto più semplice (anche se non mancarono casi di diffusione aerea del vaiolo, come nel focolaio di Menschede nel 1970 in Germania), ha una fase e casi asintomatici e contagiosi, e ha serbatoi animali. Questo rende il coronavirus un bersaglio molto più difficile del vaiolo.
Anche se non fosse stato possibile eradicare del tutto il vaiolo, l’impresa non sarebbe stata vana: controllare il virus il più possibile avrebbe comunque risparmiato migliaia se non milioni di vite umane e sofferenze.
Ma questo non significa neanche che dobbiamo abbandonarci al fato. L’eradicazione del vaiolo è stata un po’ come lo sbarco sulla Luna: ha dimostrato che un obiettivo apparentemente fantascientifico era possibile, con uno sforzo collettivo e coordinato. Anche se non fosse stato possibile eradicare del tutto il vaiolo, l’impresa non sarebbe stata vana: controllare il virus il più possibile avrebbe comunque risparmiato migliaia se non milioni di vite umane e sofferenze.
Perché il vaiolo delle scimmie arriva proprio adesso a diffondersi nel mondo? Ci sono varie teorie – il virus potrebbe essersi evoluto per diventare più contagioso, o la pandemia di COVID-19 potrebbe aver indebolito il nostro sistema immunitario. Ma il fatto è che gli scienziati ci dicono che in futuro una nuova epidemia, se non pandemia, è inevitabile. Il vaiolo delle scimmie potrebbe non essere quella pandemia, ma è comunque un assaggio di quanto ci aspetta.
Virus, globalizzazione e colonialismo
Una possibile chiave di lettura di quello che sta accadendo si può andare a cercare nel rapporto tra pandemie e colonialismo. Il vaiolo del resto fu una delle principali armi, sia pure in gran parte involontarie, del colonialismo europeo. Nel Sedicesimo secolo annientò le civiltà precolombiane: arrivato nelle Americhe nel 1507, massacrò interi popoli. Un frate spagnolo, giunto in Messico nel 1525, descrisse come “quando il vaiolo iniziò ad attaccare gli Indiani, divenne una pestilenza così grande che nella maggior parte delle province più di metà della popolazione morì […] a cataste, come fossero cimici. Altri morirono di fame, perché, siccome erano tutti malati, non potevano prendersi cura l’uno dell’altra. In molte case tutti morirono e, siccome era impossibile seppellire il gran numero di morti, tirarono giù le case […] che diventarono le loro tombe”. L’impero Inca si sbriciolò più a causa del vaiolo, che uccise l’imperatore Huayna Capac e il suo erede, Ninan Cuyuchi, portando la guerra civile in un impero sotto attacco, e ne decimò la popolazione, che delle spade di Pizarro.
Ma il rapporto tra epidemie e pandemie e colonizzazione – sia in senso stretto, sia nel senso lato di conquista e penetrazione di massa in habitat remoti – non si ferma qui. Guardiamo a quanto accaduto per esempio col virus HIV, che è entrato in contatto con la specie umana negli anni Venti del Ventesimo secolo, e si è diffuso in seguito alla urbanizzazione della zona di Kinshasa neli anni Sessanta. E a quello che è accaduto di nuovo con il Sars-Cov-2, le cui origini sono ancora incerte ma in qualche modo devono risalire al brulicare di coronavirus tra i pipistrelli dello Yunnan, in Cina, o nel sud-est asiatico, e con cui siamo entrati in contatto vuoi tramite le miniere di rame, vuoi tramite il consumo di animali selvatici.
In futuro una nuova epidemia, se non pandemia, è inevitabile. Il vaiolo delle scimmie potrebbe non essere quella pandemia, ma è comunque un assaggio di quanto ci aspetta.
L’HIV però è stato riconosciuto ed è diventato un allarme solo quando è uscito dall’Africa, negli anni Ottanta, per sbarcare negli Stati Uniti, anche se in Africa era già diffuso da decenni (e anzi, probabilmente ce ne siamo accorti quando è uscito dal sottomondo sociale dei tossicodipendenti per arrivare a strati meno nascosti della società, se sono vere le testimonianze aneddotiche sulla junkie flu negli anni Settanta). E viceversa, benché sia tuttora endemico in Africa con enormi conseguenze di salute pubblica, in Occidente è diventato invece ormai un fatto della vita, prevenibile con contraccettivi a portata delle nostre tasche e trattabile con le terapie che oggi lo rendono una malattia cronica e non una sentenza di morte.
Con il vaiolo delle scimmie stiamo ripetendo lo stesso copione colonialista: anni di allarmi medici e scientifici sono stati ignorati. Come per miriadi di malattie endemiche in paesi non occidentali, quali l’Ebola, francamente ce ne siamo infischiati, come oggi ad esempio ce ne infischiamo della rabbia. È solo quando deborda nei nostri walled garden occidentali che virus come il vaiolo delle scimmie diventano, di colpo, un problema di cui parlare. Il nostro cinismo occidentale, volutamente ignorante, per cui la realtà di interi diversissimi continenti come l’Africa o il sud-est asiatico restano terre e popolazioni di cui non occuparsi o da respingere come un fastidio, non è sostenibile, perché quanto accade là prima o poi riverbera anche nelle nostre case. Ma resta una magra consolazione per quei popoli: dimenticati prima, e che saranno dimenticati, in gran parte, dopo.
Più in generale, il nostro approccio con la biosfera è colonialista – c’è chi fa partire l’Antropocene proprio con l’epoca coloniale. Nella biosfera ci espandiamo, lanciando i nostri tentacoli sempre più lontano, sfruttando zone in cui l’umanità non aveva mai messo piede o quasi, risorse finora inaccessibili. Ma, una volta che la natura è stata penetrata, sfruttata e divelta, facciamo di tutto per tenerla lontana, recintandola dove possibile e controllandola altrimenti. Essere nel mondo ma non del mondo, questa sembra la lotta costante della specie umana.
C’è motivo per questo: la natura è matrigna, come afferma l’Islandese nel dialogo di Leopardi:
mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere.
Storicamente, gran parte dell’avanzamento delle condizioni umane di vita è coinciso con la necessità e capacità di tenere la natura fuori. Letteralmente, costruendo abitazioni e architetture; o respingendo i patogeni fuori dall’organismo con la medicina. Ma la natura rientra. In realtà i termini stessi che sto usando sono menzogneri. L’idea che la natura possa restare altrove, come un (iper)oggetto vischioso e totalizzante ma, comunque, fuori da noi, è un’illusione. Cercare di staccarsene è futile come un organo che cerchi di staccarsi dal corpo.
Con l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali, tenere la natura fuori mentre ci addentriamo nel suo ventre diventa una contraddizione insanabile. Come per Kurtz, lo spietato commerciante d’avorio di Cuore di tenebra di Conrad, il nostro dominio brutale è infine suicida: affondando il coltello nel cuore di tenebra della biosfera, rischiamo di solo finire moribondi a balbettare “l’orrore, l’orrore” senza neanche capire cosa abbiamo fatto. Anche se in realtà almeno alcuni lo hanno compreso: che il sorgere sempre più frequente di nuove pandemie sia una conseguenza diretta dello sfruttamento ambientale ormai è un dato di fatto, accertato ripetutamente dalla comunità scientifica.
Nell’aprile 2022 un modello pubblicato su Nature ha previsto che il riscaldamento globale – che è solo uno degli stress che stiamo imponendo all’ambiente, anche se è quello di cui parliamo di più – da solo potrebbe causare 4000 eventi di spillover, contatti di virus animali che passano all’essere umano. Perfino il turismo occidentale ha il suo ruolo: come racconta Stefania Leopardi ne L’innocenza del pipistrello, l’epidemia di virus Marburg del 1987 in Kenya è partita da un quindicenne danese in visita alla grotta di Kitum, mentre lo stesso virus nel 2008 fa capolino in Europa grazie a un turista olandese di ritorno dall’Uganda.
Davanti ai rischi globali, perfino quando colpiscono l’Occidente, oggi prevale una sorta di versione collettiva di quella ansia e impotenza che è alla base della depressione.
Deve essere così? Non necessariamente, o almeno non del tutto. Come abbiamo visto, il potere globale che ora ci sta portando a contatto con virus vecchi e nuovi è in qualche modo lo stesso che ci ha consentito di eradicare uno dei più atroci flagelli dell’umanità, e che ci sta portando a eliminarne altri, come la poliomielite. Lo ha fatto, anche qui, a volte con la logica del “fardello dell’uomo bianco”, usando coercizione e violenza in alcuni casi; in generale tutto il modo in cui l’Occidente interviene sulle epidemie in Africa è permeato da questa logica. Ma al di là di questo, l’eradicazione del vaiolo ci ha insegnato che i virus non sono inarrestabili. Oggi inoltre abbiamo un’idea di come agire a un livello più ampio e generale rispetto alle “semplici” campagne di vaccinazione. L’approccio One Health dell’OMS aspira a includere, nella prevenzione e lotta a epidemie e pandemie, anche la conservazione degli ambienti e della biosfera, cruciali per ridurre la probabilità di spillover dei patogeni presenti e futuri.
Ciò nonostante davanti ai rischi globali, perfino quando colpiscono l’Occidente, oggi prevale una sorta di versione collettiva di quella ansia e impotenza – learned helplessness – che è alla base della depressione. Dopo due anni di fronte alla pandemia ci siamo praticamente arresi, e sembra che davanti al vaiolo delle scimmie stiamo reagendo lentamente e con fastidio, più che con prontezza. Reagire a minacce globali come le pandemie o la crisi ecologica sembra, semplicemente, incompatibile col nostro modello di esistenza: richiede di guardare in faccia la realtà e agire globalmente in modo coordinato. Il sospetto invece è che continueremo a negare la crisi, pur di non cambiare rotta. Il principale dramma del vaiolo delle scimmie non è tanto la malattia in sé, ma la possibile conferma che, nonostante due anni e mezzo di pandemia, la civiltà umana abbia disimparato a proteggere sé stessa.