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enerdì 3 giugno le donne e i bambini dei villaggi della zona del Sud Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda, non potevano credere ai loro occhi: in quella mattina come tante centinaia di pesci morti galleggiavano ai bordi dell’acqua. Poche ore dopo, nonostante gli inviti alla prudenza delle autorità della regione di Minova, le rive del lago pullulavano di persone che raccoglievano quei pesci, incuranti del pericolo di possibili intossicazioni, anche perché rassicurate da un’interpretazione frettolosa di quanto stava accadendo: con ogni probabilità, aveva subito scritto la stampa locale, quei pesci erano morti per il metano o l’anidride carbonica risaliti dal fondale, ma non erano diventati tossici per l’uomo, in quella forma. Il lago Kivu, un immenso bacino che si estende longitudinalmente tra Rwanda e Congo, del resto, non era nuovo alle eruzioni limniche (questo il nome delle risalite di gas), e quello poteva essere solo l’ultimo episodio.
Le autorità ruandesi in seguito hanno affermato che con ogni probabilità, la morìa di pesci delle scorse settimane non ha nulla a che vedere con il metano e la CO2, e ha molto a che vedere con pratiche umane dissennate come lo scarico nei fiumi immissari del lago di sostanze tossiche come i metalli pesanti provenienti dalle miniere e altri inquinanti presenti nella zona. Inoltre in tutta la zona non esiste una rete fognaria.
Eppure le acque del Kivu non possono considerarsi salve da future eruzioni limniche. Di recente il Kivu è stato al centro di un allarmato rapporto pubblicato su Nature che denuncia la sua possibile Grande Eruzione Limnica, un evento che, se mai si dovesse verificare, sarebbe probabilmente la catastrofe più mortale da diversi millenni a questa parte, e causerebbe la morte di buona parte dei 4-5 milioni di persone che abitano sulle sponde, oltre a possibili conseguenze sul clima in tutta la regione del Grandi Laghi.
Si stima infatti che il Kivu custodisca qualcosa come 300 chilometri cubici di CO2 e 60 di metano. Se dovesse rilasciare questi gas, oggi disciolti nelle acque profonde, immetterebbe in atmosfera 2,6 gigatonnellate di CO2, pari al 5% delle attuali emissioni mondiali di gas serra. I timori nascono dalle caratteristiche del bacino, e dal fatto che nel maggio 2021 la zona ha vissuto una potente eruzione vulcanica, quella del vulcano Nyiragongo, la cui lava, mai giunta direttamente in acqua, secondo alcuni ricercatori potrebbe essere scivolata al di sotto della città di Goma (nella quale sono stati avvertiti, per giorni, tremori e bradisismi) e, forse, al di sotto dei fondali.
Il lago Kivu custodisce qualcosa come 300 chilometri cubici di CO2 e 60 di metano. Se dovesse rilasciare questi gas, immetterebbe CO2 pari al 5% delle attuali emissioni mondiali.
Per il momento, comunque, il lago è tranquillo, e così potrebbe restare anche per millenni. Cosa potrebbe portare al disastro? Secondo le stime, i gas in esso contenuti dovrebbero raddoppiare la loro concentrazione, prima di raggiungere il limite oltre al quale iniziano a risalire spontaneamente verso la superficie: un’eventualità al momento ritenuta remota. Oppure dovrebbe essere coinvolto in un evento catastrofico di vaste dimensioni quale un terremoto o, appunto, una grande eruzione.
Il Tascabile ha parlato a proposito con uno dei massimi esperti mondiali di questi fenomeni, Dario Tedesco, dell’Università Vanvitelli della Campania: una vita passata a studiare i vulcani e i laghi in molti paesi tra i quali Hawaii, Giappone, Stati Uniti, appena arrivato proprio a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, per alcuni progetti di ricerca sul lago Kivu e sul vulcano Nyiragongo (che secondo lui è il più pericoloso del mondo, anche per le connessioni con il rischio di eruzioni limniche). Che cosa esattamente succede quando un lago rilascia i gas, e quali sono i veri pericoli? “Per comprendere cosa accade”, spiega Tedesco, “dobbiamo ricordare innanzitutto che l’acqua di questi bacini è composta da strati a diverse concentrazioni di sali e di gas, e che tra questi, in condizioni normali, non c’è comunicazione: gli strati non si mescolano”. I gas sono disciolti negli strati più profondi, dove restano fino a quando non raggiungono la saturazione, cioè la concentrazione oltre la quale non si sciolgono più, e iniziano a formare bollicine. “Questo può avvenire naturalmente, per esempio per l’aumento dei gas provenienti dalle fratture sul fondo del lago, o per l’arrivo, in acqua, di grandi quantità di materiali in seguito a un’eruzione vulcanica, ma anche per variazioni chimico-fisiche riconducibili a cause antropiche”. Risalendo, le bollicine tendono a unirsi le une alle altre. “Via via che lo fanno, risentono sempre meno della pressione e, di conseguenza, aumentano a dismisura il proprio volume, fino a aggiungere violentemente in superficie, esplodendo e liberando i gas nell’aria, come accade alla CO2 nelle bevande gassate”.
Per cercare di diminuire la concentrazione dei gas nelle acque profonde, peraltro molto diversa nelle varie zone del Kivu, e per non disperdere e, anzi, utilizzare una risorsa preziosa (secondo le stime, nei prossimi 50 anni il metano del lago Kivu potrebbe fruttare 42 miliardi di dollari), il Rwanda ha autorizzato la realizzazione di KivuWatt e di altre due piattaforme di estrazione del metano, che generano elettricità per 26 megawatt. Almeno nelle zone interessate, ciò ha consentito di installare un monitoraggio della concentrazione dei gas nelle acque. Anche se “In realtà”, sottolinea Tedesco, “questi sono eventi che hanno luogo dopo il raggiungimento di un punto critico in tempi brevissimi (anche di pochi minuti), e proprio perché si tratta di un lago enorme e disomogeneo, prevederli è quasi impossibile, a meno che il controllo non sia capillare, continuo e di grande qualità tecnica”.
C’è un precedente di cui tutti, in un’altra zona dell’Africa, si ricordano, e che ancora terrorizza le popolazioni locali: quello dell’eruzione limnica del lago Nyos, avvenuta in Camerun nel 1986, quando un chilometro cubo di CO2 fuoriuscì in una notte, sterminando 1.700 persone e 3.500 capi di bestiame, insieme a qualunque altra forma vivente, insetti compresi, senza che vi fosse alcun danno apparente. Come ha raccontato il giornalista e scrittore olandese Frank Westerman nel suo L’enigma del lago rosso (Iperborea, 2015 ), le popolazioni provarono a darsi varie spiegazioni: credettero a un esperimento nucleare, o a un test con un agente biologico, o a un’arma segreta del presidente Biya, o alla vendetta degli spiriti animisti, cristiani o islamici, in un inestricabile groviglio che risucchiò per anni anche gli scienziati che cercavano di capire cosa fosse realmente successo in una lotta surreale con la superstizione e gli interessi locali. In realtà era stata la CO2 contenuta all’interno del lago, proveniente dalle sorgenti termali del vulcano quiescente, come già era successo in un lago più piccolo, il Monoun, nel 1984.
La Grande Eruzione Limnica è un evento che, se mai si dovesse verificare, sarebbe probabilmente la catastrofe più mortale da diversi millenni a questa parte.
Nel 2001, gli esperti dell’Università della Savoia francese guidati dal fisico e ingegnere Michel Halbwachs installarono uno sfiatatoio, cui ne seguirono altri due nel 2011. I tre camini fecero il loro dovere, al punto che nel 2019 quasi tutta la CO2 presente nel lago era stata estratta, e quella rimanente non rappresentava più una minaccia. Anche il lago Monoun è stato degassato, e Halbwachs, forte dei suoi successi, nel 2017 ha siglato un contratto da 5 milioni di dollari con la sua Limnological Engineering per degassare il Golfo di Kabuno, la zona a nord-ovest del lago Kivu, quasi completamente chiusa e considerata a sé stante, per le peculiari caratteristiche chimico-fisiche che la contraddistinguono.
“Non bisogna però confondere i diversi laghi” chiarisce il vulcanologo. “Il Nyos insiste sul cratere di un vulcano quiescente, non più attivo, mentre il Kivu deriva da un enorme canyon formato da un fiume che si gettava nel Nilo e che, probabilmente in seguito alla formazione dei vulcani Nyiragongo e Nyamulagira, è stato bloccato nel suo percorso: è quello che viene definito lago di sbarramento”. I laghi come il Nyos sono più pericolosi perché contengono acque termali ricche di gas che provengono direttamente dal fondo, e fanno costantemente aumentare la concentrazione dei gas nell’acqua. “Ma Nyos è anche un lago piccolo (circa due millesimi di Kivu), e per questo è stato possibile degassarlo. In bacini enormi come il Kivu, invece, tutto è molto più complesso”. Oltretutto, spiega Tedesco, non c’è accordo sulla storia delle possibili eruzioni del lago, perché l’interpretazione dei sedimenti nei quali vi sono le tracce delle precedenti eruzioni limniche (alcuni dei quali risalgono a 3.500-5.000 anni fa), non è ancora univoca. “Lo stesso vale per l’andamento delle concentrazioni dei gas negli ultimi decenni: i dati sono discordanti, probabilmente per la grande variabilità dei risultati dei campionamenti di zone diverse, spesso fatti spesso con metodi differenti e non confrontabili”.
Nel Kivu comunque il problema, più che la CO2, è il metano, prodotto principalmente dai batteri presenti sul fondo del lago. Perché il metano è molto meno solubile della CO2, e potrebbe risalire più facilmente, e potrebbe anche incendiarsi. In Rwanda quel metano viene estratto fino dagli anni Sessanta con piccoli impianti, per ricavarne energia. Poi, nel 2016, con l’arrivo della società britannica Global Contour e, soprattutto, dei suoi 200 milioni di dollari, tutto è cambiato ed è nato KivuWatt, l’impianto che oggi fornisce 26 MW e che, per contratto, dovrà presto arrivare a 100. Se tutto continuasse ai ritmi attuali, comunque, si tratterebbe di un’estrazione relativamente poco efficace, dal punto di vista del rischio di eruzioni: nei prossimi 25 anni si arriverebbe a estrarre solo il 5% del metano disciolto, e non si limiterebbe affatto il rischio di una fuoriuscita di gas, secondo Francois Darchambeau, limnologo del progetto intervistato da Nature. Per questo si può pensare di aumentare l’estrazione.
Ma KivuWatt non è l’unico impianto: nel 2006, la Shema Power Lake Kivu ha costruito il suo primo degassatore, che entro breve dovrebbe arrivare a produrre, a sua volta, 56 MW, e altri progetti sono in fase di valutazione. L’estrazione sta cioè aumentando, e ciò che preoccupa parte della comunità scientifica sono i metodi, più che la realizzazione degli impianti di per sé.
Nel Kivu il problema, più che la CO2, è il metano, prodotto principalmente dai batteri presenti sul fondo del lago.
In sintesi, per ottenere il metano, si estrae l’acqua delle zone più profonde, la si sottopone a degassamento e poi la si reimmette nel lago. Ma l’acqua degassata non è pura. Al contrario, è arricchita in sali, CO2, acido solfidrico e in altri gas in piccole percentuali, che potrebbero uccidere i pesci e causare fioriture di alghe, se immessi vicino alla superficie, dove provocherebbero l’eutrofizzazione del lago. I procedimenti, inoltre, alterano profondamente la salinità, l’ossigenazione e la densità degli strati di acqua, con diluizioni e concentrazioni insolite che possono sconvolgere gli equilibri degli strati, favorendo la risalita dei gas profondi.
Secondo Tedesco, un compromesso accettabile potrebbe essere quello di reimmettere l’acqua degassata a profondità superiori ai 60-80 metri, cioè superficialmente, come sta facendo KivuWatt, ma secondo altri ricercatori bisognerebbe reiniettarla a profondità ancora superiori. Quale sia la soluzione ideale, sempre che ne esista una, non è insomma ancora del tutto chiaro.
Per prevenire possibili disastri, nel 2009 un team internazionale di ricercatori ha pubblicato delle linee guida basate sul monitoraggio e sulla protezione delle zone a diversa densità attraverso la reimmissione mirata di gas, ma secondo molti sarebbero rimaste del tutto inapplicate per difficoltà economiche: più il gas viene spinto in profondità, maggiori sono i costi. “La soluzione migliore, da tanti punti di vista” spiega ancora Tedesco “sarebbe creare un Consorzio che coinvolga tutti i paesi della regione (e quindi, oltre a Rwanda e Repubblica Democratica del Congo, Burundi e Uganda) e dare vita a un grande progetto di ricerca e monitoraggio anche degli effetti delle altre attività quali la pesca, l’agricoltura e il prelievo di acqua da rendere potabile, inserendo capillarmente dei sensori che aiutino a individuare le variazioni dei gas e della qualità dell’acqua in tempo reale. Si potrebbe partire dalle strutture di estrazione, per poi allargare il campo coperto dalle rilevazioni: non costerebbe molto e permetterebbe di avere la situazione costantemente sotto controllo”.
Ma un’operazione del genere può avere successo solo se condotta in modo impeccabile e con un coordinamento efficace tra paesi molto diversi: una prospettiva che, al momento è irrealistica. Ecco perché, più che le anime dei morti o i test nucleari evocati a Nyos, nel Kivu bisogna temere le iniziative dei viventi. Eppure, se si arrivasse quantomeno a una visione più condivisa di ciò che succede, dei possibili vantaggi delle estrazioni, così come dei rischi a esse connessi, e degli effetti di altri fattori antropici in un ecosistema delicatissimo come il grande lago Kivu, i risultati potrebbero essere utilizzati anche negli altri laghi analoghi. I quali, fortunatamente, nel mondo sono pochissimi.
Le linee guida sono rimaste del tutto inapplicate per difficoltà economiche: più il gas viene spinto in profondità, maggiori sono i costi.
Uno dei più conosciuti è in Italia, è il lago Albano in provincia di Roma. Fino dall’antichità le sue bolle stagionali sono ben note, e sono state raccontate da numerosi autori classici. “Albano”, spiega Tedesco, “è vulcanico come Nyos, e all’epoca dei Romani le sue acque erano a un livello molto più alto di quello attuale, con volumi d’acqua ben più grandi”. Poi vi fu un evento catastrofico, rapidissimo, su cui non vi sono certezze, che alterò profondamente la geografia stessa del luogo. “Si trattò di un evento talmente traumatico, per le popolazioni locali, da convincere gli ingegneri Romani a dare vita al primo atto noto di Protezione Civile della storia, la realizzazione di un immenso tunnel sotterraneo che agisse da sfiatatoio”. Forse – è una delle ipotesi – si trattò di un’eruzione limnica, di una gigantesca bolla di gas che provocò una sorta di tsunami, allagando tutta la zona. “Oggi il lago, nel quale sono spesso visibile piccole bolle, è monitorato costantemente, e presenta anche una caratteristica che lo rende meno temibile, almeno in teoria: la sua stagionalità”.
Nel lago Albano, chiarisce ancora il vulcanologo, le colonne di acqua profonda risalgono in superficie in estate, per poi ridiscendere nella stagione fredda, e ciò permette una sorta di piccolo ma continuo degassamento permanente, che aiuta a tenere il sistema in equilibrio.
In Italia, poi, c’è un altro lago che, ogni tanto, si tinge di rosso, e dove vi sono improvvise morìe di pesci. È il lago Averno dei Campi Flegrei. Lì davvero l’uomo non c’entra nulla, perché non c’è alcuna attività antropica. Piuttosto, è l’acido solfidrico che, di tanto in tanto, improvvisamente, risale, uccidendo la fauna del lago. A differenza delle acque del Sud Kivu, però, queste sono monitorate egregiamente dall’Osservatorio Vesuviano (le università sembra che abbiano da tempo abdicato a un ruolo significativo nella vulcanologia, affidandola – senza apparenti giustificazioni – a istituzioni fondamentali come queste che, tuttavia, in tal modo, restano isolate). Non ci quindi sono particolari timori, neppure quando muoiono i pesci, perché il fenomeno è noto e controllato, a riprova dell’importanza della ricerca, e degli investimenti nella prevenzione che si possono ragionevolmente attuare. Senza dimenticare comunque che qui, come nel Kivu o nel Nyos, le eruzioni limniche sono improvvise, e imprevedibili.