V i è mai capitato di essere giudicati non sulla base della solidità delle argomentazioni ma dell’outfit, come di recente a Vera Gheno? O di preferire girare in bici anziché a piedi (lo ha raccontato con impareggiabile ironia Caterina Di Paolo) per sfuggire con agio a eventuali molestatori? Vi è mai successo che anziché limitarsi a collaborare a un progetto nato per vostra iniziativa il boomer di turno cercasse di appropriarsene; di non venir citate di proposito; o che le vostre ricerche sui gender studies venissero contestate mettendo in dubbio l’esistenza stessa di una questione di genere? Amici, compagni, padri, fratelli alieni a queste logiche (non sempre il maschile coincide col patriarcato) reagiscono sconcertati: inconsapevoli della pervasività di certi meccanismi finché non impattano la vita di chi gli è vicino; ma chi si identifica nel genere femminile si riconoscerà nel misto di rabbia e incredulità di chi racconta simili esperienze di sessismo quotidiano.
Sbollita l’ubriacatura delle conquiste del femminismo anni ’70, assorbito in parte il #Metoo, in anni recenti si è pensato che, davanti allo scoraggiamento sistemico dell’attiva presenza delle donne in posizioni di vertice, l’unica risposta consistesse nel lavorare sodo. L’illusione alla base di questa posizione è che in questo modo il proprio percorso non sarà intaccato da certe dinamiche; in molte si rifiutano di definirsi femministe o di parlare di disparità, come se l’affrontare la questione alienasse all’istante certe simpatie. Eppure, trascurare le dinamiche collettive delle discriminazioni di genere fa sì che alla fin fine ci si consideri un’isola, colei che ce la farà nonostante, abbracciando il mito della dell’ ‘unica’, della ‘donna forte’ che finisce per fregare (fregarci) tutte. Forti magari sì, ma non emancipate. Poi capita quell’episodio che porta a intendere che si è passato il segno, ed è allora che ci si rende conto di quanto sia prezioso il lavoro di chi, pur convivendo analoghi tentativi di togliere energie, ha trovato misura e tempo necessari a tracciare una mappa di saperi condivisi.
Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) di Daniela Brogi, docente all’Università per Stranieri di Siena, è un libro che può parlare soprattutto a chi pensa che la questione femminile non esista. Italianista, Brogi è inoltre esperta di cinema e Visual Studies, e come in altri suoi lavori queste competenze fanno sistema: chi è abituata a studiare le dinamiche dello sguardo sa per esperienza come queste siano legate a rapporti di potere, e si trova spesso a riflettere sul modo migliore per decostruirle attraverso la scrittura. Complice quest’attenzione specifica, Brogi inventa (cioè, alla lettera, trova) uno spazio che non c’era, cucendo in un disegno originale una trama di dati, studi, esperienze acquisite in diversi campi della conoscenza nell’ultimo secolo e mezzo. La destinazione editoriale è venuta d’aiuto in questo spietato esercizio di sintesi e visione: l’agile Vela Einaudi riesce in centomila caratteri dove uno studio accademico avrebbe fallito per eccesso di spunti.
Non sempre la forma-saggio sa accogliere la performatività necessaria a scritture che fanno la spola tra critica della cultura e vita come materiale; il quid dello Spazio (il richiamo è al capitale A Room of One’s Own) sta proprio nella voce che ti accompagna rispondendo con garbo alle obiezioni del sessismo benevolo, senza lesinare affondi personali né nascondere il tracciato che l’ha portata alla costruzione del percorso. Chi scrive il proprio posto nel mondo l’ha trovato, ma per lunghi anni si è sentita una diversa, e non ha paura a confessarcelo:
Quante volte, da giovane, ho creduto di non essere all’altezza dei miei compiti se, svolgendo il mio lavoro di docente, certi studenti, e soprattutto studentesse, faticavano a riferirsi a me con la medesima disponibilità a imparare riservata naturalmente ai colleghi maschi della mia stessa età. Quante volte uno stile gentile (non “virilmente” autoritario e prepotente, e dunque contrario a un habitus accademico patriarcale) è stato insidiosamente scambiato per una forma di maternage, a cui riferirsi con modi impacciati e ambivalenti, che di nuovo toglievano spazio alla relazione lavorativa e formativa, rischiando di spostarla su codici personali. Credevo di essere inadeguata e barocca; ma più semplicemente agivo da “aliena”, avrebbe detto Luce d’Eramo, nel senso che cercavo di muovermi in uno spazio strutturato e grammaticalizzato a misura di un mondo in cui il lavoro qualificato e professionale delle donne non era previsto, e dunque appariva meno serio, o poteva rimanere invisibile — anche nelle bibliografie.
Un primo pregio dell’analisi sta nel voler consegnare ai lettori più giovani una serie di nomi di poetesse, studiose, attiviste, autrici, registe da rileggere o scoprire: chiunque troverà libri, installazioni, fotografie, film sconosciuti o sentiti nominare di sfuggita (magari da conoscenti, più che all’università o a scuola); la stessa bibliografia, di cui talvolta si è giocato a individuare presunte assenze travisandone il senso, è un dono da accogliere con gratitudine. Brogi applica una metodologia multifocale che alterna il macro e il micro, la ricerca storica allo studio delle forme attraverso vari codici espressivi con un duplice intento: da un lato, riportare al centro del discorso pubblico “il recinto di minorità in cui le donne sono state messe e tenute per millenni, escluse dall’alfabetizzazione, dalla scuola (dalla formazione e dall’esperienza), come accade anche oggi in tante parti del mondo”, dall’altro tessere un dialogo con le nuove generazioni, mettendo al servizio della collettività il proprio sapere specifico.
Intrecciando diversi fili del racconto, veniamo portati a riflettere sulle modalità di limitazione dell’agentività a partire da una serie di immagini — “il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa” — che rappresentano diverse dimensioni dello spazio delle donne. All’orizzontalità metaforica si aggiunge la profondità data dalla cronologia che raccoglie eventi chiave della storia dell’emancipazione femminile in Italia da inizio Novecento a oggi: tornare a questi dati di partenza permette di contestualizzare alcune scelte d’autrice, e in parallelo riflettere su come l’aspetto giuridico e l’azione politica abbiano avuto un’importanza decisiva. Il restituire tridimensionalità ai testi e ai contesti aiuta a comprendere la diversa percezione dell’adulterio, gli annessi conflitti madri-figlie in materia di matrimonio, o le note dichiarazioni sul preferire esser chiamate ‘scrittore’ delle interlocutrici antitetiche Ginzburg e Morante. L’aspirazione all’androgino della seconda, l’essere femminile ma non femminista della prima non si spiegano col dire che tendessero a un “maschile assoluto” (è capitato di sentire anche questo), ma ricordando che la legittimazione d’una voce d’autrice parimenti autorevole fosse ben lontana dal materializzarsi, per chi era cresciuta senza avere diritto di voto o guadagni autonomi. “”
Oltre all’essere “incoraggiate a non avere talento”, le donne di una certa generazione — lo ricordava Paola Pallottino — sono state private della facoltà immaginativa di dove poter arrivare, circondate com’erano da limiti e divieti. Con l’esprimersi gli era stata tolta anche la possibilità di sbagliare. Una questione connessa è quella del merito, retorica problematica in sé ma tanto più insidiosa se ad applicarla è una controparte poco pronta a mettersi in discussione. (Del regime simbolico patriarcale sotteso a questa concezione ha dato esempio Emilie Pine: “Alla fine del primo anno” scrive in Notes to Self “ottenni un punteggio del 99% in due prove d’esame. Con coraggio precoce, chiesi a entrambi gli insegnanti perché non avessi meritato l’1% che mancava. Loro tacquero un istante e poi, come recitando un copione, mi dissero che solo un altro studente aveva risposto bene quanto me, ma soltanto uno di noi poteva ricevere il 100%. Non mi spiegarono perché quella persona non potevo essere io, ma in entrambi i casi l’altro studente era maschio. Colsi il messaggio”.) Sbarazzarsi della competitività narcisista, per cui si è in gamba solo se alle spese dei propri concorrenti, è un filo che attraversa l’intero libro, anche in relazione al racconto dei rapporti tra donne di diverse generazioni.
Trascurare le dinamiche collettive delle discriminazioni di genere fa sì che ci si consideri colei che ce la farà nonostante, abbracciando il mito della ‘donna forte’ che finisce per fregare (fregarci) tutte.
Dai tempi di Morante o Bellonci si sono fatti passi avanti, e va riconosciuto che questo libro è un passaggio di testimone importante (“Lei è oltre”, ha certificato Luisa Muraro in un bell’intervento alla Libreria delle Donne), anche per via dell’attenzione inedita deputata al visivo. All’intersezione tra le direttrici storica e tematica sta infatti il concetto di fuoricampo attivo, cruciale, secondo Liliana Rampello, “per la prospettiva stessa in cui lo sguardo fuori campo intercetta il linguaggio nella forma dell’esperienza”. Non si tratterà di riabilitare nomi inabissati dalla storia o trovare equivalenti, ma di “ridisegnare l’intero campo della cultura” alla luce di quanto è stato finora trascurato, incluso l’immenso capitale culturale del femminismo, pratica di libertà i cui lineamenti dovrebbero essere noti a chiunque. Le facce del poliedro avrebbero potuto essere meglio armonizzate proprio nei punti in cui vengono discusse cruciali vicende relative all’Italia anni Settanta. Ad esempio, sarebbe stato interessante confrontare le retoriche (e i limiti) degli articoli d’autore in relazione al dibattito sull’aborto con quelli della controparte, anche perché Brogi dà il meglio nell’analizzare il rapporto tra stile e forma del pensiero, testo e restituzione critica.
Lo Spazio delle donne può essere innanzitutto letto in quanto manuale d’istruzioni su come (non) scrivere quando ci si rapporta all’alterità. L’invito a studiosi e scrittori è tornare a occuparsi di autrici disincrostando cliché misogini, nell’intento di recuperare una propria multidimensionalità di sguardo (tuttora mancante: molta narrativa d’autore contemporanea non passerebbe il test di Bechdel). Ho limitato la campionatura alla bibliografia su Anna Banti, il che rende già l’idea: l’appiattimento dell’opera sulla biografia è frequente quasi quanto le espressioni ‘allieva, moglie di’; di rado si nota il viceversa, o ci si concentra sulle amicizie e alleanze con altre donne, che in molti casi, possono spiegare una biografia culturale molto più dei mariti o dei figli. Quante volte si intercetta il nome della scrittrice Aleramo solo a proposito della lista morbosa delle sue torbide relazioni, tralasciando che le più importanti erano state con donne (il benpensante e il piccolo borghese vanno a braccetto). Oppure potrà trattarsi dell’insistenza sulle fragilità emotive o sulle esuberanze dei temperamenti; il ricorso a formule confidenziali (come l’uso esclusivo del nome proprio); o all’indicazione automatica della condizione coniugale; oppure, più volgarmente, all’uso esplicito di battute misogine.
Ma il tratto più riuscito del tracciato è costituito dal quarto capitolo, dove attraverso “nuovi effetti di composizione” ci si interroga sulla specificità del fare artistico femminile: se l’idea di genio, spiegava già Linda Nochlin, è una categoria maschile, il ‘geniale’ di Ferrante assume tutt’altro significato. Senza forzare le testimonianze, Brogi si sofferma sulla “poetica del ritagliato” che informa numerose opere d’autrice, travalicando le distinzioni tra generi. Dagli esperimenti con l’autobiografia a un particolare uso del monologo interiore all’uso d’inserti fotografici, ogni artista — oltre a doversi concedere l’abbandono al proprio daimon — ha dovuto battagliare con la forma per trovare una via d’uscita alle costrizioni strutturali cui era sottoposto il gesto creativo… “La santità dei santi padri era un prodotto sì / cangiante ch’io decisi di allontanare ogni dubbio / dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere/ il salto per un addio più difficile”, così la più deterritorializzata tra le nostre voci poetiche. Oltre a Rosselli ci vengono incontro le scritture di Lea Vergine e Toni Morrison, Patrizia Cavalli e Alice Munro, ma i lettori informati potranno aggiungere ulteriori tasselli alla cartografia dei riferimenti, che aprono a nuove ricerche sulla natura del female gaze.
Più di ogni altra cosa, lo Spazio delle donne ha il merito di restituire strutture di pensiero complesse attraverso un linguaggio che arriva a tutti, e di aver ricostruito una genealogia di maestre cui guardare per muoversi adottando una postura che ci rappresenti, al di là delle insidie della misoginia interiorizzata.