L a sera del 17 febbraio 1908, una piccola folla di uomini uscì dal 21 di via Po, a Torino, sede dell’Ambrosio Biograph, una delle prime sale di proiezione del paese. “L’aula in cui accorre di consueto una folla che sbuccia aranci”, si legge nelle cronache dell’epoca, “folla di piccoli borghesi, di operai e di bambini, [questa volta] era gremita di un occhialuto e calvo pubblico scientifico”. Erano i soci della Reale Accademia di medicina torinese, tra i quali spiccavano i nomi di Lorenzo Camerano, rettore dell’Università di Torino, Luigi Pagliani, preside della facoltà di medicina, e il padre dell’antropologia criminale, Cesare Lombroso.
Non erano lì per assistere, come era abitudine fare in quel locale, “alle esilarantissime scene della moglie gelosa o a quelle veramente drammatiche ed emozionanti della piccola eroina”; quella sera, quella inconsueta folla si era radunata per guardare un’anteprima assoluta: La nevropatologia, la prima pellicola a tema scientifico mai girato nel nostro Paese.
La nevropatologia si può considerare il primo documentario scientifico italiano, e uno dei primi al mondo; eppure poco si conosce della genesi di questo film, e poco anche della sua realizzazione
Le immagini mostravano una dopo l’altra una serie di persone, talvolta affiancate da due uomini in camice: i piemontesi Camillo Negro, professore di neurologia, e Giuseppe Rovasenda, suo assistente. I due furono probabilmente presenti alla proiezione, ancora muta, e possiamo immaginarli mentre accompagnano le immagini con spiegazioni e commenti. I soggetti del film erano ventiquattro pazienti del professor Negro, affetti da malattie neurologiche e psichiatriche, all’epoca indicate come “emiplegia organica ed isterica, malattia così detta del Parkinson (paralisi agitante), accesso epilettico, grande crisi isterica, varie forme di corea e di tics”.
Camillo Negro, nato a Biella nell’anno dell’unità d’Italia, fece riprendere i suoi “casi esemplari” presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza, un istituto meglio conosciuto con il nome di Cottolengo, e la sezione di malattie neurologiche del Policlinico Generale di Torino tra il 1906 e il 1908 grazie all’aiuto del regista e operatore (a quel tempo i ruoli combaciavano) Roberto Omegna. Il professor Negro aveva concepito questi filmati come strumento didattico, da mostrare a studenti ed esperti di medicina per illustrare loro quei casi clinici la cui complessità la carta stampata e la trasmissione non erano in grado di rendere pienamente. La nevropatologia, infatti, era stato prodotto soprattutto a favore delle piccole università che scarseggiavano di materiale clinico vivente sul quale studiare. Arrivò tuttavia a essere proiettato anche nella culla della neurologia: l’ospedale la Salpêtrière di Parigi.
Dei fotogrammi originali della Nevropatologia se ne sono conservati solo alcune parti. In una versione di circa quaranta minuti restaurata nel 2011 dal Museo del Cinema di Torino assieme al dipartimento di neuroscienze dell’Università di Torino, le prime immagini mostrano visi di donne i cui occhi si rivolgono spasmodicamente verso l’alto. La scena seguente mostra un uomo in completo scuro seduto su una panchina con le mani poggiate sulle gambe. La destra non riesce a star ferma, trema. L’uomo guarda in camera e tende il braccio a mostrare il tremore, poi stringe le dita in un pugno cercando di mettere fine al movimento involontario. Riesce a tenere la mano chiusa, quasi del tutto ferma, per qualche secondo. Infine, l’uomo posa la mano di nuovo sulla sua gamba e, dopo poco, il tremore riparte.
Infine la scena visivamente più d’impatto, quella di una paziente con i capelli scuri raccolti e vestita di un lungo abito nero. L’inquadratura riprende quello che sembra un set teatrale, con una parete dipinta sullo sfondo e un letto al centro della scena. La donna indossa una maschera dello stesso colore del vestito a coprirle il volto, per non svelarne l’identità. È accompagnata dai due scienziati e mentre i tre conversano, all’improvviso la donna viene presa dalle convulsioni. Negro e Rovasenda la sorreggono e la posano sul letto combattendo contro il suo dimenarsi agitando le braccia in confusi vortici. Mentre i due uomini cercano di calmare la crisi, un cane entra in scena per alcuni secondi, si avvicina come a controllare che la donna stia bene e va via. Pian piano le convulsioni si placano finché i due, con aria soddisfatta, la aiutano a tirarsi su.
La nevropatologia si può considerare il primo documentario scientifico italiano, e uno dei primi al mondo; eppure poco si conosce della genesi di questo film, e poco anche della sua realizzazione. La pellicola al tempo costava molto, e la grande quantità, oltre che all’ottima qualità, del materiale girato ha prodotto negli anni alcuni sospetti sull’autenticità di alcune delle scene. Per Omegna però fu l’inizio di una brillante carriera di creatore di documentari.
Coolaborò ancora con Negro durante la prima guerra mondiale riprendendo alcuni pazienti dell’ospedale militare di Torino, tristemente noti come “scemi di guerra”. Nella versione restaurata de La nevropatologia sono state aggiunte alcune di queste scene, dove giovani uomini mostrano le conseguenze del conflitto sulla loro psiche. In una scena, una stanza spoglia, la luce filtra dal fondo, attraverso delle vetrate, e illumina un vecchio termosifone davanti al quale sono stati gettati dei materassi. Su questi un giovane uomo si agita in maniera frenetica e mima dei gesti che ricordano l’impugnare un fucile e sparare.
Omegna proseguì la sua carriera di regista scientifico teorizzando il film come strumento di indagine e di ricerca. Laureato in matematica e fisica, prima di iniziare a dedicarsi al cinema aveva lavorato qualche anno in banca. A ventotto anni aveva deciso di seguire la sua vocazione per la fotografia e la cinematografia, riuscendoci anche grazie al supporto economico di Arturo Ambrosio, fotografo e imprenditore torinese, fondatore di una delle case cinematografiche più importanti dei primi decenni del Ventesimo secolo.
Omegna fu in grado di sfruttare le sue abilità manuali, sapeva infatti di costruire e modificare autonomamente parte dell’attrezzatura, e le sue conoscenze in fisica e chimica per costruire set che sembravano laboratori. Un esempio su tutti: nello studio della Ambrosio, un capannone sulle rive della Dora alle spalle della Mole, Omegna raccontò in un’intervista del 1913 alla Gazzetta del Popolo che poteva alzare la temperatura dell’ambiente in cui aveva racchiuso circa duecento bruchi, per accelerarne la trasformazione in crisalidi e poi farfalle. Lo fece in estate, a luglio, ristorandosi dalle alte temperature, che sfioravano i sessanta gradi, tenendo a contatto la fronte con una borsa di ghiaccio equipaggiata in un cappello bordato in alluminio.
Omegna fu in grado di sfruttare le sue abilità manuali e le sue conoscenze in fisica e chimica per costruire set cinematografici che sembravano laboratori.
Ma il capannone era enorme e una volta sviluppatesi le farfalle rischiavano di volare via sfuggendo alla ripresa. Per questo Omegna tenne gli insetti a digiuno e dispose attorno alle gabbie dei fiori imperlati di acqua. Una volta aperte le teche, le farfalle affamate volarono sui fiori, consentendo al regista di effettuare le sue inquadrature. Alla fine, racconta Omegna, le farfalle “senza alcun timore, dopo essersi saziate sui fiori, venivano anche a posarsi sulla mia persona e sulla macchina”.
Il film che ne venne fuori, un documentario muto di circa dieci minuti chiamato La vita delle farfalle, vinse il primo premio per la categoria scientifica al Concorso Internazionale Cinematografico di Torino indetto in occasione dell’Esposizione dell’Industria e del Lavoro del 1911. La giuria lo premiò anche per l’utilizzo di tecniche di ripresa e montaggio, come quella delle riprese intervallate che produce l’effetto che oggi chiamiamo timelapse e che consentì di assistere all’intero ciclo di vita delle farfalle concentrandolo in pochi minuti.
Cifra stilistica di questo film, così come dei successivi, è quindi un rigore scientifico accompagnato da una spettacolarizzazione del fenomeno che però non ne altera brutalmente la natura. È sorprendente notare la consapevolezza quasi epistemologica che Omegna aveva su quanto i fattori esterni a un fenomeno rischino di influenzare e distorcere le riprese. In uno scritto del 1939, il regista affermò infatti che il film scientifico
si presenta come una vera e propria analisi, nella quale si deve procedere con piena obiettività per non introdurvi elementi che possono squilibrare il fenomeno, falsando nella sua determinazione parziale e finale. Basta, ad esempio, che, esaltati dalla bellezza del fenomeno che si sta svolgendo, e spinti, come naturalmente avviene, dal desiderio di vederlo compiuto, si intervenga con un fattore accelerante (maggior calore, umidità intensità magnetica, ecc.) perché il ciclo evolutivo non sia più normale e si debba, a lavoro compiuto, ridurre il fenomeno alla sua normalità. Ma se ciò può incidere in modo non profondamente sfavorevole nel caso di un film didattico, ben altrimenti deve dirsi per un film di ricerca scientifica, perché anche il tempo nel quale si svolge un fenomeno rappresenta un elemento della più alta importanza.
Dopo aver fatto la fortuna della Ambrosio, Omegna nel 1926 si trasferì a Roma per lavorare nel nuovo Istituto Luce. Il partito fascista aveva infatti iniziato a concentrare i suoi sforzi in ambito cinematografico nella capitale, sottraendo linfa vitale alle iniziative nate nelle altre città. I lavori di Omegna servivano al regime fascista per costruire una visione positivistica della scienza, per realizzare documentari didattici e pedagogici che esaltassero l’importanza del progresso scientifico, legandolo a doppio filo alla propaganda politica. A Roma Omegna si stabilì in un laboratorio presso le Terme di Diocleziano, accanto al Planetario astronomico, dove ebbe a disposizione molti macchinari per filmare in particolare insetti e piante. Era un luogo pieno di telecamere e attrezzi per l’osservazione di fenomeni di piccola scala, pittoreschi e futuristici tanto che nel 1935 un articolo della Domenica del Corriere lo chiamò “l’antro del mago”.
Le sue produzioni in questi anni divennero sempre più virtuose dal punto di vista tecnico: i suoi filmati erano destinati alle scuole o ai visitatori del Planetario di Roma, o dell’Acquario di Napoli per il quale Omegna realizzò diversi film di biologia marina. Il fascino per il mondo subacqueo porta il regista torinese a concentrarsi nel riprenderne anche i più piccoli dettagli di quegli ecosistemi: in una didascalia di Nei giardini del mare (1936) afferma di aver ingrandito degli idrozoi quarantamila volte, mentre in altri film riesce a mostrare chiaramente la crescita e lo sviluppo di diversi animali a partire dallo stato di embrione, dalla gallina livornese all’axolotl, una salamandra messicana.
Grazie a questa continua ricerca della qualità visiva nei suoi racconti, Omegna ricevette diversi riconoscimenti, come le vittorie nel 1936, 1938 e 1941 alla Mostra del Cinema di Venezia. Tuttavia le sue ultime produzioni, per quanto tecnicamente ancora inarrivabili, poco mantengono dello spirito pionieristico e innovatore dei tempi della Nevropatologia. Negli ultimi anni Omegna sembra concentrarsi su un tecnicismo sempre più fine, su riprese sempre più didascaliche, che andavano sempre più verso il microscopico, e che perdevano però di vista il mondo dietro la macchina da presa. L’ultimo suo film fu Morfologia del fiore (1942), dopodiché, quando nel 1943 l’Istituto Luce fu trasferito a Venezia, egli tornò a Torino, dove rimase fino alla sua morte, il 19 novembre 1948.
La cinematografia scientifica italiana ha vissuto una vivace prima metà dello scorso secolo anche grazie a personaggi come Gaetano Rummo, patologo dell’Università di Napoli o il fisiologo umbro Osvaldo Polimanti. Omegna però possedeva caratteristiche uniche e per certi versi precorritrici dei tempi. Virgilio Tosi, regista e divulgatore scientifico, in un documentario dedicato proprio a Omegna si riferisce a lui come a “uno dei pionieri della cinematografia italiana”. Lo divenne, come abbiamo visto, per una combinazione di caratteristiche inusuali: la sua passione per la nascente industria cinematografica, la vicinanza di Torino alla Francia da cui prendere ispirazioni e attrezzature, il supporto economico di Arturo Ambrosio. Crebbe come operatore, regista, sviluppatore e stampatore di film, ma la sua anima da scienziato, la conoscenza profonda della chimica e della fisica di determinati processi lo elevarono tra due mondi che fino a quel momento si erano solo osservati da lontano.
Come disse lo stesso Omegna, intervenendo sulla rivista Bianco e Nero, nel 1939:
Non si creda troppo semplicisticamente che per eseguire dei buoni film scientifici basti avere buone macchine da ripresa e un buon operatore guidato da uno scienziato, perché per quanto operatore e scienziato si comprendano bene, non riusciranno mai a creare fra loro quella perfetta ed intima fusione, che è la base prima, se non unica, del successo. L’ideale sarebbe che l’operatore fosse uno scienziato e viceversa. In tal caso sarebbe eliminato, specialmente, il grave inconveniente, che si verifica spesso, e cioè quello dello scienziato che, conoscendo profondamente ogni minimo particolare dell’oggetto da cinematografare, con il suo occhio mentale trae quasi in inganno il suo occhio fisico, vedendo quello che è più dato vedere all’obbiettivo.
Questo suo essere stato il primo ponte tra un’arte neonata e le discipline scientifiche, fece di Omegna un pioniere, non solo del cinema scientifico ma anche, più in generale, della comunicazione della scienza, capace di capire, più di un secolo fa, che uno dei grandi obiettivi della divulgazione moderna deve essere il superamento delle frontiere che dividono le discipline.