I l 13 Giugno 1923 Clarissa Dalloway esce di casa per comprare dei fiori. È una giornata fresca e soleggiata, una di quelle giornate che fanno tornare alla mente certi momenti dell’adolescenza. Clarissa attraversa le vie del centro di Londra pensando all’uomo che ha sposato, ai suoi pretendenti, agli amici, alla vita in generale. Alcuni di loro si riuniranno la sera al party che sta organizzando. I fiori sono essenziali. Le apparenze sono essenziali. È tutto bianco, splendidamente bianco, candidamente bianco. Solo l’ombra della guerra da poco conclusa e l’imminente suicidio dell’amico Septimus Warren Smith filtrano nella splendida bolla in cui vive Clarissa. Tutto il resto non si vede.
Un giorno indefinito di quello che potrebbe essere il 2021, la protagonista (di cui non sappiamo il nome) del romanzo Assembly di Natasha Brown (Anatomia di un fine settimana, Astoria 2022, trad. Valentina Ricci) si appresta a trascorrere un weekend nella lussuosa villa di campagna dei genitori del compagno. La donna è nera, lavora nella finanza, è appena stata promossa a uno dei ruoli più ambiziosi all’interno della compagnia. Esce dall’ufficio e prende il treno, nel frattempo pensa alla promozione, al compagno, al percorso che l’ha portata dov’è ora. Tutto è splendidamente violento, sessista, imperialista. Tutto quel che non si vede, la protagonista del libro di Natasha Brown ce lo racconta.
Molti hanno paragonato Assembly a Mrs Dalloway e non è difficile capire il perché dato che la struttura narrativa è per certi versi simile: una donna si prepara a un evento, attraversa la città coi propri pensieri, durante l’evento a cui si è preparata succede qualcosa di imprevisto nei confronti del quale la donna si trova a reagire alla luce dei pensieri elaborati durante la giornata che lo hanno preceduto.
Ma l’affinità finisce qui perché a distanza di quasi un secolo, un secolo in cui la società britannica si è trasformata attraverso una serie di eventi chiave che vanno, per citarne solo alcuni, dall’arrivo della Windrush nel 1948, gli anni edonisti della Swingin’ London, le proteste degli anni ‘60-’70, il Thatcherismo, il Blairismo, Brexit, il movimento Black Lives Matter, e oggi il governo Johnson, la protagonista di Assembly ha ben altri pensieri da condividere di quelli di Clarissa.
Non sono i tempi dei fiori, è il tempo della rabbia, è il tempo della violenza, il tempo in cui bisogna svelare l’ipocrisia di una società (non solo britannica) che si inorgoglisce dietro politiche di inclusione mirate solamente ad assimilare e colonizzare, politiche libertarie che non sono altro che forme di tokenism.
Non sono i tempi dei fiori: è il tempo della rabbia, è il tempo della violenza.
E ora fermiamoci un attimo, prima di continuare vorrei fare una piccola dichiarazione personale: sono una donna bianca e queer che ha avuto accesso a un’educazione universitaria di stampo postcoloniale. Vivo a Londra e sono circondata da attivisti e attiviste impegnati in campagne di giustizia sociale. Quella che segue è dunque una riflessione che parte da qui, che riconosce i privilegi della mia posizione e che desidera affiancarsi a una lotta che condivide, senza farla propria. Perché essere in una posizione di privilegio non lo rende possibile e perché credo che ogni forma di critica culturale per guardare all’Altro e al proprio oggetto di analisi debba prima di tutto essere consapevole delle coordinate da cui lo fa. Cosa che non sempre accade. Riprendiamo.
Dire che si stia muovendo qualcosa di nuovo nella letteratura e nelle arti britanniche degli ultimi anni è forse prematuro, o comunque non importante, però è innegabile che una certa nuova generazione di scrittori/trici e artisti/e black si stia facendo notare impostando il proprio lavoro sulla critica alle politiche di promozione della diversity piuttosto che sul racconto della propria lotta personale. Raccontano storie di uomini e donne nati in UK e che spesso (ma non solo) hanno frequentato scuole private, che hanno avuto successo professionale, che si muovono in un mondo neoliberale, trendy, privilegiato, ma che nonostante questo non sfuggono i tentacoli di un razzismo permeante e strisciante che si nasconde dietro il sorriso accogliente delle quote razziali, del tokenism più viscido e di uno stato di controllo che impone una violenza epistemica che non infrequentemente sfocia in violenza fisica.
Tra questi si possono nominare Caleb Azumah Nelson, il cui Open Water (Mare Aperto, Atlantide, 2021, trad. Anna Mioni) narra il trauma che porta impresso nella psiche il protagonista a causa della continua sorveglianza a cui lo sottopone il colore della pelle, Michaela Coel la cui serie I may destroy you racconta il tentativo di processare una violenza sessuale intrecciandola con altre storie di mancato consenso e di sfruttamento di capitale umano, e recentemente Natasha Brown, il cui Assembly è stato pubblicato con gran plauso della critica e racconta da un punto di vista intersezionale il costo umano pagato da una donna nera per raggiungere una posizione di successo professionale. Questi non sono che tre esempi e se ne potrebbero fare numerosi altri, ma quel che li contraddistingue è che sono tre esempi di successo di pubblico che sono stati definiti rispettivamente: un romanzo alla Sally Rooney ma con un protagonista black, una serie caustica come Fleabag ma con un cast black, una Mrs Dalloway black.
Ora la questione non è tanto la presenza di opere di riferimento pre-esistenti, ma che ognuna di queste opere sia stata considerata come la controparte nera di un’opera originariamente creata da un o un’artista bianco/a. E in questo si trova esattamente il punto su cui batte l’opera di Brown: a cosa serve parlare di inclusività e diversità quando questo si traduce nell’accogliere l’alterità all’interno di un sistema esistente e definito da una singola identità? Possiamo decolonizzare l’archivio, includere nuove voci da etnie minoritarie, possiamo dare visibilità a gruppi precedentemente invisibilizzati, ma farlo imponendo loro le proprie regole del gioco è immorale. Non solo. È esattamente l’opposto di quel che si predica: significa concedere per arrichirsi: dare diritti e voce per guadagnare punti onore. È tokenism, value signalling, violenza, elite capture.
Sono nata qui, i miei genitori sono nati qui, ho sempre vissuto qui, eppure non sono mai di qui. La loro cultura si fa parodia sul mio corpo.[nda. Le traduzioni che seguono sono dell’autrice]
Sii la migliore. Lavora di più, lavora in modo più intelligente. Eccedi qualsiasi aspettativa. Ma sii anche invisibile, impercettibile. Non mettere nessuno a disagio. Non importunare. Esisti solo nel negativo, nello spazio intorno. Non inserirti nella narrativa principale. Non farti notare. Diventa aria.
Apri gli occhi.
In Assembly, Brown sceglie di dare voce a una donna che vive in una posizione di ‘presunto’ privilegio: è una donna che lavora nella finanza, ha accesso a un’assistenza sanitaria privata esclusiva, ha appena comprato un lussuoso conversion flat a Londra, ha un fidanzato che lavora in politica e che la porta fuori a bere champagne, ha appena ricevuto una promozione invidiabile. Ma a che prezzo ha ottenuto tutto questo?
Lo ha avuto accettando le regole del gioco, studiando e lavorando il doppio, rendendosi invisibile, assimilandosi. Ha assunto il linguaggio del colonizzatore, si è lasciata guidare come una marionetta accettando di essere protagonista di una narrazione che la sbandiera come un’eroina: una donna che si è emancipata ed è stata premiata per il proprio sacrificio. Il prezzo che ha pagato è farsi volto di una campagna di promozione dell’inclusione, erigersi a modello da seguire, essere parte docile e compiacente di un sistema che la capitalizza. Ha dovuto accettare la critica acida dei colleghi per cui la promozione è parte di uno schema di quote e non il meritato traguardo di una profonda dedizione professionale, capire che senza quel sistema non avrebbe accesso alla sanità privata e che solo il capitale economico guadagnato nell’accettare di giocare la parte desiderata dal sistema le garantisce la sopravvivenza fisica.
Sono tutto quello che mi hanno detto di diventare. […] Sono quello che sono sempre stata per l’impero: puro, fottuto profitto. Una risorsa naturale da sfruttare e sfruttare, denigrare e sfruttare.
Ecco allora che la promozione e l’invito a recitare sul palco messo in piedi dal compagno e dalla sua famiglia rendono la consapevolezza dello sfruttamento nitida e il compromesso non diventa più sostenibile. Ma come denunciarlo quando l’unico linguaggio a disposizione è quello marcato dal peso della storia, da strati semantici accumulati da secoli di oppressione? Come è possibile usare in maniera neutra parole come bianco o nero quando portano iscritte nei segni che le compongono il riflesso della discrminazione a cui le ha associate la nostra società?
Qualsiasi valore le mie parole abbiano in questo Paese deriva dalla mia associazione con le sue istituzioni: università, banche, governo.[…]
L’unico modo che ho per esprimermi è attraverso il linguaggio di questi posti. I loro pregiudizi e le loro supposizioni permeano qualunque forma di ragionamento io possa costruire.
Queste parole, questi simboli arrangiati sulla pagina (a sua volta puro e incontaminato veicolo di elaborazione mentale), queste unità basilari di civilizzazione, come possono contenere intenzioni malvagie?
Il filosofo Olúfẹ́mi Táíwò definisce ‘deferenza epistemica’ l’atteggiamento per cui chi detiene il maggior potere in uno spazio definito decide intenzionalmente di lasciar parlare il soggetto marginalizzato a proposito di una questione che lo riguarda piuttosto che in sua vece. È l’opposto del mansplaining per intenderci. Essendoci in quello spazio una persona che rappresenta la categoria di cui si parla allora le si concede la parola. È un atteggiamento tipico di una certa classe neoliberale, aperta e attenta, che a volte può portare a situazioni di elite capture. Elite capture è un termine sviluppato in un contesto di studi sui paesi in via di sviluppo che si usa per descrivere il modo in cui gruppi socialmente privilegiati si avvantaggiano e controllano risorse economiche destinate alla società più ampia. Oggi lo stesso termine viene usato per riferirsi ai modi in cui gruppi sociali più privilegiati manomettono i progetti politici dei gruppi più marginalizzati. Un esempio comune è, sempre secondo Táíwò, la distorsione del concetto di identity politics che invece di essere usato per creare una rete di alleanze tra gruppi di diversa classe, razza o genere a supporto di un progetto politico condiviso (il quale è da intendersi come il componente di un progetto politico più ampio e non dell’intero progetto politico) viene sfruttato per indebolire e sabotare la tenuta di tale progetto, frammentando e atomizzando gruppi che altrimenti potrebbero essere alleati nel perseguimento di tale progetto.
Per tornare alla ‘deferenza epistemica’, il problema, sottolinea Táíwò, è che nell’atto di cedere la voce al gruppo (o rappresentante) oppresso o marginalizzato, non si guarda alla configurazione dello spazio in cui i soggetti si trovano. Ci si dimentica di interrogarsi su chi ha definito questo spazio, chi vi ha accesso e chi lo regola. E il rischio, nel fare questo, è che i soggetti marginalizzati che hanno trovato spazio nella stanza finiscano per replicare, non intenzionalmente, le stesse dinamiche di chi li ha marginalizzati, ovvero che si facciano portavoce di un gruppo a cui sono associati senza di fatto condividerne completamente l’esperienza. È come dire, sempre per fare esempi un po’ banali, che considerare di dare voce a un accademico afroamericano considerandolo portavoce dell’esperienza di una donna afroamericana che viene dagli slums di Detroit, significa risolvere la questione della rappresentanza. Ma il capitale culturale dell’accademico, la sua situazione di privilegio data dalla posizione (epistemic standpoint) in cui si trova, la deferenza che gli viene mostrata in virtù dell’assimilazione al gruppo oppresso e alla sua attuale posizione rischiano di invisibilizzare un’oppressione reale e di normalizzare, rendendola reale, un’uguaglianza solamente artificiale e parziale.
Il punto insomma è il solito: possiamo includere, ma se il processo di inclusione non prevede anche una messa in discussione e negoziazione del framework e dell’infrastruttura su cui si fonda lo spazio all’interno di cui l’Altro viene incluso allora non è possibile parlare di inclusione, ma solo di assimilazione. Come fa appunto Natasha Brown in Assembly, riprendendo le parole di bell hooks.
Citando bell hooks: se vogliamo avere significative opportunità di sopravvivenza ci dobbiamo impegnare in una pratica critica della decolonizzazione… proprio così! Ma come. Come possiamo analizzare il lascito della colonizzazione quando le fondamenta su cui è costruita sono oggetto di disputa nelle menti dei suoi beneficiari?
Táíwò non ha una soluzione protocollare, ma propone un nuovo approccio: essere responsabili e attenti alle persone che non sono ancora nello spazio in cui ci si confronta, decostruire e ricostruire gli spazi assieme e fare in modo che ci si possa sedere assieme. Non dare la parola, ma co-creare. Fare sì insomma che nessuno debba dichiarare, come la protagonista di Assembly, “I’m the right sort of diversity” ma mettere piuttosto in discussione i concetti stessi di inclusione e diversità e problematizzarli, perché decolonizzare non significa far entrare gli esclusi in uno spazio a loro vietato, ma allargare confini di questo spazio e riscrivere insieme le regole che lo governano.