Storie di salute mentale nel limbo dell’accoglienza.
Federica Gerini nata in Toscana nel 1990, dopo la laurea in biologia della conservazione entra nel mondo della Comunicazione della Scienza. Collabora con LIPU dove scrive di natura e biodiversità.
Rossella Marvulli Giornalista pubblicista. Ha una laurea magistrale in matematica e un master in Comunicazione della Scienza con una tesi sulle tecnologie impiegate per il controllo dei confini europei. Da anni si interessa alle migrazioni, fa lavoro di campo nei Balcani e scrive sul progetto editoriale Melting Pot Europa.
Gioele Lecquio nato in Liguria nel 1995. Dopo la laurea in biologia entra nel mondo della Comunicazione della Scienza. È particolarmente interessato agli aspetti multimediali della
comunicazione.
Enrico Schlitzer Enrico Schlitzer è nato a Roma nel 1994. Dopo una laurea in fisica e un dottorato in matematica, ha frequentato un master in comunicazione della scienza. Adesso si occupa della produzione di podcast e altri contenuti multimediali, principalmente a tema scientifico.
H
o tanti pensieri in testa, sempre… ma è soprattutto di notte che mi sento triste e i pensieri si fanno cupi. Per distrarmi provo a leggere un po’, sto cercando di imparare l’italiano, mi tengo impegnato, cerco di non pensare troppo”. Usman ha lasciato la Nigeria nel 2016 ed è arrivato in Italia dopo quattro anni; adesso vive a Castelfranco Veneto in uno dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS)che, a dispetto del nome, costituiscono la modalità principale di accoglienza in Italia.
La sua richiesta di asilo è stata rifiutata e ha chiesto un riesame. Ma ultimamente ha iniziato a sentirsi sempre peggio, ha dolori fisici e disturbi del sonno. I ricordi del viaggio si sovrappongono alle angosce del presente. “Non è stato facile arrivare fin qui. Ho visto molti dei miei compagni morire. È solo grazie a Dio che ce l’ho fatta e spero che non mi abbandoni proprio ora, spero che mi aiuti ad avere i documenti, questa è la mia unica preoccupazione. Che posso fare senza documenti? Questa situazione mi fa sentire inutile”. Il sistema di accoglienza italiano ospita più di 75 mila migranti, ripartiti fra i centri del Sistema Accoglienza Integrazione (SAI) e i CAS. Queste strutture si ispirano al principio dell’accoglienza integrata, per cui le persone accolte dovrebbero diventare autonome e ambientarsi nella nuova comunità attraverso progetti di inclusione lavorativa e scolastica. Nella realtà sono spesso luoghi di esistenze in attesa.
Di storie simili a quella di Usman ce ne sono tante: la maggior parte dei migranti ha subito eventi traumatici prima e durante il viaggio per l’Italia, ma anche dopo l’arrivo soffrono in molti anche a causa di una presa in carico inadeguata. “I centri ordinari del SAIprevedono uno psicologo in ogni struttura”, afferma Rossella di Iorio, operatrice sociale in Toscana. “Nei CAS invece questa figura era stata eliminata con i ‘decreti sicurezza’ lasciando un vuoto enorme, ed è stata reintrodotta solo di recente.”
La maggior parte dei migranti ha subito eventi traumatici prima e durante il viaggio per l’Italia, ma anche dopo l’arrivo soffrono in molti anche a causa di una presa in carico inadeguata.
I CAS, che attualmente ospitano circa il 70% dei richiedenti asilo,sono l’anello debole del sistema di accoglienza per quanto riguarda il supporto psicologico: si limitano a distribuire pasti, sorvegliare gli ospiti e rilasciare i documenti. Gli psicologi sono presenti per un tempo inadeguato o non sono proprio previsti; a occuparsi della sofferenza dei migranti sono principalmente gli operatori sociali, spesso non formati per questo compito. Stando alle ultime ricerche sui problemi psicologici nei migranti in arrivo i disturbi più comuni sono di tipo reattivo, cioè si manifestano in seguito a un trauma. La condizione più diffusa è il disturbo da stress post traumatico(PTSD), che varia tra il 5% e il 30% a seconda del campione studiato e della metodologia di ricerca.
Uno dei principali sintomi del PTSD sono i pensieri ossessivi, ma Transcultural Psychiatry, una delle riviste più autorevoli di psichiatria culturale,in un numero dedicato ai rifugiati, invita ad andare oltre l’idea di “disturbo post-traumatico” evidenziando i molti problemi di adattamento nei paesi d’arrivo. Sempre più studi attribuiscono alle difficoltà di vita post-migratorie un ruolo rilevante nel produrre nuova sofferenza mentale e nel riattivare vecchi vissuti traumatici.
Lungo la strada I migranti segnano nuove strade o ritrovano quelle già battute, dalle rotte a piedi dei Paesi Terzi a quelle dei giganteschi autobus della vicina Ucraina. Dal 24 febbraio a oggi, l’Ucraina si è ritirata nelle sue radure, le famiglie hanno abbandonato le più grandi città e i paesi più piccoli alla volta dell’Occidente, per un totale di oltre 6 milioni di profughi. Questi profughi, in quanto europei in fuga da una guerra, accedono automaticamente a una forma di protezione che pakistani e nigeriani faticano a ottenere di fronte a una commissione territoriale.
Ma l’Europa del 2022 è attraversata in ogni direzione da flussi migratori, sebbene si tratti di rotte molto diverse – diverse le ragioni storiche, diversa la cultura dei popoli, diverse le procedure di accoglienza e l’entità giuridica dei migranti in arrivo. Che dall’Africa o dal Medio Oriente si avventurino lungo le rotte verso l’Italia o il Nord Europa, che scelgano i Balcani o il Mediterraneo, un gran numero di migranti subisce violenze, abusi e sfruttamento con cui dovrà convivere per anni. Il debito con la rotta non è solo economico – il prezzo dovuto ai facilitatori per attraversare un confine particolarmente ostile –, ma anche umano ed esistenziale. Prendiamo l’ormai nota rotta balcanica: negli anni la rotta si fa e si disfa, cambia stazioni, punti di ritrovo, centri di smistamento; ma aldilà di piccole variazioni, dal 2015 si esprime sempre attraverso le medesime forme. I migranti partono dalla Turchia e cercano di risalire l’Europa verso i paesi del Nord. Un viaggio a tappe, che può durare anche anni: diversi di loro si fermano in Grecia, lavorano, pagati quattro soldi, ai raccolti nei campi di ricchi caporali greci, finché non riescono a racimolare il denaro necessario per proseguire.
Quando si organizza la traversata, le possibilità sono due: procedere sulle proprie gambe, arrivando dopo anni di tentativi, o affidarsi alle bande di passeur al prezzo di tariffe altissime. Fonti giornalistiche riportano che il tragitto dalla Bosnia all’Italia può costare dai 3.500 ai 5.000 euro. Alcuni una volta regolarizzati trovano un lavoro con contratto che gli permetta di finire di pagare i passeur: non è facile rimediare alla rotta anche quando è finita. È un’integrazione zoppa, scissa tra la passata condizione di irregolare e quella presente che rivendica un riscatto.
In Bosnia il flusso si accalca a nord-est, tra i villaggi di Bihac e Velika Kladusa. In quel lembo di terra la boscaglia fittissima copre i dorsi delle montagne al confine con la Croazia. I migranti si raccolgono nelle fabbriche abbandonate intorno ai villaggi costruendosi una piccola quotidianità. Le fabbriche occupate vengono ciclicamente evacuate dalla polizia per ordine del governo cantonale e i migranti si tengono pronti a sloggiare in qualsiasi momento. Saadat ha vissuto tutto: lo sgombero, la perdita di un amico in un incidente stradale e quattordici tentativi di raggiungere il dorso opposto di quelle montagne e di “vincere il game”. Su questo confine gli agenti della polizia croata respingono illegittimamente i migranti, e per farlo si macchiano di ogni forma di violenza: percosse, morsi di cani, colpi di manganello.
Quando un migrante viene respinto in Bosnia, riprova il game sperando ogni volta che la corrente sia più gentile, sperando di azzeccare la giusta radura, di correre più forte quando gli alberi non basteranno a schermarlo. “I will try the game again tomorrow night”, dice Saadat stringendosi nel maglione, “I will pass this time”. “Inshallah!”, aggiunge: se Dio lo vorrà. Il game è questo terno al lotto, il tentativo di passare quel confine, che forse riuscirà, forse no. Questa parola ritorna poi nelle comunità di accoglienza, durante le audizioni con la Commissione territoriale, quando ormai il game è diventato un peso mansueto.
Anche la rotta mediterranea ha i suoi pattern, dagli attraversamenti dei deserti alla lunga permanenza nei campi profughi della Libia. In questi luoghi le violenze fisiche e psicologiche da parte di trafficanti e forze dell’ordine sono sistematiche. La Libia è l’ultimo punto di raccolta, spesso dopo settimane di viaggio e mesi di attesa al confine, prima di abbandonarsi al ventre del mare. Alle rotte migratorie si sovrappongono quelle dei traffici illegali e della tratta di esseri umani. I migranti più fragili, più poveri, più arresi corrono il rischio di essere assorbiti dentro queste reti. Molti raccontano questi periodi come i momenti più traumatici della rotta. Ifama, originaria del Camerun è stata rapita, ma la famiglia non era in grado di pagare il riscatto, e così è stata inserita nella tratta delle donne da destinare alla prostituzione. Ifama si sente fortunata per essere sopravvissuta, ma dei suoi traumi non è ancora in grado di parlare. Quando si confidano certe pieghe del passato, c’è il rischio che il rimosso ritorni vero sotto gli occhi dell’altro. Di ciò che le è successo ha dovuto accorgersi la sua ginecologa durante una visita di routine: un aborto a seguito di una violenza sessuale.
Un recente report dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni segnala un significativo aumento di adolescenti tra le vittime della tratta di esseri umani lungo le rotte dei migranti.
Un recente report dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (OIM) segnala un significativo aumento di adolescenti tra le vittime della tratta di esseri umani lungo questa rotta. Giovani donne nigeriane vengono inserite in un sistema di prostituzione che si snoda dall’Africa all’Italia. Giunte in Europa, molte si dichiarano maggiorenni sotto imposizione dei trafficanti, per poter vivere in strutture di accoglienza da cui sia possibile continuare il loro servizio sessuale. Il tempo gioca un ruolo fondamentale nella percezione dei traumi della rotta: che sia attraverso il Mediterraneo o i Balcani, il viaggio dura abbastanza da smussare gli spigoli di questo vissuto e normalizzarlo. Migrare significa rispecchiarsi in modo ripetuto nel trauma. Quando un contenuto intollerabile per la coscienza viene normalizzato, da evento straordinario diviene il suo contrario, un archetipo ineludibile dell’identità. In Bosnia: l’ultima frontiera, lo storico Gabriele Proglio scrive: “quando un bambino pensa che sia normale attraversare i boschi, non andare a scuola, essere respinti, arrancare sotto la pioggia, significa che il veleno del trauma si è depositato sul fondale della psiche”.
Un nuovo limbo Quando riescono a evitare i respingimenti lungo i confini, i migranti giunti in Italia da irregolari vengono identificati, fanno richiesta di asilo e ottengono un permesso temporaneo, valido fino al momento dell’audizione con la Commissione Territoriale. Qui si valuterà la loro storia e si deciderà se dare loro una forma di protezione e una regolarizzazione dello status giuridico. Questo iter è costellato da colloqui con mediatori culturali e operatori sociali il cui esito è incerto fino al momento della sentenza. I colloqui preliminari all’audizione sono finalizzati a costruire insieme al migrante una narrazione consistente del suo vissuto, ma spesso l’intima vicenda delle persone è strozzata dalle maglie della giurisprudenza, tutta tesa a reperire prove convincenti, fatti rilevanti e racconti-chiave, ma sorda di fronte alla memoria emotiva della vittima.
In base al loro status (famiglie, minori non accompagnati, single men), i migranti sono quindi distribuiti nei SAI e, quando questi sono saturi, nei CAS, che possono arrivare a ospitare più di cento individui al giorno. Spesso queste strutture impongono una routine e un senso del tempo quasi da detenzione a tempo indeterminato. Alcuni testimoni della vita in accoglienza parlano di “rabbia e mancanza di fiducia”. Rossella di Iorio afferma: “nella maggior parte dei casi, la Commissione dà al migrante un esito negativo al quale si può fare ricorso in tribunale. Tra l’esito della Commissione e il ricorso al tribunale passano quattro, cinque anni. Alcuni ragazzi tendono a demoralizzarsi ed entrare in uno stato di apatia”.
Roberto Beneduce, psichiatra e professore di antropologia culturale all’Università di Torino, parla di individui “resi fragili dalla vulnerabilità sociale ed economica, dalla precarietà del loro statuto giuridico, vittime di quelle discriminazioni e di quei pregiudizi tipici della transizione a una nuova cultura”. Questa transizione impone un costo non solo identitario (limitare fino a tradire i capisaldi della propria cultura originaria), ma anche umano e morale: molti ragazzi migrati in Europa hanno studiato per anni nei loro paesi di origine, dove, in tempo di pace o in assenza di regimi autoritari, avrebbero potuto vivere una vita economicamente dignitosa. In Europa invece si rifugiano nel lavoro in nero, soprattutto nel settore della ristorazione, con mansioni come lavapiatti o camerieri. Ottenere documenti regolari, imparare una nuova lingua e nonostante questo scegliere il lavoro nero fanno parte di una traiettoria ordinaria per chi migra in Europa, uno scarto del valore della propria vita in cui, nel migliore dei casi, ci si ritrova a vivere da cittadini di serie B.
Miraggi In Italia, ad oggi, il supporto psicologico e psichiatrico non è una prassi sistematica nelle strutture di accoglienza. “Per quel che ho avuto modo di vedere, è ancora tutto da costruire”, racconta Elisa De Francisci, operatrice sociale presso una struttura di accoglienza per minori stranieri non accompagnati di Trieste. “Certo”, continua, “moltiragazzi arrivano in accoglienza a ridosso della maggiore età e si dà priorità alla parte burocratica, per ottenere un permesso di soggiorno il prima possibile”. I ragazzi escono da questo polverone burocratico con tutti i documenti in regola, ma spaesati e senza riferimenti.
“I Sistemi di Accoglienza e Integrazione”, racconta Rossella Di Iorio, “prevedono la presenza di uno psicologo di progetto”. Ma la sfida posta dai migranti rende insufficiente la figura dello psicologo tradizionale, privo delle categorie di pensiero e degli idiomi culturali della sofferenzapropri della popolazione migrante. Inoltre, il referente di struttura, gli operatori sociali, lo psicologo e il mediatore culturale giocano ruoli indipendenti ed entrano in scena all’occorrenza, spesso senza ascoltare mai la persona nell’ambito di un colloquio congiunto: alla fine, ciascuno ne ha una conoscenza parziale ma nessuno è in grado di operare una valutazione complessiva.
F.P., operatrice sociale presso un CAS in Toscana, racconta di un caso psichiatrico difficile, emblematico. La dinamica è ciclica: Samson, un ragazzo di origini nigeriane, esibisce comportamenti molto violenti, viene sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio e a terapia farmacologica, che interrompe dopo qualche settimana. “E si ricomincia da capo”, racconta. I servizi sono insufficienti per stabilire una relazione vera con i pazienti: “noi operatori creiamo un rapporto di fiducia con i ragazzi, ma presentare occasionalmente una figura esterna, come uno psicologo o uno psichiatra, con cui non hanno un rapporto di fiducia, semplicemente non funziona”. Questa separazione dei poteri tra attori dell’accoglienza non tiene conto della fluidità del vissuto umano. Un’altra dinamica tipica è la “logica del dominio compassionevole”, frutto dello squilibrio di potere tra “noi” e “loro”, che le operatrici ritrovano sistematicamente nel loro lavoro. Elisa afferma che alcuni operatori hanno un “atteggiamento infantilizzante”: il ragazzo migrante “ha alle spalle una storia e un percorso che lo rendono quanto mai lontano dai dodicenni italiani”, ma in accoglienza è equiparato a un bambino a cui imporre una rigida routine o a cui minacciare delle punizioni in caso di infrazioni. Il migrante viene visto come un soggetto debole e senza cultura, che “dovrebbe solo ringraziare per i servizi offerti.”
La sfida posta dai migranti rende insufficiente la figura dello psicologo tradizionale, privo delle categorie di pensiero e degli idiomi culturali della sofferenza propri della popolazione migrante.
Questi meccanismi si riflettono anche nella dimensione della salute mentale e dell’aiuto psicologico e psichiatrico, la cui cattiva gestione rispecchia le carenze dell’intero sistema di accoglienza. Il dottor Gianfranco Schiavone, studioso delle migrazioni internazionali, descrive un quadro in linea con quello fornito dalle operatrici. Secondo Schiavone, bisognerebbe trovare un’intesa tra le strutture di accoglienza e gli enti specializzati in salute mentale presenti sul territorio. Queste intersezioni virtuose dovrebbero intersecare le proprie competenze, in modo che la tutela della salute mentale del migrante smetta di essere un servizio da ufficio e diventi una sfida umana da affrontare con onestà e coraggio. “Ormai molti anni fa, nel 2010, è stata stipulata una convenzione tra l’azienda ospedaliera di Trieste e il Consorzio Italiano di Solidarietà. La convenzione prevedeva la costruzione di un’equipe mista, composta da medici, psicologi, operatori sociali, avvocati, finalizzata a colmare le lacune nel supporto psicologico e psichiatrico dei richiedenti asilo.” Ma il progetto è rimasto attivo solo per pochi anni.
Un altro tentativo risale al 2017: il Ministero della Salute aveva costituito un tavolo tecnico per formalizzare l’accesso ai servizi di salute mentale di migranti e rifugiati vittime di violenza psicologica, fisica o sessuale. Le linee guida del progetto prevedevano la formazione di equipe multidisciplinari in grado di seguire i migranti presi in carico, produrre dei report e generare dibattito. Secondo questo modello, l’integrazione dei migranti traumatizzati dovrebbe compiersi attraverso le molteplici dimensioni dell’accoglienza, compreso quello della salute mentale. “Solo così la salute mentale diventa un fatto di responsabilità pubblica e non solo un’attività ambulatoriale”, osserva Schiavone. Il 3 aprile 2017 il Ministero della Salute ha emanato con decreto il testo delle linee guida, ma il progetto è rimasto sulla carta. Non è l’ultima iniziativa promettente che prende forma, viene approvata e svanisce come un miraggio.
“E poi c’è la parte più spinosa della questione”, continua Schiavone. “I destinatari del progetto non dovevano presentare necessariamente dei problemi di salute mentale diagnosticati”. I migranti vittime di violenze e torture spesso riportano un quadro non riconducibile a disturbi o patologie psichiatriche specifiche. L’obiettivo non era medicalizzare il migrante, ma consentirgli di rielaborare il proprio vissuto. “Immagina cosa deve significare per una persona il fatto che gli altri vedano ciò che ha subito. Riabilitare non vuol dire solo distribuire medicine, fare terapie e incontri psicomotori. Riabilitare significa innanzitutto riconoscere ciò che è avvenuto. Qualcosa che va aldilà della dimensione puramente diagnostica”.
Anche l’ottenimento della protezione internazionale e la denuncia delle violenze subite sarebbero dunque profondi momenti riabilitativi. Viceversa, i percorsi di accoglienza traballanti, non riconoscendo il migrante nel suo vissuto contribuiscono a esacerbarne la sofferenza. Le linee guida del Ministero della Salute riportano che, nei richiedenti asilo sopravvissuti a esperienze di tortura, la prevalenza del disturbo da stress post-traumatico varia dal 9% al 50%. E questa variabilità è in gran parte dovuta alle differenze nel percorso di vita post-migratorio. Nel documento ufficiale si legge che “La prevalenza di PTSD è minima in chi riceve buoni percorsi di accoglienza e permessi di soggiorno senza scadenze rispetto a chi ha visti temporanei e corre il rischio di espulsione”.
Le conseguenze di queste mancanze istituzionali si osservano tutti i giorni nelle comunità di accoglienza, dove la sofferenza viene presa in carico solo quando raggiunge dei picchi di acuzie. Ma il disagio non curato può arrivare a interferire con il presente del migrante, fino a compromettere l’esito di una domanda di asilo. In questa fase, il migrante sa che la raccolta del suo vissuto resta finalizzata al riconoscimento della Protezione internazionale, e non è raro che le storie personali vengano manomesse nel tentativo di ottenere tale riconoscimento. Il compito delle istituzioni è allora di districare questa matassa per garantire la protezione a chi ne ha diritto. Ma può esserci anche una forma di manomissione involontaria dovuta al trauma. “Uno dei tratti più ricorrenti nelle vittime di violenza è quella che gli specialisti chiamano ‘memoria traumatica’: una memoria spezzettata, piena di rimozioni e contraddizioni, l’opposto di ciò che viene richiesto nelle domande di asilo”, continua Schiavone. Queste si giudicano fondate in base a un principio di coerenza e di credibilità della descrizione dei fatti. Nei casi più eclatanti, la commissione territoriale ha rifiutato la richiesta di un migrante confuso, perché la narrazione portata in sede di audizione appariva infondata. Usman, il ragazzo nigeriano che da mesi vive nel CAS di Castelfranco Veneto, continua a stare male, tormentato da angosce che gli tolgono il sonno. Se all’arrivo i libri riuscivano a tenere a bada il suo rimuginio interiore, negli ultimi mesi le preoccupazioni sono diventate insopportabili e i quaderni restano chiusi sulla scrivania. Gli operatori continuano a fare avanti e indietro dalla sua camera. Il suo sguardo è ormai spento. “Cosa ne sarà di me quando uscirò di qui?”, chiede ripetutamente. Privato di uno spazio e di un tempo personali, vive una quotidianità storpia, sul limitare dei meccanismi burocratici da cui dipende la sua permanenza o il suo rimpatrio. Dalla sua camera si sente un canto proveniente da un cellulare. Usman si è addormentato su una nenia del Corano. L’operatrice chiude la porta e lo lascia dormire: forse il sonno spezzerà per un attimo quella catena. A volte l’oblio è la migliore forma di serenità.