S ono nata nella metà degli anni Ottanta e come molte ragazze della mia generazione, non ho avuto una vera e propria educazione sessuale. Provengo da una famiglia abbastanza aperta, eppure riconosco che è stato difficile per loro affrontare il discorso sulla sessualità. Ripercorrendo a posteriori queste tappe, è evidente come i miei genitori mi abbiano fornito i primi indispensabili rudimenti per poi delegare tutto ad altre fonti. Mentre le mie amiche compravano di nascosto copie di Top Girl, Cioè e Cosmopolitan, a me arrivano senza che le chiedessi ogni venerdì, quando mia mamma andava in edicola per la scorta settimanale di riviste. Evidentemente era convinta che tra quelle pagine avrei trovato risposte a domande che, tra l’altro, in quel momento nemmeno mi ponevo. Le domande che le lettrici inviano alla rivista erano tutti sulla stessa lunghezza d’onda: come si fa a capire se il partner vuole avere un rapporto? Cosa gli si può concedere al primo appuntamento? Come si rifiuta garbatamente un’avance?
Le adolescenti di oggi sono certamente facilitate: in questi ultimi anni sono molti i prodotti editoriali dedicati a esplorare la sessualità in modo più articolato e completo di quanto possa fare un articolo di un magazine per ragazze. Entrando in libreria ci si può imbattere in tante “guide al sesso”, molte delle quali costruite su un’impalcatura femminista e attenta alle istanze LGBTQIA+. Sia che si tratti di libri dedicati a un pubblico adulto o alle prime armi l’enfasi intorno al concetto di “consenso” è elevatissima. Fino a non molto tempo fa, questo termine apparteneva ad alcune pratiche sessuali particolari, ad esempio nel BDSM, ed è facile intuire perché. Sul sito del rope artist fiorentino conosciuto come La quarta corda è possibile scaricare una guida che illustra l’importanza del consenso, della negoziazione e della safeword: elementi che permettono al “gioco” di adeguarsi alle esigenze di chi partecipa garantendone il piacere, la sicurezza e l’incolumità.
Nel recente Di cosa parliamo quando parliamo di consenso, la studiosa Manon Garcia prova a ripercorrere la storia di questa nozione partendo dall’ambito giudico, che è proprio quella in cui si origina. “Il consenso compare ampiamente nel codice civile, ma non è definito con esattezza (…); può riferirsi alla manifestazione di una volontà (qualcuno vuole qualcosa) o all’accordo tra due volontà, come accade con la firma di un contratto”. A partire dal XVII secolo il termine viene utilizzato in ambito politico per spiegare perché si obbedisca alle leggi di un Paese. Garcia riflette sulla polisemia intrinseca al concetto per arrivare a delineare il suo uso all’interno delle relazioni intime.
Per farlo richiama le ricerche di Claude Habib, docente di letteratura francese, che lo individua a partire al XVIII secolo, in particolare negli scritti di Rousseau. La studiosa osserva come “in questo quadro il consenso è concepito come qualcosa che interessa solo le donne”. Garcia mostra la problematicità delle osservazioni di Habib quando riconosce che “per Rousseau, l’espressione di assenso femminile è minima e concessiva”. Appare evidente che il consenso applicato ai rapporti intimi sia legato a una certa immagine della donna, la cui “natura” la spingerebbe a mantenere una posizione subordinata e rispettosa della volontà altrui.
Non basta limitarsi all’assenso; è necessario osservare anche altri indicatori come accertarsi che la persona sia davvero libera di esprimersi che la sua decisione sia accolta con rispetto da parte dell’altro.
Come sottolinea Garcia, il concetto di consenso è stato usato in epoca recente per distinguere il sesso legittimo da tutto ciò che è altro, ad esempio lo stupro. La nozione viene accolta dalla riflessione femminista intorno agli anni Settanta e si intreccia proprio al discorso sulla violenza sessuale. La scrittrice Mithu Sanyal ricorda che lo slogan “no significa no” risale a quegli anni e aveva una funzione ben precisa, quella cioè di ricordare che una donna che rifiutava un approccio lo stava facendo davvero e non era, al contrario, un pretesto per permettere agli uomini di esibire le loro doti persuasive. Porre l’accento sul “no” era probabilmente inevitabile in un periodo in cui i diritti delle donne venivano regolarmente calpestati nella vita reale e nelle aule dei tribunali, come accadeva alla vittima di “Processo per stupro”, dileggiata e accusata di essere all’origine del comportamento dell’aggressore. Tuttavia, insistere sull’idea che le donne dovevano esprimere il proprio rifiuto in modo netto e inequivocabile ha favorito il mantenimento di un certo ideale relativo alla natura femminile – lo stesso di Rousseau – ovvero quello che descrive le donne come poco propense al sesso, più inclini a porsi in una posizione passiva di diniego anziché in una proattiva di ricerca.
Come sottolinea Katherine Angel ne Il sesso che verrà, bisogna aspettare gli anni ’90 perché si imponga un cambio di paradigma attraverso l’introduzione, dapprima in ambito legislativo, del “consenso affermativo”, mediante il quale l’enfasi viene posta sul concetto di accordo anziché sul rifiuto. Si tratta di un passaggio importante perché fino a quel momento un “no” pronunciato a mezza voce, non chiaro o non sufficientemente esplicitato poteva essere considerato un indicatore di consenso e spettava alla vittima l’onere di dimostrare che non era consenziente. L’introduzione di questo concetto, al contrario, richiede che vi sia un segnale non coercitivo di accordo affinché un atto sessuale non venga considerato improprio. Come è facile intuire, per rispettare questa definizione non basta limitarsi all’assenso; è necessario osservare anche altri indicatori come accertarsi che la persona sia davvero libera di esprimersi che la sua decisione sia accolta con rispetto da parte dell’altro. Secondo Garcia, quando applicate alle relazioni interpersonali, le due sfumature semantiche del consenso – quella che pone l’accento sulla questione dell’accordo legittimo e quella focalizzata sul risvolto morale dell’azione – tendono a sovrapporsi. La prima finisce per fagocitare la seconda: se vi è stato un esplicito accordo, allora il rapporto non è solo lecito ma anche moralmente valido.
Il discorso condotto fino a qui serve a comprendere perché oggi è improbabile imbattersi in una guida alla sessualità in cui non vi sia un minimo accenno al consenso. Esso viene definito non solo come la premessa ad un approccio sessuale, ma sembra costituire la base del “buon sesso”– dove buono ha una duplice accezione di “appagante” e “sicuro”. Appare evidente come un discorso che sembra inizialmente lineare, perché per fare sesso è indispensabile che le parti siano d’accordo, inizi a risultare più complicato del previsto. Ciò è dovuto al fatto che, secondo Angel, per legare il consenso alla sessualità al di fuori dell’ambito legislativo è necessario il sostegno di altri concetti, primi tra tutti quello di “libertà” e “desiderio”.
Per accettare una certa pratica è necessario che la persona abbia ben chiaro ciò che desidera e sia nella condizione di esprimere assenso senza subire l’impatto di pressioni esterne. Per secoli la sessualità femminile si è posta ben lontana da queste due condizioni.
Per accettare una certa pratica è necessario che la persona abbia ben chiaro ciò che desidera e sia nella condizione di esprimere assenso senza subire l’impatto di pressioni esterne. Per secoli la sessualità femminile si è posta ben lontana da queste due condizioni: il retaggio patriarcale e misogino la poneva in una posizione di inferiorità e vulnerabilità tale da precludere qualsiasi possibilità di esprimere volontà o desiderio. La retorica del consenso, secondo Angel, si manifesta non a caso negli anni Novanta del secolo scorso, in quel periodo cioè in cui il post-femminismo “alza l’asticella della cultura sessuale, trasformando il concetto in qualcosa di più ambizioso: desiderio, piacere, entusiasmo, positività”. La confidence culture in apparenza esorta le donne a essere assertive e determinate, “parla la lingua dell’incoraggiamento e dell’empowerment” spronandole a mostrare una certa agency economica e sociale. In questa cornice, il consenso diventa una sorta di ombrello che dovrebbe mettere al riparo dal bad sex, un sesso “cattivo” non solo perché insoddisfacente ma anche perché può rivelarsi imbarazzante, umiliante o non sicuro.
Le guide al sesso che ho consultato – soprattutto quelle destinate ad un pubblico adolescente – pongono grande enfasi sulla necessità di conoscersi a fondo e imparare a comunicare ai partner i propri desideri, azioni indispensabili per esprimere in modo consapevole il proprio assenso a determinate pratiche. Nel volume a fumetti Questo libro non parla di sesso, gli autori descrivono il consenso sessuale come “un accordo continuo e appassionato tra persone che vogliono fare qualcosa di sexy insieme”. Davanti alle perplessità di un protagonista, che non è sicuro di essere veramente attratto, il partner lo rassicura ricordandogli che è importate “parlarsi sempre”. Nel prosieguo della storia appare evidente come il consenso risulti importante non solo perché costituisce una conferma circa il fatto che tutte le parti in causa sono concordi rispetto a ciò che stanno per fare, ma anche perché esplicitare i nostri desideri ci permette di divertirci di più.
È ancora Angel a ricordarci che quest’impostazione è già stata discussa da Foucault. “Il pensiero progressista” informa l’autrice “ha usato la sessualità e il piacere come controfigure per l’emancipazione e la liberazione”, per questo ne La volontà di sapere, Foucault critica l’idea che l’unica soluzione per liberarci da un atteggiamento moraleggiante sia parlare di sesso. Secondo il filosofo francese non è “accettando il sesso che si rifiuta il potere”. Il potere si manifesta anche all’interno delle dinamiche verbali per questo la parola, in sé, può non essere liberatoria. Eppure, dagli anni ’90 ad oggi, pare che il linguaggio sia l’unica arma per affrancare la sessualità femminile dai retaggi del passato. Parlarne apertamente costituisce il discrimine tra la donna risolta e quella vittima delle imposizioni patriarcali.
Sperare di risolvere una delle questioni su cui il femminismo si interroga da tempo, ovvero la possibilità, per il genere femminile, di godere di un sesso più libero e appagante, puntando tutto sulla necessità che il loro desiderio si espliciti nel linguaggio e nel consenso “delega il fardello di un’interazione sessuale positiva al solo comportamento delle donne: a ciò che vogliono, a ciò che sono in grado di esprimere”. Pensare che il consenso ci metta al sicuro dall’eventualità dei rischi propri del sesso poiché, per manifestarlo, è necessario avere chiaro ciò che si desidera, è fuorviante per diverse ragioni, prima tra tutte perché anche il desiderio si costruisce socialmente.
Il desiderio è strettamente collegato al contesto, che gioca un ruolo centrale liberandolo o inibendolo.
Le teorie psicologiche che hanno indagato l’origine e la costituzione del desiderio sessuale, ci ricorda Angel, lo hanno considerato a lungo come una pulsione biologica. Oggi, però, molti ricercatori si stanno discostando da questa ipotesi asserendo che “può sembrare una pulsione, ma non lo è: è eccitazione, in un contesto favorevole al desiderio”. Anche il DSM si è adeguato a questo cambiamento indicando, per le donne, la possibilità di incorrere in diagnosi di Disturbo dell’interesse/eccitazione sessuale, riconoscendo cioè che, più che guardare al desiderio, la valutazione debba prendere in considerazione l’interesse per l’attività sessuale, le cui variazioni possono essere dovute anche a cause biologiche (provare dolore, ad esempio) o ambientali. Richiamando le ricerche di Rosemary Basson, Angel ci ricorda che il desiderio è strettamente collegato al contesto, che gioca un ruolo centrale liberandolo o inibendolo.
Il desiderio è fluido, variabile, dinamico e reattivo ai ricordi; ciò significa che, per una donna, risulta più facile provarlo se in passato ha avuto esperienze sessuali positive. Non solo, come è stato detto, esso è legato a doppio filo al contesto che può liberarlo o inibirlo. Sappiamo che per molti secoli la sessualità femminile non ha trovato accoglienza, considerata secondaria e subordinata al piacere maschile. Per quanto oggi, apparentemente, molte cose siano cambiate, è importante ricordare che, sotto la superficie del linguaggio, questa visione si mantiene e genera un atteggiamento ambivalente: “il mondo esige dalle donne l’impossibile, chiede loro di mostrare piacere e desiderio mentre le convince che il loro piacere e la loro sicurezza non hanno valore”. Riprendendo le parole di Angel, potremmo dire che più che il mondo è la visione patriarcale e sessista che pone la sessualità femminile sotto scacco assegnando alle donne l’onere di regolamentare l’atto sessuale mediante il riconoscimento del desiderio e l’affermazione inequivocabile di consenso, quando in realtà tali operazioni sono subordinate all’esercizio di potere, che, come sappiamo, non è distribuito equamente.
Nel suo volume Il diritto al sesso, Amia Srinivasan racconta un avvenimento accaduto all’Universita del Massachusetts, nel 2014. Uno studente al terzo anno, Kwadwo Bonsu, è stato accusato di aggressione sessuale ai danni di una compagna di corso. Se si legge il resoconto di quanto successo, raccontato direttamente dalla vittima, è facile rimanere interdetti. La giovane riporta un episodio che potrebbe riguardare chiunque: nel campus, i due fumano e bevono qualcosa, la situazione si scalda e iniziano a baciarsi. Lei afferma chiaramente di non voler fare sesso e lui le conferma che non avrebbero dovuto farlo per forza. Se non che, prima di alzarsi per andare via, la giovane gli infila la mano nei pantaloni. Vorrebbe nuovamente smettere per allontanarsi, ma si ritrova a praticargli sesso orale, senza che lui lo abbia chiesto. In tutto il racconto non si manifesta nessun atto chiaramente coercitivo, tanto che i due, dopo altri baci, si salutano e si scambiano i numeri di telefono. La giovane riconosce solo il giorno dopo di aver vissuto un’aggressione sessuale e motiva così la sua affermazione: “la filosofia diffusa tra gli studenti dell’università impone che, quando le donne hanno un approccio sessuale con un uomo, debbano andare fino in fondo”. Afferma Srinivasan: “la giovane ha continuato per la stessa ragione per cui continuano molte altre donne: perché se ecciti sessualmente un uomo, devi andare fino in fondo. Non conta che Bonsu avesse questa aspettativa oppure no, perché è un’aspettativa già interiorizzata da molte donne”.
Per liberarlo dalle ‘distorsioni dell’oppressione’ serve una critica radicale con cui superare il discorso del consenso.
L’episodio accaduto alla ragazza non è stato considerato legalmente come coercitivo, entra piuttosto nella definizione di bad sex, un sesso non appagante, esperito più per senso del dovere e per una coercizione indiretta, che non per dare seguito al proprio desiderio. Esso è la conseguenza dell’introiezione delle norme di genere o, per dirla con Angel: “è uno scambio tra dinamiche di potere diseguali”. In questo senso, ha ragione Srinivasan quando afferma che il sesso è intriso di politica e per questo limitarsi a una suddivisione binaria consensuale (non problematico) VS. non consensuale (problematico) non basta. Per liberarlo dalle “distorsioni dell’oppressione” serve una critica radicale con cui superare il discorso del consenso – che addossa il problema di come prevenire una violenza alle singole donne – e ci faccia cogliere la complessità del sesso, intriso di questioni politiche, di potere e desiderio.
Come ricorda Elisa Cuter in Ripartire dal desiderio “il sesso non è una passeggiata, è rischioso imbarazzante e spesso sgradevole; sicuramente non è qualcosa di rassicurante”. La dinamica sessuale, che porta “qualcuno a essere attratto da qualcuno e non da qualcun altro”, ha per definizione contorni sbiaditi perché si costituisce poco per volta in relazione ai segnali che le parti inviano reciprocamente e al modo in cui vengono accolti o respinti. In questo senso, pur non essendo completamente in linea con la definizione che l’autrice da del sesso, concordo con lei quando afferma che “ripartire dal desiderio vuol dire partire senza sapere per dove”. Le parole di Cuter risuonano in quelle di Echo, la protagonista di Consenso, di Saskia Vogel. L’incontro con Orly, che di professione fa la dominatrice, pone la donna davanti alla necessità di rivedere le sue definizioni di “cura” di “piacere” e di “desiderio”. Partendo dalla sua esperienza e da quella che gli uomini intrecciano con la dominatrice, Echo riflette sui recenti avvenimenti (tra cui la scomparsa del padre) dandosi il “permesso di esistere” in quanto corpo che prova desideri che non sa comunicare e che non procedono in una direzione definita. Il consenso, su cui si basa la sua relazione con Orly, non la salva ma anzi la espone a ciò che fino a prima dell’incontro non rientrava neppure in un orizzonte di pensabilità. Echo accetta la complessità dei suoi sentimenti, a volte ambivalenti, e, con fiducia, prova a affidarsi all’amante per scardinare l’ordine patriarcale e trasformarsi, reciprocamente.
Il romanzo ha un finale aperto, non sappiamo se le azioni di Echo riescono a raggiungere l’obiettivo prefissato; a ben guardare questo resta un interrogativo aperto anche nelle riflessioni di chi da tempo si interroga su questi argomenti. Come Srinivasan, chiediamoci cosa occorrerebbe perché il sesso fosse veramente libero: “non lo sappiamo ancora; proviamo e stiamo a vedere”.