L e prime immagini diffuse in questi giorni dal James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale più grande, potente e costoso mai costruito, raccontano di ammassi di galassie lontane e incalcolabili, nebulose che affiorano come terre emerse dallo spazio profondo, stelle a migliaia di parsec contornate da anelli di polvere spaziale. È certamente l’alba di una nuova era di osservazioni scientifiche, che permetteranno di studiare meglio la dinamica, la composizione e l’evoluzione dell’universo. Eppure non c’è bisogno di allontanarsi miliardi di anni luce per incontrare uno dei più grandi misteri che il cosmo ancora custodisce: il Sole, la stella a noi più vicina, ma non per questo la più avvicinabile e facile da studiare. Per svelarne gli ultimi segreti, una nuova generazione di missioni spaziali dedicate è oggi in esplorazione, e già promette di stravolgerne la comprensione.
Lo scorso 26 marzo, ad esempio, la sonda Solar Orbiter ha sorvolato Mercurio ed è scesa sopra il Sole a un’altezza record di 48 milioni di chilometri, a circa un terzo della distanza che la separa dal nostro pianeta. Proprio lì, dove il calore fonde i cavi metallici e le radiazioni mandano in tilt i sensori, il velivolo spaziale ha scattato alcune immagini senza precedenti della superficie solare. È come se lanciandolo verso l’alto avessimo spedito Solar Orbiter dritto all’inferno, affinché il suo occhio artificiale potesse mostrarci esattamente cosa succede laggiù, tra i più minuti dettagli del più grande corpo del sistema solare.
Visto così da vicino, il Sole non ricorda affatto il disco arancione che tramonta romanticamente all’orizzonte, né il placido cerchio giallo con la corona di raggi che i bambini imparano presto a disegnare. Sembra piuttosto un immenso ordigno ormai sul punto di esplodere: crepe fiammeggianti ne scortecciano la superficie in una trama granulosa dalle cui fessure sgorgano geyser di fuoco, fiotti di radiazioni e faville, mentre pennacchi di energia lunghi decine di migliaia di chilometri erompono nello spazio esterno disegnando superbe volute. Tutto ribolle, tutto appare tremendamente instabile e critico, precario. Sembra di assistere all’apoteosi che precede il grande scoppio, eppure è soltanto un’impressione, perché il Sole è in verità una stella troppo modesta per deflagrare in una supernova. Dopo che avrà esaurito il combustibile e si sarà gonfiato in una gigante rossa che potrebbe inglobare la nostra orbita, si libererà dei suoi strati più esterni e non potrà che collassare in una nana bianca, per estinguersi infine in una nana nera d’inconcepibile densità. Senza dubbio noi umani non assisteremo comunque allo spettacolo, maestoso e terribile, del Sole che si spegne: già tra un miliardo di anni la stella attorno cui ruotiamo sarà così luminosa e incandescente da prosciugare gli oceani e spazzare via lo scudo magnetico terrestre, rendendo impossibile la continuazione della vita su questo pianeta.
Il Sole è la stella a noi più vicina, ma non per questo la più avvicinabile e facile da studiare.
Per noi che lo guardiamo dalla Terra, il Sole è la stella inestinguibile che da sempre ci rifornisce di luce calore energia, con una clemenza che al tempo ci rassicura e ci inquieta: tutta la vita su questo pianeta non è che un riflesso della sua apparente affidabilità, a cui la nostra sopravvivenza è legata a doppio filo. I popoli antichi furono profondamente suggestionati dalla incommensurabile potenza del Sole e lo venerarono perciò come una divinità dal carattere mutevole e ambivalente, un dio benevolo e crudele che può dare la vita oppure toglierla. Dal Sole intere civiltà hanno tratto le proprie mitologie, i principi astrologici di buon governo, la misura del tempo nei calendari. La sovranità politica e il prestigio sociale accordati alle classi dominanti hanno obbedito per millenni alla simbologia dei culti solari.
Oggi che non lo osserviamo più con la lente del mito, il Sole rimane soprattutto un grande mistero scientifico. Le missioni spaziali che in anni recenti hanno tentato di protendersi verso il Sole sono andate incontro a enormi difficoltà operative, come racconta Paolo Ferri, fisico teorico per trentasette anni al centro di controllo dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), nel suo Il lato oscuro del sole. L’esplorazione spaziale della nostra stella (Laterza, 2022). Scrive Ferri:
Le missioni spaziali si stanno spingendo a osservare il Sole da vicino a distanze impensabili fino a pochi anni fa. Con le missioni attuali forse abbiamo raggiunto il limite della tecnologia esistente, ma certamente siamo ancora all’inizio di una rivoluzione scientifica straordinaria, che ci porterà a capire non soltanto la nostra stella, ma anche e soprattutto la sua influenza sul nostro pianeta e sulla nostra vita.
Lo studio empirico del Sole ebbe inizio già nell’antichità, a occhio nudo qui dalla Terra, in osservatori megalitici che come Stonehenge combinavano interessi astronomici a quelli astrologici. A colpire i primi studiosi egiziani, arabi, cinesi e greci furono la regolarità dei moti celesti e la rarità di alcuni fenomeni atipici, come le eclissi. Il più influente tra gli astronomi antichi, Tolomeo, formalizzò nel primo secolo dopo Cristo un modello geocentrico del sistema solare che rimase in vigore fino al Rinascimento, quando venne soppiantato dal modello eliocentrico di Niccolò Copernico, dalle leggi sul moto dei pianeti di Giovanni Keplero e dai punti di oscillazione gravitazionale di Joseph-Louis Lagrange. Fu una svolta radicale, la rivoluzione scientifica per eccellenza, sovversiva al punto che altri sviluppi davvero significativi della scienza del Sole arrivarono solo molto più tardi, coi primi studi spettroscopici dell’Harvard College Observatory a confermarne definitivamente la natura stellare e coi satelliti del progetto Orbiting Solar Observatory, lanciati dalla NASA tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso per studiarlo direttamente dall’orbita terrestre.
Da allora, racconta ancora Ferri, le esplorazioni spaziali targate ESA e NASA con il Sole come obiettivo scientifico si sono succedute a gran ritmo, misurandosi alternativamente con l’eccesso o con l’insufficienza di luce e calore, a seconda della direzione di rotta rispetto al centro del sistema solare. Alcune missioni, come Voyager e Rosetta, sono state ad esempio progettate per allontanarsi fino a un miliardo di chilometri di distanza dalla nostra stella, in ambienti impervi e inospitali, dove i serbatoi di idrazina possono congelare e non c’è più un barlume di luce a illuminare i pannelli solari che alimentano le sonde. Soho venne al contrario posizionata sul cosiddetto punto di Lagrange L1, ovvero in equilibrio gravitazionale tra il Sole e la Terra, per direzionare un osservatorio permanente sulla faccia visibile della nostra stella, mentre i satelliti di Cluster furono lanciati in formazione al fine di studiare l’interazione Sole-Terra in modo tridimensionale. A Ulysses toccò invece per prima di uscire dal piano dell’eclittica dove orbitano tutti i pianeti del sistema solare, per cimentarsi in rotte di navigazione ancora inesplorate al di sopra dei poli della stella.
Verso la frontiera solare interna, in direzione di Venere e Mercurio, si sono poi mosse Venus Express e BepiColombo: addentrandosi nell’eliosfera trincerate dietro a scudi termici stratificati, le due sonde affrontano un ambiente aggressivo e ostile, sotto la sferza di un flusso incessante di calore e radiazioni che aumenta esponenzialmente al diminuire della distanza dal Sole. Le due missioni più ardite oggi in volo per l’osservazione ravvicinata della nostra stella sono però Solar Orbiter e Parker Solar Probe: dopo il passaggio record dello scorso 26 marzo, Solar Orbiter si spingerà ancora più giù, per fotografare il Sole a 42 milioni di chilometri di distanza, mentre Parker Solar Probe si tufferà direttamente nell’atmosfera solare calandosi a sei chilometri dalla superficie della stella, senza telecamere né sensori troppo delicati, per studiarne la composizione.
“È un periodo esaltante per la scienza del Sole”, commenta Ferri ricordando le enormi sfide tecnologiche e i grattacapi scientifici che ognuna di queste avventurose esplorazioni solari ha comportato per il controllo missioni – l’équipe di fisici, ingegneri e tecnici incaricata di programmare, far funzionare e pilotare dalla Terra i veicoli spaziali. Prima fra queste asperità, il fatto che è impossibile lanciarsi in linea retta verso il Sole: le sonde escono nello spazio esterno alla velocità orbitale della Terra, intorno a 30 chilometri al secondo, e debbono perciò sfruttare la gravità degli altri pianeti per perdere energia, rallentare e digradare progressivamente verso il Sole, compensando la velocità di caduta gravitazionale coi propri sistemi di propulsione. È una rischiosa e snervante danza intorno alla stella e ai suoi satelliti, complicata dalla radiazione solare di particelle cariche che può disturbare l’elettronica di bordo e far perdere in ogni momento il contatto radio con la sonda. Il Sole non perdona errori, spiega Ferri: per volare nello spazio bisogna gioco forza imparare a convivere con la sua presenza scomoda e dominante, oppure con la sua spaventosa assenza.
Al netto delle sfide di volo, è bastato solo un trentennio di osservazioni dallo spazio per stravolgere la nostra comprensione del Sole, dalle teorie sulla sua origine sino alle ipotesi intorno al suo spegnimento, previsto tra circa cinque miliardi di anni. Si dice spesso che senza il Sole non ci sarebbe la vita, ma sarebbe più corretto sostenere che non esisterebbe neppure la Terra. Già Kant aveva ipotizzato che tutti i corpi del sistema solare si fossero formati a partire da un materiale comune ed elementare, che oggi sappiamo essere una nube primordiale di polvere e gas. Quattro miliardi e mezzo di anni fa quella nube collassò sotto la propria stessa gravità, forse per via dell’onda d’urto di una supernova esplosa nelle vicinanze, e formò una protostella attorno alla quale il materiale residuo prese a vorticare furiosamente, addensandosi col tempo negli otto pianeti del sistema solare – quattro piccoli pianeti rocciosi in gravitazione nei pressi del Sole, e quattro giganti gassosi più lontani.
Secondo questo modello astronomico ormai classico, noto come teoria dell’accrescimento di ciottoli, dapprima si formò un “disco protoplanetario” in orbita attorno al Sole primordiale, poi dei “planetesimi”, embrioni di pianeti che un po’ alla volta incorporarono il materiale in circolazione, come dune di sabbia accumulate dal vento. Nella variante del modello di Nizza, ad oggi tra i più accreditati, i primi a formarsi furono i grandi pianeti gassosi che successivamente migrarono verso l’esterno, lasciando l’orbita interna ai più giovani pianeti rocciosi. L’osservazione astronomica di altri sistemi stellari in via di formazione ha però recentemente messo in discussione la teoria del disco protoplanetario, con la controversia sulla formazione dei pianeti solari che rimane tuttora aperta.
Il Sole non perdona errori: per volare nello spazio le missioni devono gioco forza imparare a convivere con la sua presenza scomoda e dominante, oppure con la sua spaventosa assenza.
Ma lo studio spaziale della nostra stella non ha rivoluzionato soltanto l’archeologia del sistema solare. Abbiamo per esempio compreso meglio come l’attività nel suo nucleo più interno, sepolto sotto centinaia di migliaia di chilometri di plasma, influenzi i fenomeni osservabili in superficie. Anche se è costituito quasi esclusivamente di idrogeno, il più leggero tra tutti gli atomi, il Sole concentra da sé il 99,8% della massa dell’intero sistema solare. Le condizioni estreme di densità, pressione e temperatura all’interno della stella agitano e comprimono gli atomi al punto tale da innescare reazioni a catena di fusione: i nuclei dell’idrogeno vincono la repulsione reciproca, si combinano in atomi di elio e liberano energia in uscita sotto forma di luce e calore. Questo fa del Sole una gigantesca fornace termonucleare, una sorta di laboratorio con esperimenti in spazio aperto sulla fisica del plasma. La stella fonde infatti 600 milioni di tonnellate di idrogeno al secondo, controbilanciando così la forza di gravità che altrimenti la farebbe collassare su se stessa. “Finché ci sarà idrogeno da bruciare”, spiega Ferri, “la nostra stella rimarrà in questo stato di equilibrio e continuerà a produrre l’energia che, trasportata verso l’esterno in forma di radiazione, raggiunge la Terra ed è necessaria per la vita sul nostro pianeta”.
Come osserva la ricercatrice in fisica solare Lucie Green nel suo Viaggio al centro del Sole. Storia e segreti della nostra stella (Il Saggiatore, 2018), dalla Terra l’astro del giorno ci appare mite e inoffensivo, ma in verità le reazioni di fusione dell’idrogeno che avvengono nel nucleo ne scuotono la superficie come fossero degli eventi sismici, rendendo il Sole una stella tutt’altro che tranquilla. Ogni singolo fotone prodotto dalle reazioni nucleari di fusione impiega fino a 170 mila anni per affiorare dalla superficie solare, carico di calore ed energia cinetica, e di lì gli sono necessari poco più di 8 minuti per raggiungere la crosta terrestre. Grazie a Soho abbiamo scoperto poi che il nucleo del Sole ruota più rapidamente degli strati esterni, l’equatore più dei poli, e questo fa sì che il suo campo magnetico si attorcigli in un reticolo filamentoso. Dalle torsioni esercitate dal campo magnetico dipende così la comparsa delle macchie solari che si aprono come voragini larghe quanto la Terra sullo strato esterno della stella, in un numero che oscilla secondo un periodo di undici anni.
La superficie del Sole ribolle poi incessantemente di fenomeni meteorologici estremi: tempeste di particelle cariche, espulsioni di massa coronale che corrispondono alla versione solare di un uragano terrestre, tsunami di materia ed energia ribattezzate dagli scienziati starquakes, “terremoti stellari”. E poi spicule e raggi cosmici che vincono l’immane campo gravitazionale solare e si gettano oltre la cromosfera, eruzioni crepitanti di plasma e burrascosi brillamenti, esplosioni elettromagnetiche pari per potenza alla detonazione di 170 milioni di bombe atomiche. Il sole ci spara letteralmente addosso la sua energia, avverte Green, riempiendo lo spazio interplanetario di particelle cariche e campi magnetici che inondano la Terra e si estendono oltre ad essa per altri 18 miliardi di chilometri, fino alla soglia siderale del termination shock. È lì che finisce l’atmosfera solare, in cui noi terrestri ci ritroviamo letteralmente immersi: si tratta di un privilegio e di una condanna assieme, perché i venti solari interferiscono direttamente con la magnetosfera terrestre, il guscio magnetico protettivo in assenza del quale il Sole incenerirebbe ogni forma di vita su questo pianeta.
Le particelle cariche e le radiazioni con cui la nostra stella ci bombarda vengono infatti deviate dal campo magnetico terrestre, che ai poli si incurva in una sorta di imbuto concavo dal quale il vento solare riesce in parte a penetrare, dissipandosi nelle aurore boreali. Nel periodo di massima intensità del ciclo solare, però, i brillamenti e le espulsioni di massa coronale più intensi possono suscitare venti energetici così potenti da bucare lo schermo magnetico della Terra anche a latitudini più basse: successe ad esempio nel 1859 con l’evento di Carrington, la più violenta tempesta geomagnetica mai osservata dagli astronomi. Le aurore boreali tinsero i cieli da Roma ai Caraibi, le bussole impazzirono e le linee telegrafiche rimasero interrotte per molte ore. Tempeste solari più deboli si registrarono poi nel 1921 e di nuovo nel 1989, causando temporanei blackout locali, ma per gli esperti del settore è chiaro che un episodio della portata dell’evento di Carrington potrebbe verificarsi da un momento all’altro, cogliendo impreparata un’umanità ormai del tutto dipendente dalle infrastrutture elettriche, informatiche e satellitari.
Una tempesta geomagnetica di quelle dimensioni impregnerebbe di raggi X la ionosfera terrestre dove scorrono di norma i segnali radio, facendo perdere il contatto con tutti o quasi i sistemi di navigazione satellitare. Internet si oscurerebbe, telefoni cellulari e GPS perderebbero di ricezione, le transazioni bancarie si bloccherebbero e tutti gli aerei in volo sarebbero costretti a un atterraggio di emergenza. Per una bizzarra proprietà fisica dell’elettromagnetismo, l’elettricità che scorre nell’atmosfera inizierebbe a indurre scariche elettriche direttamente sulla superficie terrestre, trovando nella rete elettrica uno dei percorsi con minore resistenza. Un tale afflusso di corrente continua fonderebbe la maggior parte dei trasformatori, progettati un tempo per sostenere soltanto corrente alternata, esitando in prolungati blackout da una costa all’altra di interi continenti. Sarebbero giorni sconvolgenti e drammatici per l’umanità.
Proprio per questo, in anni recenti le sonde spaziali puntate stabilmente verso il Sole hanno portato alla nascita di una nuova scienza, la meteorologia spaziale, incaricata appunto di studiare l’interazione tra i fenomeni osservati sulla superficie solare e le alterazioni della magnetosfera terrestre. Ancora più ambiziosamente, la meteorologia spaziale si pone l’obiettivo di prevedere le tempeste geomagnetiche, per prendere le dovute precauzioni e attenuare in qualche modo l’impatto sulle infrastrutture terrestri. Già oggi osservatori permanenti sulla faccia esposta del Sole come Soho e Deep Space Climate Observatory consentono di anticipare questi eventi catastrofici di circa un’ora prima che accadano. Nei prossimi anni, sonde sentinella come Vigil e Lagrange dell’ESA andranno invece a collocarsi nel punto di Lagrange L5, in una posizione privilegiata che permetterà agli scienziati di osservare la superficie del Sole prima che ruoti verso la Terra, così da lanciare l’allarme con ulteriore anticipo. “Capire il Sole ci può portare a capire il nostro pianeta”, commenta al riguardo Ferri, “e magari anche a prevedere evoluzioni future che lo potrebbero cambiare radicalmente”.
Eppure, nonostante decenni di missioni dedicate e di dati raccolti dallo spazio, il Sole rimane per noi largamente sconosciuto. La frequenza delle macchie solari varia lungo un ciclo di undici anni, il campo magnetico si inverte ogni ventidue, ma gli scienziati non hanno idea del perché ciò accada. La stella ha poi diversi periodi di rotazione, per cui il giorno solare varia a seconda della latitudine: equivale a 25 giorni terrestri all’equatore e a 36 ai poli, come se il tempo solare scorresse a velocità differenti. C’è poi il paradosso della temperatura del Sole, che raggiunge i 15 milioni di gradi nel nucleo, scende a 5.500 sulla superficie, e poi sale illogicamente a 1 o 2 milioni sulla corona: dev’esserci qualcosa che scalda l’atmosfera solare, forse il campo magnetico stesso o i falò che ardono sulla superficie, ma per ora si tratta di mere congetture. “Non sappiamo prevedere come evolverà l’attività solare”, aggiunge Ferri, “non capiamo perché recentemente sembra essersi ridotta”. Osserviamo i fenomeni che fervono sulla superficie senza sapere cosa li regoli nel profondo. Malgrado gli sforzi scientifici e tecnologici, l’astro del giorno continua a precluderci molti dei suoi numerosi segreti.
Il Sole è una gigantesca fornace termonucleare, una sorta di laboratorio con esperimenti in spazio aperto sulla fisica del plasma.
La comunità scientifica non nasconde invece che risolvere gli enigmi del Sole potrebbe aiutarci a individuare altre zone abitabili dello spazio, su pianeti sufficientemente vicini a una stella da ricevere luce ed energia e al tempo stesso abbastanza lontani da conservare acqua allo stato liquido. È stata infatti l’interazione primordiale tra energia solare e acqua terrestre a rendere possibile la vita su questo pianeta: una combinazione arcana e provvidenziale tra due elementi opposti e complementari. L’ambizione neanche troppo celata dell’astrobiologia è infatti quella di scovare esopianeti “gemelli” della Terra, magari colonizzabili quando le condizioni diverranno qui invivibili, ma per localizzarli serve prima di tutto trovare una stella che sia quanto più simile al Sole. Per ora rimaniamo intrappolati su questo pianeta assolato, irradiati dall’energia di una stella propizia che abbiamo appena cominciato a conoscere.