L’ Indiscreto. Il fine del mondo (Tlon, Edizioni Pananti) è la prima uscita cartacea della rivista online L’Indiscreto (Pananti). È stata curata da Francesco D’Isa, Enrico Pitzianti, Edoardo Rialti e ospita i contributi di Bogna Konior, Edoardo Rialti, Enrico Pitzianti, Francesco D’Isa, Gary Lachman, Gianluca Didino, Ilaria Gaspari, Raffaele Alberto Ventura, Roberto Paura, Valentina Maini.
La redazione del Tascabile ne ha parlato con il direttore editoriale dell’Indiscreto, Francesco D’Isa: di formazione filosofo e artista visivo, ha esposto in gallerie e centri d’arte contemporanea. Il suo ultimo saggio è L’assurda evidenza. Un diario filosofico. (Tlon, 2022) mentre il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017).
Matteo De Giuli: Siamo contenti di fare questa conversazione per festeggiare l’uscita cartacea dell’Indiscreto, per noi questi dialoghi – ne avevamo fatta un altro per l’uscita dei primi ebook Quanti di Einaudi – sono occasioni preziose per riflettere su cos’è e cosa può essere una rivista oggi. In più penso che L’Indiscreto e Il Tascabile abbiano diverse cose in comune. Prima di tutto uno sguardo ampio sui temi: voi come motto avete “un magazine inattuale” e “rivista di cultura e altro”, noi siamo per statuto “rivista enciclopedica” perché Treccani è il nostro editore, però insomma siamo tutte e due riviste online che parlano di scienza, letteratura, società, filosofia, arte, musica a volte, sottoculture… Poi lo facciamo in modi diversi, ovviamente. Ma nessuna delle due riviste pensa di avere l’obbligo di inseguire la più stretta attualità. In più ospitiamo pezzi di una lunghezza a volte spropositata, non so qual è il vostro record…
Francesco D’Isa: Penso che siano gli articoli di Tommaso Guariento o Edoardo Rialti, che sono arrivati a 80 mila battute.
MDG: Ah, allora mi sa che vincete voi, ma di poco, di qualche migliaia di battute. Ma siamo sempre in tempo…
FD’I: Forse c’è anche qualcosa di più lungo. Non mi ricordo bene, ma forse proprio Guariento: una volta mi disse… sì ti mando una cosina domani. Mi arrivarono 200 mila battute, che poi ho diviso in due parti.
MDG: Poi abbiamo anche alcune firme in comune, scorrendo di nuovo l’indice della copia cartacea, subito prima di incontrarti, mi sono accorto che ci sono almeno tre o quattro autrici o autori presenti dentro “Il fine del mondo” di cui anche noi abbiamo pubblicato almeno un pezzo. Ovviamente Il Tascabile e L’Indiscreto hanno anche approcci, interessi, stili ed estetiche diverse, e quindi anche le stesse persone che scrivono per entrambe le riviste poi scelgono o modulano i temi e la scrittura a seconda di dove pubblicano. L’Indiscreto è una rivista che per certi versi mi viene da descrivere come sperimentale… perché è eclettica e poliedrica con tante idee differenti dentro, una rivista che si apre a interessi diversi, dalla divulgazione scientifica al bacino filosofia-esoterismo-misticismo un po’ “adelphiano”. E quindi vorrei partire proprio da qui: visto che i vostri confini sono così sfumati, di solito, in termini di lunghezza degli articoli e di approcci, vorrei che ci raccontassi il lavoro che avete fatto nella costruzione di un’uscita cartacea che ha invece una lunghezza limitata e che bene o male ruota attorno a un tema.
FD’I: Allora, in redazione a dire il vero non si pensava a un cartaceo, siamo sempre rimasti dell’idea – per motivi anzitutto economici – di puntare sull’online. C’è stata però questa proposta da Tlon che ci ha molto tentato. La proposta di Tlon era sull’onda delle belle riviste cartacee uscite ultimamente: da The Passenger a COSE Spiegate bene del Post, per esempio. La nostra idea era di creare qualcosa che fosse più simile a un libro che a una rivista, non a caso L’Indiscreto cartaceo ha il formato del libro e si vende in libreria. Ora, dietro c’è anche un motivo burocratico, ovvero che non sono un giornalista quindi la rivista non poteva uscire in edicola, ma in ogni caso la scelta sarebbe rimasta quella di fare una collana, ovvero riuscire a costruire un libro per mantenere il nostro stile inattuale – questa è la nostra meta. Avevamo la speranza di creare un oggettino che si legge tranquillamente tra tre o quattro anni senza che sia “scaduto”. Per questo gli abbiamo dato un impianto più libresco. Sull’Indiscreto, come sapete, si pubblicano articoli inattuali, però ogni tanto qualche piccola incursione nell’attualità la facciamo, mettiamo online almeno tre pezzi a settimana, quindi ci può stare. Sul cartaceo si è deciso di restare più fedeli al nucleo Indiscreto originario. Ci siamo rivolti ad autori e autrici che conoscevamo, più rodatə, per avere una partenza liscia. Il tema è stata la parte più difficile. La maggior parte delle riviste che funzionano sono quelle che si danno un tema, i due esempi secondo me più interessanti sono appunto The Passenger e Il Post, sempre di Iperborea. Con L’Indiscreto è un po’ più difficile, però alla fine si è trovato il congegno stilistico di ribaltare un’espressione congelata del nostro linguaggio, in questo caso da “la fine del mondo” a “il fine del mondo”.
MDG: Avete poi affidato l’argomento agli autori e gli avete chiesto di interpretarlo come volevano?
FD’I: Sì, gli abbiamo dato il tema e una versione leggermente più lunga del mio editoriale. Sempre molto vaga, la versione più lunga l’ho fatta più retorica per stuzzicarli, ma non era un’idea precisa.
MDG: Nel libro ci sono connessioni improbabili che vengono tracciate all’interno dei pezzi e poi tra un pezzo e l’altro, penso al personal essay di Gianluca Didino sulla ricerca di senso nel mondo, o quello di Rialti che si lancia in una lettura di Gilgamesh come predecessore dell’epica hardboiled dei romanzi di Chandler. Però alla fine è venuta fuori, al tempo stesso, una cosa molto coerente, anarchica da un certo punto di vista, è vero, come da spirito della vostra rivista, ma molto coerente.
FD’I: Guarda ancora non ho capito se abbiamo avuto una gigantesca botta di, ehm, fortuna, oppure se ha funzionato molto bene la nostra impostazione. Mi sa che lo scopriremo la prossima volta. Abbiamo scelto gli autori anche in base alle loro specificità, mantenendo però la linea dell’Indiscreto, ovvero di non forzare gli autori e le autrici. Faccio l’esempio più estremo, Roberto Paura, che abbiamo chiamato per i suoi temi abituali, scientifici, mentre invece ci ha mandato un testo sull’escatologia cristiana che nessuno si sarebbe mai aspettato, però lo abbiamo accettato tranquillamente – anche perché è molto bello. Altre persone sono state più fedeli alla linea che ci aspettavamo, ad esempio che Ilaria Gaspari si buttasse sulla letteratura era più prevedibile, la traduzione invece si è trovata per puro caso, è stato bellissimo incontrare un’autrice con un articolo così coerente al tema. Didino è stato forse il più preciso, quello che ha sviluppato il tema in maniera più cogente.
MDG: Secondo me c’è un po’ questa cosa magica, che vediamo anche noi, e cioè che dopo qualche tempo che fai una rivista, dopo che hai creato il carattere di una rivista, dopo tanti pezzi in cui tu hai scelto gli autori e gli autori hanno scelto te, si creano dei fili invisibili che tengono tutto. Per cui noi sappiamo per esempio ormai che ci sono firme da cui ci aspettiamo pezzi che sono perfettamente “da Tascabile”, e quindi ci possono essere giorni interi di fila, nella vita della rivista, che vengono fuori così, in maniera del tutto naturale.
FD’I: Eh sì, anche per noi, alla fine chi scrive costruisce la linea editoriale, bene o male, quindi se ti affidi a persone che l’hanno seguita da un po’ di tempo, viene su da sé tranquillamente.
Chi scrive costruisce la linea editoriale, quindi se ti affidi a persone che l’hanno seguita da un po’ di tempo, viene su da sé tranquillamente.
MDG: È interessante la cosa che dicevi sul libro-rivista. È vero che adesso si sta sperimentando molto. C’è uno spettro molto ampio di possibilità. In edicola ci sono le riviste ormai storiche come Wired e Rivista Studio, ma per il resto mi sembra che si cerchi soprattutto di inventare formati che possano andare in libreria, anche per questioni di mercato e distribuzione. Tu citavi The Passenger di Iperborea che forse è stato il primo esperimento di questi nuovi rivista-libri che ha avuto successo, e poi quelli di Iperborea hanno anche fatto il bis co-curando Cose del Post. Sono volumi che riescono a vendere 15 mila copie. Ma ci sono tanti esempi, qui sulla scrivania per esempio ho Arabpop, che a me piace molto, pubblicato da edizioni Tamu, che sta facendo un grande lavoro in questi anni. Ma questi che ho citato sono tutti esempi di riviste diciamo divulgative, in cui ogni numero gira strettamente attorno a un argomento ben definito e codificato. È come se fossero, tutto sommato, delle classiche raccolte di saggi di autori vari. Quella che fate voi, o quello che potremmo fare noi se uscissimo con un cartaceo, mi sembra un’altra cosa ancora però. Perché anche se questo numero zero dell’Indiscreto di carta ha un tema, mi sembra una cosa secondaria, che sta sullo sfondo… alla fine è L’Indiscreto stesso il tema.
Elisa Cuter: Io infatti mi volevo legare un po’ alla cosa delle riviste che fanno anche volumi collettanei, un’esplosione che c’è stata nell’editoria stessa. Le raccolte di narrativa di autori magari ancora poco affermati, e adesso c’è un po’ la stessa cosa con la saggistica. Mi chiedevo se farlo a partire da una rivista risponde secondo te a un’esigenza di curatela. Operazioni editoriali come quelle che citavo raccolgono firme che non sempre dialogano, rappresentano dei “cluster” di autori che sono percepiti come tali solo a livello di target editoriale, ma che magari non si conoscono tra loro, né conoscono o hanno mai lavorato prima con chi li mette insieme. Le riviste possono un po’ supplire a questa esigenza? E se sì, come si rapporta questo al fatto che dall’altro lato, le riviste di cui parliamo hanno una redazione molto snella e online, senza un luogo fisico, in cui gli autori entrano ed escono senza essere affiliati?
Stella Succi: Aggiungo un pezzettino: come cambia questa raccolta per il fatto di essere nata dalla redazione di una rivista? Dopo anni di lavoro su un magazine online la pubblicazione cartacea è un’occasione per tirare delle file tematiche.
FD’I: Mah, guarda, avete detto una serie di cose molto interessanti su cui mi interrogavo anche io. Io penso che tutto sommato il lavoro che fanno le riviste, da un po’ di tempo ormai, sia alla fine quello di editori, sebbene in piccolo. Editori che lasciano emergere un humus culturale che poi si evolve altrove. Le riviste online ovviamente hanno un potere economico minore di un editore: a noi come Indiscreto piacerebbe tantissimo trasformare la rivista in casa editrice, ma sarebbe un investimento enorme, altro che cartaceo. Devi andare in perdita per vari anni per fare una bella casa editrice.
MDG: In effetti però viene quasi naturale. Non so quanti libri siano nati da pezzi del Tascabile.
FD’I: Infatti io ho visto nascere dei libri da voi, anche da noi sono nati vari libri. Succede, penso ancora a Ilaria Gaspari con le sue Lezioni di felicità. Però questi libri si diffondono, cioè pubblicano con la casa editrice x,y,z. Mentre questa piccola incursione nel cartaceo, secondo me, va un po’ in quella direzione là. Una collettanea può essere anche solo tematica, ad esempio ora guardando Elisa mi è venuto in mente “Non si può dire niente” per Utet, ma queste collettanee vanno per argomento e non hanno la linea editoriale di una rivista o una casa editrice. Sono progetti singoli e non creano un “serpente editoriale” come può fare un gruppo coeso come Il Tascabile, L’Indiscreto, eccetera. Lì c’è proprio una vera sfida editoriale. Ora non so voi, ma ovviamente quando si lavora nell’online noi rischiamo sempre un po’ di più, pubblichiamo anche argomenti che conosciamo meno. Piano piano emerge un nucleo di argomenti più duro, come nel caso della rivista cartacea, e questo accade in base alla risposta del pubblico, ai commenti, al parere di altri autori e autrici. Potrei definirla una volontà editoriale che si muove con budget ridotto. Come far emergere una forza culturale-editoriale che si basa su quel principio di scelta su cui si fonda una casa editrice, senza avere i soldi per fondare un’azienda di impatto nazionale? Con una rivista.
EC: Ti volevo chiedere una cosa a proposito dell’estetica. Il modo più sensato per mettere insieme dei contributi evidentemente è quello attorno a nuclei tematici, però ho la sensazione che in realtà la linea editoriale di cui parlavi, più che tematica, sia stilistica, formale. Noi quando scegliamo i pezzi abbiamo delle discussioni su come porci rispetto al pubblicare cose di cui magari non condividiamo necessariamente le tesi (posto che cerchiamo di evitare di fare dei corsivi, dei pezzi soltanto di opinione, ma vogliamo che siano pezzi di ricerca, di approfondimento), o su temi molto distanti dalle nostre sensibilità individuali. E spesso ci siamo trovati a pubblicare cose che noi personalmente non condividevamo, però c’era uno stile, un approccio al tema che ci sembrava valido e volevamo averlo. Quindi sulla questione di metodo e di scrittura, volevo chiederti se tu noti delle cose che accomunano i vostri autori. O anche, ampliando il discorso, la generazione di scrittori che le nostre riviste raccolgono.
FD’I: In realtà sì, è come dici tu, cioè più uno stile che un tema. Io sono abbastanza eclettico, ma con la rivista mi sono fatto una cultura in ambiti che conoscevo poco, come ad esempio il femminismo, o ho approfondito temi che già conoscevo, come la filosofia. Tra l’altro in redazione abbiamo idee diverse in merito a vari argomenti. Il nostro è più uno stile e lo stile è difficile da descrivere, è come la personalità: è facile dire cosa fa una persona, ma è difficile definire il complesso algoritmo che la muove nei confronti dei contenuti del mondo. Come base noi si tende a scegliere testi approfonditi, ben argomentati, ben scritti, che detto così non significa nulla, ok, ma indica comunque una certa prassi di costruzione del testo. A forza di scrivere, di frequentare narrativa e saggistica, sai quando un testo è comprensibile, accessibile, bene argomentato, privo di retorica inutile. Anche quando non conosci l’argomento, te ne accorgi, basta conoscere la scrittura e la retorica. Questo è più o meno il nostro stile. Mentre sugli argomenti a volte si fanno anche delle scivolate; abbiamo pubblicato pezzi non solo con cui non si era totalmente d’accordo, come voi, ma anche articoli con cui all’inizio ero d’accordo e poi ho cambiato idea. Però tutto sommato il gioco del pensiero è quello.
MDG: Il pezzo che chiude il vostro libro non è un saggio ma un racconto, molto bello, di Valentina Maini, un racconto po’ borgesiano sull’ossessione febbrile che una traduttrice prova per l’autrice morta su cui sta lavorando. Sul sito ogni tanto ospitate racconti, anche noi lo facciamo, di rado, ma ci sono pezzi di approfondimento culturale, tra i nostri, che hanno comunque un’impostazione e una scrittura letteraria. E anche per questo ho la sensazione che noi veniamo percepiti spesso come se fossimo una rivista letteraria, anche se poi quando guardi i dati gli articoli di gran lunga più letti sono quelli di scienza e società.
Io penso che tutto sommato il lavoro che fanno le riviste, da un po’ di tempo ormai, sia alla fine quello di editori, sebbene in piccolo.
Ma alla fine le riviste online in questi ultimi anni hanno creato proprio questo spazio ibrido, nuovo, che prima non c’era, almeno non in questa forma. Ne parlo spesso con Francesco Pacifico, perché è una di quelle dinamiche che ci interessano molto. Soprattutto per quanto riguarda le conseguenze inaspettate: per esempio penso ci sia una nuova generazione di scrittori e scrittrici, intendo dire proprio di narrativa, persone che dieci venti anni fa avrebbero esordito probabilmente direttamente nella narrativa, che oggi invece iniziano con la saggistica. Proprio perché le riviste online hanno creato questo spazio ibrido attorno ai saggi e all’approfondimento culturale, sono posti belli, in cui vuoi stare, farti notare, e sono riviste che circolano e sono lette a volte molto di più delle riviste puramente letterarie.
FD’I: Probabilmente anche lì c’è un discorso di vuoto come dicevi tu, se ci pensi la produzione culturale si divide ancora tra l’accademia, che ha un modo di produzione tutto suo, un mondo tutto suo, uno stile tutto suo, a tratti infernale, e il giornalismo standard. Da una parte dunque c’è l’articolo di un giornalismo leggero, informativo, fruibile ma spesso un po’ effimero e poco argomentato; dall’altra l’articolo accademico, iper-approfondito ma anche per questo specialistico e inaccessibile ai più – a volte anche mal scritto. La via di mezzo mancava, ed è stata un po’ fatta.
SS: Infatti per le nostre riviste più che di produzione culturale parlerei di intervento culturale.
EC: Avrei una curiosità metodologica, soltanto per sapere come lavorate: mi chiedevo se oltre a ospitare queste firme che probabilmente non troverebbero e non vogliono stare in accademia né nel giornalismo della cronaca, avete la sensazione di avere degli autori che avete fatto crescere voi? E qual è il vostro metodo? Come funziona il vostro editing? Capita di avere firme promettenti ma un po’ acerbe, che necessitano di essere non direi adattate ma sviluppate. A volte è difficile farlo avendo una redazione online, e non avendo modo di conoscere di persona questi autori, parlarci, capire da dove vengono e cosa gli interessa. Voi come vi regolate?
FD’I: A parte con autori e autrici rodate come potevano essere quelle del cartaceo, quando si lavora su pezzi promettenti e si ha del tempo da investire, si fa un botto di editing. In genere si fa su Google doc. E se ne fa davvero tanto. Di recente ho lavorato su un articolo di un’autrice molto giovane, che mi sembrava promettente, l’ho invitata perché avevo letto un suo articolo in una rivista che non conoscevo. Speravo parlasse del tema di cui avevo letto e invece ha parlato di tutt’altro, come spesso accade, però ha scritto un articolo che era molto interessante, ma la scrittura un po’ faticosa. Abbiamo fatto cinque o sei giri di editing e dopo l’articolo è andato bene, ne sono contento, dà anche soddisfazione quando lavori con una persona giovane che vedi che impara e lavora con te. Anche tu di rimando impari alcune espressioni e vezzi linguistici che evidentemente sei troppo vecchio per percepire o inventare. Tutto molto interessante – però è uno sbatti.
MDG: Quando abbiamo aperto Il Tascabile, mi ricordo bene che lo sforzo più grande che abbiamo dovuto affrontare è stato evitare che le persone ci mandassero sempre e solo quello che in redazione chiamavano il pezzone. Si era creata questa incomprensione per cui sembrava che sulle riviste online si dovesse per forza scrivere solamente “il pezzo definitivo”. Potevano essere saggi sui videogiochi open world o sull’arte post-internet oppure il profilo di uno scrittore italiano da poco riscoperto. Ma doveva sempre essere l’articolo ultimo e inappellabile che avrebbe messo la parola fine sul tema.
Questo ha mandato in burnout moltissimi autori, anche perché è un tipo di sforzo che non può essere bilanciato dal compenso economico. E in più per noi, da editor, era problematico da un altro punto di vista: perché alla fine erano sempre pezzi molto assertivi, molto maschili anche, e a volte magari bellissimi ma comunque spesso un po’ sterili. Perché non si mettevano in connessione con nient’altro. E in qualche caso abbiamo dovuto addirittura faticare, all’inizio, a convincere le persone a scrivere pezzi meno completi, non più brevi ma più imperfetti, a far capire che la cultura si fa anche a piccoli passi, magari scrivendo un articolo che metteva in connessione due romanzi solamente, e che va bene così, che anche così si riesce a dire qualcosa, che ogni pezzo può essere anche solo una frazione di un dialogo più ampio che l’autrice o l’autore apre con il resto del mondo culturale. Questo è stato per noi uno dei primi problemi che abbiamo dovuto affrontare dal punto di vista editoriale.
FD’I: Sì, è andata così pure per noi. Quello che dicevi mi ricorda una cosa che ha detto Raffaele Alberto Ventura in una presentazione online della nostra rivista, è una cosa che faccio anch’io e so che la fanno in molti. Le persone per crearsi un lavoro in quest’ambito spezzettano i propri futuri libri in varie riviste, è normale.
MDG: Beh ma perché è alla fine la rivista è anche un laboratorio dove provare le cose che scrivi, quindi è giusto che venga usata così…
FD’I: Esatto, sperimentano… Questo l’ho notato sin dall’inizio. Sul pezzone e via dicendo di cui parlavi, stessa impressione. Più che altro è accaduto con autori maschi – anche qui, un altro dramma. Ci hanno criticato in passato perché avevamo troppi autori maschi. Per risolvere la cosa feci una disperata call su Facebook, ora abbiamo un migliore bacino di autrici, però resta il problema che le proposte che riceviamo hanno una proporzione che sarà tipo 9 a 1 a favore dei maschi. Di conseguenza è chiaro che se hai 30 pezzi di cui solo 3 di firme femminili è difficile pubblicare alla pari… e c’è anche questo approccio di cui parlavi, ovvero alcune persone che pensano di scrivere un super pezzo su un argomento e risolvere la questione, che ovviamente è un gesto votato al fallimento a priori dal 2000 avanti Cristo.
SS: Francesco, tu dicevi che per il cartaceo sei “andato sulle firme sicure”, quando in realtà l’online ha una circolazione molto maggiore – anche se effimero, sono diverse le riviste che sono state messe offline e non esiste più nemmeno un archivio. La carta ha ancora un peso psicologico.
FD’I: Sì, ma secondo me non è tanto per i motivi che dici – la diffusione o la definitività. È vero, online si possono correggere i refusi, ma non è che se ti accorgi che hai pubblicato un articolo con degli errori lo cambi radicalmente, falsificherebbe il dibattito, al massimo metti una nota. Ed effettivamente le riviste online hanno anche più diffusione, quindi non è che “ci fai meno brutta figura”. Secondo me è proprio il fatto che con il cartaceo chiedi un investimento, offri un prodotto, e quindi vuoi che sia un pochino più definito. Anche nell’online ovviamente ci sono meccanismi economici, ma il lettore o la lettrice ha un prezzo da pagare minimo, perché sta leggendo gratis e ci è finita chissà da dove, insomma è una roba più fluida e sperimentale – ed è per questo che non rinuncerò mai all’online.
EC: Voi siete una rivista che ha un formato simile al nostro cioè ospita quasi esclusivamente long-form e non ci sono interventi tipo corsivi, dialoghi, rubriche fisse… Voi patite questa cosa? Ad esempio avete mai pensato di fare un restyling del sito?
Riuscire a parlarci attraverso le diversità è molto più stimolante che parlarsi allo specchio.
FD’I: Mah guarda, io, personalmente, ti dirò che la rubrica come casella editoriale non mi piace da quando son ragazzo perché tendenzialmente mi sembra sempre che porti a una sclerosi dell’argomento e crea quei meccanismi che forse sono stati un po’ deteriori anche nel giornalismo mainstream, la firma legata alla rubrica che poi finisce inevitabilmente per montarsi la testa e scrivere una caterva di sciocchezze, quindi non mi piace come meccanismo, cioè trovo sia un incastro che non produce buoni contenuti. Mentre l’assenza dell’incontro dal vivo la sento molto. Purtroppo qua c’è l’elemento caratteriale, io sono un asociale, eremita fino al ridicolo, però avere più incontri con chi scrive è la cosa di cui sento più la mancanza. Ora, anche questo video è un po’ più dialogico no? Quando conosci le persone, cambia tutto; voi siete persone con cui avrò fatto mille scambi online, ma quando uno si conosce dal vivo anche per un’oretta e fa una chiacchierata, tutto assume una cornice umana diversa, rilassata: lo scambio culturale diventa più permeabile, non ci sono tutti quelle eventuali, come dire, ruggini interpretative, perché il livello umano è più accogliente. Anche solo avere incontrato Matteo, la maggior parte delle volte per caso, o anche te Elisa, una volta a una festa, facilita la possibilità di parlare di certi contenuti senza fraintendimenti o schieramenti. Lo ripeto: in redazione lavoro soprattutto con due persone, Enrico Pitzianti e Edoardo Rialti. Tra noi abbiamo differenze clamorose eppure siamo amici e collaboratori – ma differenze proprio in tutti gli ambiti eh, ovviamente al netto di molte importanti somiglianze, che permettono un mondo comunicativo condiviso… riuscire a parlarci attraverso le diversità è molto più stimolante che parlarsi allo specchio.
EC: Pure i dialoghi che avete fatto su Facebook, le presentazioni che fate, sono comunque anche quelle una buona occasione. Noi quando facciamo ad esempio gli editing di nuovi autori capita spesso che magari prima gli telefoniamo e proviamo a fare due chiacchiere. Poi al telefono non funziona benissimo perché secondo me tanti giovani autori hanno una specie di timore reverenziale, e si rischia di fare sembrare queste telefonate un colloquio di ammissione quando l’intento era opposto.
FD’I: La redazione fisica manca, manca un posto dove stare tutti insieme. Siamo tutti dislocati. Ora, non so, per esempio, voi dove siete…
MDG: Se conti tutti e cinque siamo sparsi a Milano, Roma e Berlino…
FD’I: Eh, capito, siamo tutti sparsi, chiaramente è difficile. Avere la potenza economica di una bella redazione grossa, un grattacielo tipo il Daily Planet dove lavora Clark Kent, un posto dove tutti possono stare, magari con uno stipendio con cui si possono permettere di vivere in affitto nella città in cui lavorano, per me sarebbe tipo il paradiso. La distanza ha forse un piccolo lato positivo, credo anche per voi, almeno da come vi ponete, cioè che visto che si deve sopperire a questa mancanza di convivialità si è un po’ abbassato il livello di formalità, nel senso tutta l’etichetta, anche gerarchica, va abbassata per forza perché sennò come diceva Elisa, dalle persone a cui ti rivolgi non cavi niente, sono come intimidite da una gerarchia invisibile. Questo un po’ aiuta, almeno si elimina un filtro un po’ vecchio stampo.
MDG: Grazie di questa chiacchierata, è stato un bel momento di terapia di gruppo.