D avid Abram è un filosofo e prestigiatore che, qualche anno fa, arrotondava il suo misero stipendio da ricercatore esibendosi in un ristorante con trucchi di magia. Camminava tra i tavoli con una monetina tra le dita che faceva scomparire e riapparire a suo piacimento, per lo stupore e il divertimento del pubblico. Una sera, dopo lo spettacolo, due clienti in stato di evidente shock rientrarono nel locale accusando David di averli drogati con qualche allucinogeno sciolto nei loro drink. Con il passare delle settimane, altri clienti tornarono da lui con la stessa illazione, sostenendo di aver trovato il traffico più rumoroso, i lampioni più luminosi, le trame del selciato particolarmente affascinanti e la pioggia piacevolmente fresca.
Posto che David Abram non li abbia davvero drogati, e non ci posso mettere la mano sul fuoco, sembra proprio che i suoi trucchi di magia avessero in qualche modo alterato la percezione che gli spettatori avevano del mondo. Questo accade perché le nostre percezioni della realtà si basano su sistemi di previsioni e aspettative; sulla fiducia, costruita nel tempo per prove e errori, della tenuta logica e sistemica del mondo che abitiamo. Se metto la mano sul fuoco, appunto, so già che mi brucerò, è logico che mi brucerò, dunque non lo faccio. I trucchi di Abram, almeno per un attimo, portavano invece gli spettatori a dubitare delle proprie aspettative, forzandoli a rivalutare il mondo attorno a loro senza fare affidamento sui pre-giudizi acquisiti.
La comicità, la battuta di spirito, lo scherzo, la risata, funzionano in maniera molto simile e possono aiutarci, almeno per un attimo, ad affrancarci dalla logica comune delle cose. Quando Saverio Raimondo apre i suoi spettacoli chiedendo scusa per la sua voce e spiegando di essere figlio di un gabbiano e di un delfino, il pubblico accetta senza nessun problema di abitare temporaneamente in un mondo in cui un gabbiano e un delfino si possono accoppiare e generare un essere umano. In quel momento, gli spettatori si sentono dispensati dalla logica della realtà quotidiana. Ma, appunto, è solo un momento, una singolarità umoristica, una piccola deviazione dalla strada già battuta, una catastrofe nel senso matematico del termine, dunque un cambiamento improvviso causato da piccole alterazioni nei parametri del sistema che, tuttavia, viene immediatamente re-inglobato nella logica normale delle cose, appena le luci si accendono e il pubblico torna a casa sperando di dormire abbastanza, che domani ho una riunione già alle nove di mattina.
Esiste tuttavia un tipo di comicità che cerca di affrancarsi dalla logica delle cose del mondo non per scelta umoristica, ma per indole.
Allora possiamo dire senza troppi dubbi di smentita che l’umorismo serve a qualcosa, ha delle funzioni che lo animano e lo innestano nel mondo e ha molto a che fare con la gratificazione personale, il principio del piacere freudiano che finge di dimenticarsi dell’esistenza regolatrice del principio di realtà e, come nella Casa delle Libertà di Corrado Guzzanti, ci permette di fare “un po’ come cazzo ci pare”, sempre a patto che sia un momento eccezionale, giusto una capatina.
Esiste tuttavia un tipo di comicità che cerca di affrancarsi dalla logica delle cose del mondo non per gratificazione, non per scelta umoristica ma, semplicemente, per indole. Un umorismo ludico, che serve solo al proprio autosostentamento e al gusto di ridere per ridere. L’umorismo fine a se stesso che riflette sulla sua inutilità – scavallando spesso nella metafisica – e si rimette al proprio posto. Non ci sono singolarità o catastrofi, non si attuano manipolazioni locali della logica dominante, non c’è nulla di verticale ma è tutto orizzontale, circolare e, più di tutto, sistemico. Totale. La battuta non è più quel piccolo orgasmo che ci permette di distaccarci dalla responsabilità dell’enunciato, ma al contrario è un wormhole verso un altro sistema-mondo, diverso dal nostro non solo per le sue componenti o per i personaggi che lo popolano, ma regolato da logiche altre, che possiamo chiamare eterologiche. Michel Foucault, nell’introduzione di Le Parole e le Cose, ha un sospetto:
Il sospetto di un disordine peggiore che non l’incongruo e l’accostamento di ciò che non concorda: sarebbe il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero d’ordini possibili nella dimensione, senza legge e senza geometria, dell’eteroclito; e occorre intendere questa parola il più vicino possibile alla sua etimologia: nell’eteroclito le cose sono coricate, posate, disposte in luoghi tanto diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accolga, definire sotto gli uni e gli altri un luogo comune.
Il termine “eteroclito” viene dal greco antico eteroklitos, composto da etero (diverso) e dal tema di klinein, declinare. Declinato in maniera differente. In grammatica ci sono moltissimi verbi eterocliti che si declinano con più temi o radici, come “andare” (vado, andiamo) ed “essere” (sono, fui). L’eteroclito è l’anomalo, l’irregolare, ma non tanto perché inaspettato, come la classica incongruenza delle barzellette, quanto perché declinato diversamente. Qualcosa di non conforme all’universale. L’eteroclito non cerca di mettere alla prova la logica, o di manipolarla, ma piuttosto la demolisce. Un po’ come la famosa storiella di Achille Campanile sul signor Gianni Gianni, che nel fisico era un Leonardo Da Vinci più grasso, più basso, calvo, senza barba, più giovane e che non assomigliava affatto a Leonardo Da Vinci.
Già: Achille Campanile. Un autore che non legge più nessuno ma da cui bisogna necessariamente partire per capire un po’ meglio questa storia dell’eteroclito e, soprattutto, per mostrare come esista un filo rosso che parte da lui e, passando per Nino Frassica, arriva a uno dei comici della nuova generazione più seguiti in Italia: Valerio Lundini. La domanda a cui vogliamo rispondere è semplice e impossibile: perché Lundini fa così ridere?
Guido Almansi – tra l’altro uno dei pochissimi ad aver fatto un’osservazione intelligente a Carmelo Bene durante il primo Uno contro tutti al Maurizio Costanzo Show, prendendosi infatti del cretino – diceva che Achille Campanile obbediva alla forma romanzo come Garibaldi obbediva a Vittorio Emanuele: con la bocca storta. Ecco, vorrei spingermi ancora più avanti dicendo che Campanile guardava alla logica delle cose con la bocca storta, sostituendola con la sua visione altrettanto storta, obliqua e diversamente coricata della realtà. Spesso la sua scrittura e la sua trattazione del mondo vengono paragonate al lavoro sul teatro di Eugène Ionesco, all’assurdo, con il quale sicuramente condivide una naturale inclinazione patafisica. Ma Campanile fa qualcosa di ancora differente perché, per farci ridere, smantella progressivamente ogni disposizione logica di tenuta del mondo. Mi spiego meglio.
Solitamente, la premessa comica di ogni situazione narrativa, che sia una battuta, uno spettacolo teatrale, un film o un romanzo, prende le mosse da una spaccatura tra la realtà comica e la realtà vera, attuata dal punto di vista del personaggio. Più la spaccatura è ampia, più la storia farà ridere. Pensiamo, per esempio, a Mork e Mindy, il mondo terrestre visto e messo in discussione dagli occhi di un alieno. Per rendere tale prospettiva comica più efficace, si applica il più possibile l’esagerazione, che prende la spaccatura iniziale e la accelera, ingigantendola agli estremi. Come Woody Allen, che non è solamente nevrotico, è l’incarnazione di tutte le nevrosi del mondo, un manuale di psicanalisi che cammina. Inoltre, e questo funziona anche per la tragedia, tutte le storie si imperniano su un conflitto multilivello: uomo contro natura (un personaggio normale in un mondo comico, o viceversa), uomo contro uomo (come ne La strana coppia) e uomo contro se stesso.
È chiaro, però, che tutto questo armamentario categoriale funziona bene nella logica normale delle cose, mentre Campanile se ne infischia allegramente. Le sue storie non si sviluppano mai attraverso un conflitto tra uomo e uomo o tra uomo e società ma, come scrive Carlo Bo, “tra il personaggio e una quantità variabile di mistero […]. Si ha l’impressione che Campanile con il tempo abbia saputo perfezionare talmente questo suo atteggiamento di distacco e di libertà da dare quasi la sensazione fisica di un mondo totalmente disancorato”. Una sorta di trasposizione, non di un piccolo particolare (catastrofe), quanto di tutto l’insieme, per operare definitivamente una sostituzione della logica. L’eccezionalità delle sue pagine, per continuare con Bo, è infatti “quella di non essere nata come eccezione, come effrazione a una regola, ma come la più paradossale delle investigazioni che siano mai state condotte sulla realtà”.
Leggendo Campanile si ha sempre l’impressione che i suoi romanzi siano di fatto un compendio di tutti i meccanismi del comico.
Realtà eteroclita, ovviamente, dove l’umorismo non si dà mai con l’isteria delle battute, né con particolari guizzi linguistici o lessicali (Arnaldo Colasanti sosteneva a proposito che “la comicità di tutte le cose, sembra dirci Campanile, nasce dal fatto che le parole che usiamo abbiano senso sempre e solo per un istante”), quanto con una diversa disposizione delle cose. Ed è proprio nella dispositio, più che nell’elocutio, che Campanile fonda la sua comicità, nel suo modo di rimontare gli avvenimenti più comuni secondo una logica altra. Leggendolo, si ha sempre l’impressione che i suoi romanzi e i suoi racconti siano di fatto un compendio di tutti i meccanismi del comico, che però vengono ri-disposti in maniera differente.
Prendiamo per esempio una Tragedia in due battute, “Baccalà”, in cui durante una tempesta si vede in lontananza una nave in pericolo, con i marinai e i passeggeri che si agitano chiedendo salvezza e un baccalà, sicuro tra le onde e i cavalloni, pensa tra sé e sé: “Non arrivo a capire se la nave è in pericolo perché il mare è agitato o se il mare è agitato perché la nave è in pericolo”.
O ancora quella storiella che racconta di un violento bombardamento aereo notturno su una non ben precisata città, quando un uomo che dormiva beatamente nel suo letto, svegliato dal rombo dei caccia e dagli urli delle ambulanze, apre la finestra e urla: “Ma la finite di rompere i coglioni? Questa è ora di dormire!” e, dopo un silenzio improvviso, si sente una voce dagli altoparlanti che spiega come il nemico, colto di sorpresa dalla voce stentorea, ha sospeso i bombardamenti e, terribilmente mortificato, si sta allontanando zitto zitto scomparendo all’orizzonte. E la guerra è finita.
L’umorismo di Campanile è un umorismo di montaggio, che usa le parole, come diceva Victor Raskin, non in buona fede, e apre a una logica differente, eteroclita, in cui la base classificatoria della nostra esistenza si infrange contro l’impossibilità di mettere il suo mondo a sistema, almeno attraverso i nostri normali strumenti interpretativi. Campanile, e per estensione noi lettori, suo simulacro, è come quel tal Filippo che in Ma che cos’è questo amore? si ritrova in uno scompartimento in cui tutti i passeggeri si chiamano Carlo Alberto ed esclama: “Signori, m’accorgo che la mia presenza in questo scompartimento è di troppo!”.
Seguendo questi ragionamenti, risulta allora decisamente più semplice provare ad afferrare il senso umoristico di uno come Nino Frassica, per esempio, quando in Indietro tutta!, per far aprire il sipario della ruota della fortuna, esclama: Apriti, Cesare!, smantellando in due parole ciò che pensavamo fosse il fondamento della nostra realtà. Frassica, come Campanile, ci porta a farci delle domande su ciò che dice e a imparare a cercarne le risposte da qualche altra parte. Perché sembra chiaro: che cosa diavolo c’entra Cesare con Apriti Sesamo? Un imperatore romano e i racconti di Mille e una notte? In che modo si può disporre logicamente di un parallelo del genere? Come possiamo ridere di qualcosa di cui non capiamo le premesse?
Frassica, come Campanile, ci porta a farci delle domande su ciò che dice e a imparare a cercarne le risposte da qualche altra parte.
La soluzione del mistero, tuttavia, è molto semplice: non dobbiamo adagiarci sui nostri paradigmi, sulla rassicurante disposizione tassonomica e dizionariale della cultura e della realtà che abbiamo introiettato fin da piccoli. Quando ascoltiamo le battute di Frassica siamo sempre sulla corda perché ci sentiamo di troppo, come tanti Filippi in uno scompartimento di Carlo Alberti, il bandolo della matassa continua a sfuggirci e il nostro riso è un riso nervoso, di frustrazione. Non capisco! Poi, il clic: in poco tempo, e un po’ di esposizione al suo materiale, la risata diventa liberatoria, l’equivalente del mandare tutto e tutti affanculo, il lavoro, l’affitto, i rapporti sociali, le cose che bisogna fare perché si è sempre fatto così. Nino Frassica ci urla in faccia che sì, nonostante tutto possiamo ancora fare quello che ci pare, unire i puntini senza seguire i numeri in ordine crescente, smettere di sottostare a una logica che ci forza nel principio di realtà, che ci obbliga a fare i conti con la nostra finitezza nel cosmo, puntellata dalla goffaggine dei nostri tentativi da adulti di ritrovare un ordine rassicurante e pre-definito nell’entropia universale.
Anche perché, suvvia, per quale motivo al mondo uno che si chiama Giovanni Schiribirlinzi viene soprannominato Dodici dita perché gli puzza l’alito? Semplice: non c’è nessun motivo. Le cose, qui da noi, non funzionano così. E questa liberazione è indescrivibile, letteralmente indescrivibile, e può essere messa in discorso solo attraverso la risata che, non a caso, è uno degli aspetti più preponderanti della nostra vita e, allo stesso tempo, il più inspiegabile e inclassificabile. La risata come forzatura, come piede di porco, come scardinamento. Tutto è puro svago, distillato di piacere sganciato da ogni responsabilità, l’inutilità nel senso più nobile del termine: ridere per ridere, divertirsi per divertimento, inventare, demolire, ricombinare con lo stesso spirito di un bambino a cui regalano la confezione Lego della Morte Nera di Star Wars e lui usa quegli stessi pezzi per costruire un galeone pirata che sembra un galeone pirata solo a lui.
È opinione sempre più diffusa che Valerio Lundini sia la naturale prosecuzione comica di Nino Frassica, il suo erede. Lo si vede nella pratica, nei continui passaggi simbolici di testimone (il fratello del tenore di Calatrava cambia sempre nome a ogni interpellazione: le parole che usiamo hanno senso sempre e solo per un istante), e lo si vede nella teoria. Lundini è l’evoluzione della specie e, insieme allo Sgargabonzi, il perfetto prototipo contemporaneo dell’eteroclito. Non a caso, uno dei racconti più belli del suo libro Era meglio il libro, è essenzialmente una menardiana riscrittura di Vite di uomini illustri proprio di Campanile. Entro un attimo nello specifico, che ne vale la pena.
Il racconto di Lundini si chiama “I gorilla dell’Alta Marna” e ha come esergo la celebre frase di Voltaire: “Non condivido la tua idea ma darei la mia vita perché tu la possa esprimere”. Bene, la scena si apre con la telefonata di un impiegato del comune di Cirey-sur-Blaise che chiama proprio Voltaire e gli racconta di questo ragazzo delle sue parti che ha un’idea alquanto particolare: sparare a tutti i gorilla del mondo, portare tutte le carcasse in Alta Marna e usarle come attrazione turistica. L’impiegato comunale è in difficoltà perché dovrebbe chiedere al ragazzo di smettere di dire questa cosa dei gorilla, che sembra proprio una stupidaggine, ma quel ragazzo si è appellato a Voltaire. Dunque, chiede il comunale, lei sarebbe disposto a dare la sua vita per farlo continuare a sostenere questa cosa? Ovviamente no, risponde il filosofo francese, e così via per altre due o tre pagine di dialogo, in cui il l’interlocutore propone a Voltaire una seconda opzione: non proprio morire morire, semplicemente farsi venire una piccola sindrome di deplezione del Dna mitocondriale.
Ridere per ridere, divertirsi per divertimento, inventare, demolire, ricombinare con lo stesso spirito di un bambino.
Nelle Vite di uomini illustri, Campanile fa la stessa cosa con Socrate, quando racconta dell’accidentato percorso scolastico del filosofo e di quell’interrogazione in cui il professore gli chiede di dirgli quello che sa, e questi gli risponde: io non so che una cosa sola (è un po’ poco, commenta l’esaminatore, ma continui pure), io so di non sapere. Bocciato. E le mamme in città iniziano a dire ai figli: studiate, ragazzi, se non volete fare la fine di quell’ignorante di Socrate, che ha tanto letto per finire a non sapere nulla. E suo padre non si capacita, tutti i soldi spesi per i libri e le rette buttati via.
Campanile e Lundini prendono una frase o un concetto attribuito a un personaggio storico famoso e lo fanno esplodere, portandolo alle estreme e letterali conseguenze. Rimontano la storia in maniera differente, eteroclita. Non interessa qui sapere se Lundini conoscesse quel racconto prima di scrivere il suo, non è assolutamente rilevante. Quel che è certo è che entrambi attingono dalla stessa fonte, dallo stesso modo di vedere il mondo e dallo stesso piacere infantile di divertirsi dicendo cose fuori dal mondo. E Lundini, con questa cosa, ha fatto il botto, anche perché la sua coerenza interna in quanto performer è solidissima. Qualsiasi sketch a 610 con Lillo e Greg, qualsiasi segmento di Una pezza di Lundini, ogni sua invenzione umoristica da palco, come il famoso quiz Duce o non Duce, prospera perfettamente nel solco dell’eteroclito. La nostra sovraesposizione a Lundini – radio, televisione, libri, doppiaggi, pubblicità – è essa stessa un’operazione culturale, perché ci permette di superare lo scoglio delle domande logiche e abbandonarci al flusso foucaultiano del disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili.
E il bello di tutto ciò è che Lundini fa una comicità di montaggio, non di lingua, e dunque si lascia riassumere senza perdere efficacia. Possiamo raccontare le sue gag al bar anche a chi non le ha mai viste senza farle perdere in brillantezza, e questa è una cosa che, a pensarci, non vale praticamente con nessun altro. Mi viene in mente il fantastico format Carsherati, il nuovo progetto di car sharing che permette ai carcerati di passare la loro ora d’aria in giro per Roma in auto, per poter scoprire tutti i vantaggi e i prezzi bassissimi del servizio. O l’intervista a Piergiorgio Odifreddi, quando Lundini gli chiede: “se non esiste nessun Dio, professore, allora chi ha creato tutto questo?”, per poi mandare sul maxischermo una serie di immagini naturali di cascate, montagne, pesci colorati, il tutto con Enya in sottofondo e tutto lo studio in piedi ad applaudire. O anche solamente la stessa presenza in scena di alcuni anziani, stile Gennaro e Luis di Mai dire gol, che assistono al programma quasi sempre in silenzio e hanno pieno senso nella misura della loro stessa presenza, niente di più.
Se si ride per ridere, si esiste per esistere. Campanile, Frassica, Lundini insomma, non meritano solo le nostre risate, ma anche la nostra ammirazione. Perché l’eteroclito è cosa da bambini, non da grandi, ed è, se non l’unico, uno dei modi migliori per non crescere mai, o almeno non crescere mai come volete voi. Lo diceva anche Enrico Vaime parlando di Ennio Flaiano:
Io non sopporto i moralismi, di nessun genere, e Flaiano era il contrario di qualsiasi moralismo. È chiaro che si può giudicare in maniera molto cruda e crudele, anche. Un uomo, qualcuno può dire anche superficiale – non era vero – ma lo può dire. Un uomo che cerca di sfuggire alle proprie responsabilità: e be’, e non fa bene?