I Il 10 luglio 1925 John Scopes fa il suo ingresso nell’aula del tribunale di Dayton, Tennessee. È un giovane insegnante originario del Kentucky, dove tra l’altro ha studiato legge. Si trova lì perché durante una supplenza di biologia nella scuola del paese ha violato il Butler Act, la legge statale che proibisce l’insegnamento dell’evoluzionismo, ossia “qualsiasi teoria che negasse la storia della creazione divina dell’uomo come insegnata nella Bibbia, per insegnare invece la discendenza dell’uomo da un ordine inferiore di animali”. Il ragazzo è insomma accusato di aver spiegato ai suoi allievi che la specie umana discende dalla scimmia, contraddicendo la tesi biblica sull’origine divina dell’uomo.
Il processo delle scimmie
Dayton, dicevamo. Una piccolissima cittadina della Bible Belt, l’area più conservatrice degli Stati Uniti sudorientali, che di punto in bianco, in quel luglio arroventato, vede centinaia di persone accorrere da ogni dove per assistere allo Scopes Monkey Trial, il Processo delle scimmie. Lungo la strada principale i predicatori allestiscono tendoni coperti di manifesti contro la propaganda evoluzionista. Arrivano i rappresentanti delle associazioni laiche che sostengono Scopes. Le penne più acute del paese sono presenti in aula, pronte a riempire le prime pagine dei giornali e i libri di storia.
È chiaro che in ballo c’è qualcosa di più importante della violazione del Butler Act da parte di un professore ventiquattrenne. A scontrarsi sono due visioni del mondo: da una parte il principio fondamentale della fede protestante espresso nel rapporto letterale con le Sacre Scritture; dall’altra la necessità di far dialogare le Scritture con le discipline moderne, dunque la teologia liberale. In mezzo sta niente meno che l’anima dell’America, le sue viscere, e infatti la questione viene subito affidata a due titani del foro come Clarence Darrow e William Jennings Bryan, il primo un noto penalista agnostico membro dell’American Civil Liberties Union (ACLU); il secondo addirittura un ex candidato presidenziale, pio presbiteriano della componente populista del partito democratico, convinto che la vittoria dell’evoluzionismo costituirebbe un autentico scacco alla cristianità.
Il climax del processo (brillantemente ricostruito in una scena di Inherit The Wind di Stanley Kramer, 1960) si raggiunge il 20 luglio, quando Darrow chiama a testimoniare l’avvocato dell’accusa e lo interroga in merito alla letterarietà di alcuni episodi della Genesi. Il mondo è stato dunque creato in sei giorni? Come ha fatto Eva a nascere dalla costola di Adamo? La strategia di Darrow – passare gli episodi biblici al setaccio delle acquisizioni scientifiche – funziona. Bryan si ingarbuglia in affermazioni contraddittorie e dice che il suo avversario sta solo cercando di metterlo in ridicolo. In seguito i giornali parleranno di uno “sharp clash over Bible miracles” in cui Darrow sembra aver avuto la meglio; eppure a vincere il processo è proprio l’accusa guidata da Bryan. La giuria impiega appena nove minuti per deliberare: Scopes viene condannato al risarcimento minimo di 100 dollari, mentre il Butler Act resta in vigore fino al 1967.
Con il Processo delle scimmie il tema del valore letterale e normativo della Bibbia smette di essere soltanto una disputa teologica e diventa terreno di scontro politico.
Certo, per una decisione del genere nove minuti possono sembrare pochi, eppure a pensarci bene sono anche troppi. Nella Genesi c’è scritto che “Dio formò l’uomo dalla polvere della terra, gli insufflò nelle narici un alito di vita e l’uomo divenne anima vivente”. Ammettere che egli discenda in realtà da un primate significherebbe dare un’interpretazione non letteraria, diciamo metaforica, delle Scritture, il che, in ottica protestante, è teologicamente inammissibile. A differenza del cattolicesimo, che riconosce al Papa il ruolo di mediatore tra la Parola di Dio e i suoi fedeli, infatti, il protestantesimo professa il “libero esame” della Bibbia da parte del comune credente, che deve comprenderla senza bisogno di alcun intermediario a svelargli eventuali sofisticazioni interpretative cui non sia pervenuto tramite la propria coscienza. Il che significa, molto schiettamente, che se nella Genesi non si parla di scimmie, non bisogna parlarne neppure a scuola.
Il fondamentalismo dell’innocenza
A inizio Novecento, quest’affermazione di inerranza della Bibbia si trova in mezzo a un fuoco incrociato. A contestarla non ci sono più solo il darwinismo e le teorie razionaliste, ma anche discipline come l’archeologia moderna, che di fronte all’indimostrabilità dei fatti biblici inizia a promuoverne un’interpretazione critica. Non è che magari, si chiede qualcuno, anziché raccontare la creazione dell’uomo dal nulla, la Genesi intendeva raccontare il patto che Dio ha stretto con l’uomo e il suo desiderio di orientarlo lungo la storia?
Il tema è cogente, perché siamo in un contesto riformato in cui la centralità della parola è tutt’uno con l’identità. Sola scriptura, professava Lutero, il che significa “solo la Bibbia”. Ecco allora che questa presa di distanza dal testo sacro in chiave interpretativa mette in discussione il sistema di valori sui quali i Padri Fondatori hanno eretto la nazione stessa, ovvero il mito della “Città sulla collina” benedetta da Dio per illuminare il mondo con il suo esempio di cristianità. Contraddire i principi fondamentali di tale cristianità significa tradire la vocazione divina della civiltà americana, portando, in ultima analisi, non al fallimento del progetto del paese, ma a quello, ben più grave, del progetto di Dio. All’interno della Dichiarazione di Indipendenza, non a caso, si parla di un “Creatore”, di uomini che sono creati uguali, e questa è una realtà “auto-evidente” (“We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights”).
Per difendere i principi derivati da tale origine divina, già dal 1910 l’élite del movimento fondamentalista inizia a pubblicare una serie di opuscoli divulgativi sui capisaldi della fede, i Fundamentals. Qualche anno più tardi, è Curtis Lee Laws, editorialista di un periodico battista, a rendere popolare il lemma, applicando l’etichetta di “fondamentalisti” a quei teologi che si battono per i fondamentali della cristianità, come il fatto che Gesù sia figlio di Dio nato dalla Vergine, oppure che sia resuscitato per riscattare i peccati dell’uomo.
Contraddire i principi fondamentali di tale cristianità significa tradire la vocazione divina della civiltà americana, portando non al fallimento del progetto del paese, ma a quello, ben più grave, del progetto di Dio.
Contrariamente alla credenza più diffusa, insomma, il termine fondamentalismo per come lo intendiamo oggi non nasce in relazione a quell’Islam col quale, almeno dall’11 settembre, sembra formare un binomio inscindibile, bensì in seno agli Stati Uniti del Ventesimo secolo come reazione del protestantesimo più radicale all’introduzione del metodo storico-critico di analisi della Bibbia, quindi con la connotazione positiva di una rivendicazione di purezza. Solo più avanti il termine “fondamentalista” cambia segno nell’immaginario comune, finendo per essere applicato a tutti i sistemi di credenze religiose che riaffermano il letteralismo interpretativo per respingere il liberalismo politico, incluse naturalmente alcune manifestazioni dell’integralismo islamico.
Di fatto, con il Processo delle scimmie – uno dei primi grandi eventi mediatici della storia americana, trasmesso addirittura via radio – il tema del valore letterale e normativo della Bibbia smette di essere soltanto una disputa teologica e diventa terreno di scontro politico. Inizia a crearsi la grande frattura tra un protestantesimo più razionale e disponibile a un dialogo con la modernità e un intransigente protestantesimo “evangelical”, costituito da una costellazione frammentaria di fedeli accomunati dal principio dell’autorità esclusiva della Scrittura, che condividono l’esperienza di una conversione personale al Vangelo, la “nuova nascita” (sono i born-again Christian).
La causa fondamentalista, da allora, si sposta progressivamente verso la militanza, caricandosi di un proselitismo aggressivo e organizzato che sancirà la fine di quello che potremmo definire il “fondamentalismo dell’innocenza” dei primi creazionisti, sicuramente ingenuo dal punto di vista scientifico, ma che non implica una vera aggressione al sistema né ambisce ad esercitare un’influenza diretta sulla sfera politica.
Dopo il processo – una battaglia vinta, ma accompagnata dalla pubblica derisione – il fondamentalismo attraversa una prima fase di marginalità culturale, finché, intorno alla fine degli anni Settanta, si salda alla cosiddetta “destra religiosa” del partito repubblicano, in cui trova una casa politica e tramite la quale tenterà di sottomettere le norme pubbliche alla morale religiosa, trovando in Ronald Reagan il suo campione.
Minoranza politica, maggioranza morale
Zelensky non è stato il primo attore a diventare presidente e a trasferire sulla carica politica l’oratoria persuasiva messa a punto sul palcoscenico. Come Zelensky, Ronald Reagan, ex democratico passato alla destra repubblicana, prima di trionfare nel 1980 sul presidente uscente Jimmy Carter era stato un attore cinematografico. Sempre come Zelensky, anche il “Cowboy President” sapeva sfruttare pienamente i mezzi di comunicazione di massa del suo tempo (in questo caso siamo nel periodo del boom della tv) per rendere ancor più seducente una strategia comunicativa tutta costruita intorno alla narrativa dell’overcoming the monster, dove il mostro da vincere era sempre la Russia e il baluardo da sventolare quello della democrazia e dei valori tradizionali.
Il termine fondamentalismo nasce in seno agli Stati Uniti del Ventesimo secolo come reazione del protestantesimo più radicale all’introduzione del metodo storico-critico di analisi della Bibbia, quindi con la connotazione positiva di una rivendicazione di purezza.
Born-again Christian risvegliato a Dio, Reagan è fondamentale per capire la svolta in senso religioso-conservatore dell’America. Di fronte alla rivoluzione dei valori iniziata negli anni Sessanta e all’umiliazione del Vietnam, difatti, il nuovo presidente, seppur a colpi di battute e sorrisi hollywoodiani, si presenta come eroico difensore dei princìpi evangelici, ad esclusiva tutela di quella che in un discorso dell’83 chiama la “overwhelming majority of Americans”, che, secondo i sondaggi, disapprova una serie di peccati indentificati come “adultery, teenage sex, pornography, abortion, and hard drugs”. Un bel pezzo prima di Trump, è lui ad annunciare di voler riportare il paese ai vecchi fasti al suono di “Let’s make America great again”, conquistando gran parte dell’opinione pubblica, che vede in lui le certezze a cui non vuol rinunciare e lo sostiene anche quando taglia la spesa pubblica, allenta i programmi contro le discriminazioni sessuali o porta le spese militari a livelli altissimi in ottica antisovietica.
Attorno alla sua figura, non a caso, si coagula la prima associazione politica della destra cristiana che si affaccia sullo spazio pubblico americano, la Moral Majority, organismo “pro-family and pro-American”, troppo estremista per pensare di affermarsi come maggioranza politica, ma intenzionato ad esplicitare sin dal nome la sua superiorità sul piano morale, dove si autodefinisce, appunto, “maggioranza”. La tutela della famiglia tradizionale – quindi l’opposizione al femminismo, all’omosessualità e più di ogni altra cosa all’aborto – saranno individuati dalla Moral Majority come temi unificanti per costruire un movimento nazionale di ritorno ai fundamentals, da inserire nella “moral agenda” di Mr. Reagan.
Quello che dal punto di vista europeo può sembrare un fatto banale – il formarsi di un’associazione cristiana con scopi politici – è in realtà un fatto clamoroso se si considera che gli Stati Uniti si presentano come la nazione separatista per eccellenza. Lo stabilisce, nel 1791, il Primo Emendamento della Costituzione, che proclama la libertà religiosa a garanzia di quello che Thomas Jefferson definiva un “muro di separazione” tra stato e chiesa. D’altronde, si tratta di un documento redatto all’alba della rottura con quell’Inghilterra che nel Seicento aveva perseguitato i dissenters puritani spingendoli verso il Nuovo Mondo, perciò non sorprende che i loro eredi abbiano sentito il bisogno di prendere qualche precauzione. Quel pluralismo religioso che, almeno sulla carta, impedisce allo Stato di privilegiare una specifica religione avrebbe anche lo scopo di favorire una convivenza pacifica tra le molteplici confessioni che compongono la nazione e che trovano uno loro spazio nella bandiera a stelle e strisce, sotto la quale ci si sente “One Nation under God”.
La volontà di un’ingerenza nei processi politici da parte di un’organizzazione cristiana come la Moral Majority, allora, va interpretata come uno dei primi tentativi strutturati della destra conservatrice e fondamentalista di esercitare un monopolio su quella che Robert Bellah, riprendendo un concetto di Rousseau, chiama “religione civile americana”, ossia quella serie di simboli e pratiche rituali collettive (come appunto il giuramento alla bandiera) che trascendono le divisioni religiose in virtù di una più ampia identità nazionale.
Il formarsi di un’associazione cristiana con scopi politici è un fatto clamoroso se si considera che gli Stati Uniti si presentano come la nazione separatista per eccellenza.
Nonostante tale tentativo, ad ogni modo, la Moral Majority degli anni Ottanta funge più che altro da “consigliera del principe” Reagan, vero animatore – lui sì – della rivoluzione conservatrice del paese. Chi ambirà invece a trasformarsi direttamente in organizzazione di massa sarà l’ancor più agguerrita Christian Coalition, “a political organization, made up of pro-family Americans”. Nata attraverso una serie di trasformazioni dalle ceneri della Moral Majority che si era esaurita con la fine della presidenza Reagan, questa nuova lobby della destra cristiana intende scalare il partito repubblicano dal basso a partire dalle amministrazioni locali, quindi operare la rigenerazione cristiana della nazione riorganizzando scuola, famiglia e comunità attraverso una partecipazione attiva al processo di law-making. Una contraddizione aperta e ufficiale del principio di separazione stato-chiesa.
È un progetto ambizioso e un successo a metà, almeno fino a quel momento. La destra religiosa riesce in effetti a penetrare nel governo di molti stati repubblicani, ma le elezioni presidenziali del 1992 portano alla Casa Bianca un progressista liberal come Clinton, espressione peggiore dell’America avversata dai fondamentalisti e presto assurto a simbolo della corruzione dei costumi, con un picco di veemenza all’altezza dello scandalo Lewinsky.
Per la destra cristiana si tratta solo di una battuta d’arresto (che infatti è ripartita alla grande, basti pensare a quanto appena accaduto con il clamoroso ribaltamento della sentenza Roe v. Wade sull’aborto). La legittimazione di una faith-based politics ad opera di Reagan, difatti, ha ormai innescato uno slittamento dello zeitgeist americano verso una vera e propria “sacralizzazione della politica”, che sempre più spesso, da allora, dichiarerà di agire “in nome di Dio”.
Nel mentre, iniziano a manifestarsi i primi segnali di risentimento nei confronti della politica statunitense in Medio Oriente e della permanenza dei militari americani in Arabia Saudita dopo la Guerra del Golfo; guerra i cui strascichi si prolungheranno per dieci anni, fino alle 8,46 dell’11 settembre 2001.
L’America minacciata
“The United States bestrides the globe like a colossus”, si legge sul The Economist nell’ottobre del ’99. “Gli Stati Uniti dominano il mondo come un colosso”. L’economia è la più forte al mondo, così come il business e le comunicazioni, mentre l’apparato militare non ha rivali. Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, insomma, gli Stati Uniti sono l’incontrastata superpotenza planetaria, a conferma che il “destino manifesto” di popolo eletto da Dio per insegnare al mondo la democrazia non è solo un mito, ma una realtà in costruzione. Un sentimento di invincibilità destinato a subire un colpo durissimo, che spingerà la nazione auto percepitasi come esempio di civiltà a ritenersi autorizzata, in virtù della stessa logica, a colpire preventivamente per difendere la propria missione divina.
Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono l’incontrastata superpotenza planetaria, a conferma che il “destino manifesto” di popolo eletto da Dio per insegnare al mondo la democrazia non è solo un mito, ma una realtà in costruzione.
Per lunghe ore, infatti, mentre il fumo nero copre il cielo di New York, gli americani restano senza alcuna spiegazione a illuminarli sulle ragioni dell’attentato che, all’inizio del terzo millennio, trasforma l’era dell’impero americano nell’era del terrore. Solo alle 20,30, quasi dodici ore dopo l’attacco alle torri gemelle del World Trade Center e al Pentagono, il presidente George W. Bush apre la diretta dallo Studio Ovale. Gli attacchi, dice, “sono atti di terrore” che vogliono colpire lo “stile di vita” e “la libertà” americani (sebbene si abbattano su simboli del potere economico e militare). Ciò che è successo, dunque, non va messo in relazione con niente di ciò che l’America può aver fatto per suscitare una tale reazione (i corpi militari in Medio Oriente, per dirne una), ma con ciò che l’America rappresenta. Il polo guidato dagli Stati Uniti, che incarna la giustizia e il bene (“all that is good and just in our world”), è ora contrapposto al polo della morte e del terrore, un male ontologico, satanico (“evil”). Al terrore, infatti, non all’Afghanistan, si dichiarerà guerra pochi giorni dopo, iniziando una serie di operazioni militari i cui nomi – “Infinite Justice”, “Enduring Freedom” – rimandano esplicitamente alla loro natura di crociate.
Un atto inusitato di violenza internazionale che si poteva leggere con le categorie laiche dell’attacco politico-militare viene raccontato secondo lo schema semplicistico e manicheo della lotta tra il Bene assoluto e il Male assoluto, giustificando un interventismo fondamentalista che negli anni successivi diventerà una prassi.
Altro born-again Christian che grazie all’aiuto divino è uscito dal tunnel dell’alcolismo, Bush è il pontefice perfetto di questa nuova teologia di guerra, nonché il leader di cui la destra religiosa ha bisogno per attuare la svolta rigeneratrice della nazione dopo gli anni scandalosi di Clinton. La lettura che dà dell’11 settembre, poi, conferma definitivamente questo sodalizio, rispecchiando le teorie apocalittiche secondo cui avvenimenti storici come l’insorgere del fondamentalismo islamico sono da intendersi come parte del piano di Dio, anticipato dalle profezie bibliche del libro dell’Apocalisse.
Secondo lo schema di questo “fondamentalismo apocalittico”, l’11 settembre corrisponde alla venuta dell’Anticristo, una delle tappe del cronogramma biblico e una conferma dell’avvicinarsi dell’Armageddon, lo scontro finale tra gli eserciti di Dio e Satana (il Bene e il Male) che segnerà il ritorno di Gesù, la fine del mondo e l’instaurazione del Regno di Dio. Naturalmente, ad accelerare questo piano attirando sul paese l’ira del Creatore sotto forma di aerei di linea Boeing, sono stati “pagani, abortisti, femministe, gay, lesbiche” e tutti coloro che hanno provato a “secolarizzare l’America” (come suggeriscono, a pochi giorni dall’attentato del 2001, i due celebri telepredicatori evangelici Jerry Falwell and Pat Robertson, fondatori rispettivamente della Moral Majority e della Christian Coalition). Oggi, sempre secondo la stessa prospettiva, a confermare l’approssimarsi dell’apocalisse sono eventi come il COVID-19 o i disastri climatici: non segnali d’allarme a cui rispondere con piani governativi a tutela della salute e dell’ambiente, ma conferme della letterarietà delle immagini dell’Apocalisse.
Un atto inusitato di violenza internazionale che si poteva leggere con le categorie laiche dell’attacco politico-militare viene raccontato secondo lo schema manicheo della lotta tra il Bene assoluto e il Male assoluto.
È chiaro che di fronte a una degenerazione così spinta dell’antico principio di letterarietà biblica i nostri creazionisti del Processo delle scimmie appaiono come ingenui e fantasiosi frequentatori di parrocchia. Quando, ad esempio, evoluzioni del fondamentalismo apocalittico come il sionismo cristiano – secondo cui la fondazione dello Stato di Israele è uno dei famosi segni del compimento delle profezie bibliche – arrivano a giustificare il sostegno militare alla destra israeliana più intransigente che rivendica il diritto alla terra, siamo letteralmente agli antipodi del fondamentalismo dell’innocenza. Religione e politica sono fuse nell’esercizio del potere: la politica è sacralizzata, la religione politicizzata, il principio separatista massimamente disatteso.
“La fine del mondo è una giostra perfetta”
No, non basta chiamarle “teorie apocalittiche” o “teorie del complotto”. Quelle di cui parliamo erano e sono credenze condivise da milioni di statunitensi. Secondo un sondaggio di Newsweek, alla fine del Ventesimo secolo il 40% degli americani è convinto che il mondo finirà con l’Armageddon biblico (motivo per cui l’11 settembre provoca un enorme risveglio spirituale); i libri sulla fine del mondo sono tra i più venduti in America, per non parlare di una black comedy apocalittica come Don’t Look Up (2021), tra i film più visti di sempre su Netflix.
Ma le implicazioni non si fermano qui. Come abbiamo visto, il problema di questo tipo di credenze è che la loro popolarità è cresciuta al punto infiltrarsi a più riprese nell’establishment governativo, dove è assurta a giustificazione di azioni strategiche che hanno conseguenze geopolitiche concrete, dalle cultural war al sostegno a Israele.
Si tratta di un meccanismo ciclico. Stavolta, dopo che Obama aveva tentato di cambiare segno alla lotta contro “l’asse del male” iniziata da Bush rifiutandosi di islamizzare il conflitto, è Donald Trump, eletto nel 2016, a raccogliere il testimone, determinando l’ennesima impennata del fenomeno fondamentalista.
Religione e politica sono fuse nell’esercizio del potere: la politica è sacralizzata, la religione politicizzata, il principio separatista massimamente disatteso.
Circondatosi di esponenti del movimento evangelical più estremo (qualcuno ricorderà le immagini apocalittiche evocate dalla sua consigliera spirituale Paula White) Trump dà vita a una speciale forma di nazionalismo religioso che il sociologo Philip Gorski, molto puntualmente, definisce “una miscela tossica di religione apocalittica e zelo imperiale che immagina gli Stati Uniti come una nazione retta investita del compito divino di liberare il mondo dal male”. A differenza di Bush, Trump non è animato da una fede profonda, ma ciò non gli impedisce di fare tutto ciò che è in suo potere per intercettare i voti della destra religiosa. Come Bush (e Reagan), anche lui porta avanti la retorica della “Città sulla collina” declinandola in chiave suprematista (“Our rights come from God almighty, and they can never be taken away” dice in una conferenza a Washington D.C.: i nostri diritti vengono da Dio, non potranno mai esserci tolti).
Più di ogni altra cosa, però, Trump è abile nel cavalcare il malcontento che attraversa l’America bianca e conservatrice. La politica anti-immigratoria, maschilista, razzista e pro-life del presidente ribelle che in piena pandemia incita i cittadini a liberarsi del giogo del distanziamento sociale, gli accorda infatti il consenso della destra cristiana che si percepisce ancora come maggioranza morale minacciata, ora galvanizzata dal fatto che ci sia qualcuno in grado di portare il suo risentimento alla Casa Bianca.
La minaccia, naturalmente, non arriva dal turbocapitalismo che ha devastato il tessuto sociale del paese, ma da chiunque metta in dubbio un’American way of life fondato sulla supremazia dei bianchi protestanti: prima gli afroamericani e le donne che sin dagli anni Sessanta manifestano per la parità dei diritti (e ancora oggi la fanno tanto lunga per un George Floyd morto ammazzato); ora addirittura gli immigrati, i musulmani, chiunque voglia una fetta di American dream o abbia uno stralcio di idea progressista. Insomma, la nuova Moral Majority che si sente espropriata dei diritti derivanti dalla propria estrazione sociale ed etnica.
Manipolare la paura
Riavvolgendo la storia, si intuisce che il timore dell’alterità è il vero leitmotiv del fondamentalismo cristiano sin dal suo esordio. Sottrarsi a un confronto critico col testo biblico, dopo tutto, tradisce una sfiducia verso il dibattito con l’altro, e in ultima analisi un rifiuto del suo punto di vista, del suo desiderio di partecipare alla costruzione dell’identità del paese.
Riavvolgendo la storia, si intuisce che il timore dell’alterità è il vero leitmotiv del fondamentalismo cristiano sin dal suo esordio.
Con la presidenza di Biden siamo alla fine di un nuovo ciclo nella storia del fondamentalismo, ma certamente non al termine della sua parabola. Agli estremisti del futuro, infatti, Trump lascia in eredità un nazionalismo cristiano pieno di un risentimento disordinato, pronto ad esplodere alla prima occasione.
Di fronte al progresso inarrestabile che minaccia una civiltà che si crede statuita da Dio, il dogma religioso, oggi come negli anni Venti, appare ancora l’unico punto fermo, il solo rifugio identitario in cui proteggersi dall’assedio di una cultura ormai globalizzata e alienante, piena di confusione, da una malattia che ha infettato il mondo e da una guerra che rischia di metterlo in ginocchio, riducendo il caos a categorie comprensibili e non ambigue, il Bene e il Male. In questo modo il conservatorismo religioso diventa l’ultimo baluardo dell’ordine costituito, e la fazione politica che lo rappresenta è legittimata a fare qualunque cosa per proteggerlo dall’Apocalisse del futuro.
In un momento storico in cui la comprensione della realtà è resa ancor più difficile da una comunicazione pervasiva che rende difficile orientarsi tra i fatti, il fondamentalismo, con la sua capacità di polarizzare l’opinione pubblica e silenziare il pluralismo, rischia di apparire ancora una volta come il porto sicuro in cui evitare di sentirsi persi o dove trovare un capro espiatorio per la propria ansia.