B eatrice Hastings è stata un’intellettuale e attivista inglese, nata a Londra nel 1879. La sua poliedrica attività di pensatrice ha spaziato dalla poesia alla critica d’arte, dalla filosofia al giornalismo. Proprio per il giornale inglese d’avanguardia The New Age, esce nel 1909 sotto forma di allegato il libro Woman’s Worst Enemy: Woman, considerato il suo manifesto femminista.
In questa opera Hastings tematizza questioni importanti e ancora attuali, come la maternità (obbligata) per le donne e l’importanza del fattore economico per l’emancipazione femminile. Hastings è stata una figura così d’avanguardia per il suo tempo che leggendo il suo libro, edito recentemente in italiano da Astarte, ho avuto la stessa sensazione di prossimità all’autrice che Giada Bonu descrive nella posfazione alla traduzione italiana, dove afferma che “viene da chiamarla per nome”.
Me la immagino infatti con me sul palco di Lingua Madre, a costruire con le altre/i interpreti una “enciclopedia sulla riproduzione nel Ventunesimo secolo”. Così infatti ha definito la regista argentina Lola Arias il suo spettacolo, andato in scena al teatro Arena del Sole di Bologna nell’Ottobre del 2021, a cui io ho avuto l’onore di partecipare, scritto a partire dalle storie delle e degli interpreti selezionate/i in base alla loro capacità di ridefinire e mettere in questione il tema della maternità e della genitorialità. Cosa significa essere madre? È necessario essere donna per essere madre? Essere madre è un desiderio? È una decisione? Di chi? La procreazione è un lavoro? Su queste domande la comunità dei/lle otto interpreti ha lavorato e vissuto a Bologna negli incredibili mesi di costruzione dello spettacolo e mi viene spontaneo vedere Beatrice lì in mezzo a noi, come una forza della natura trascinarci tutte davanti al pubblico.
Questa la dice lunga sulla capacità di essere attuale di questa autrice vissuta tra Ottocento e Novecento, che nonostante possa avere un linguaggio per certi versi lontano dalla nostra sensibilità odierna, affronta dei temi che sono ancora al centro dei dibattiti, lontano dall’essere risolti.
Hastings scriveva affinché si spezzasse quel determinismo biologico che inchiodava le donne al ruolo di madri e che, in virtù di questo ruolo, venivano oppresse e sottomesse.
Hastings avrebbe potuto portare sul palco il diritto alla scelta no child, il racconto della pesantezza di essere divenute madri per forza, delle lotte femministe, delle rivendicazioni economiche intorno alla maternità. Avrebbe potuto prendere parola con forza e autorevolezza in tutti i capitoli che compongono lo spettacolo, partendo da sé come tutte noi sul palco, dimostrando quanto era all’avanguardia questa donna nata in epoca vittoriana, che avrebbe potuto senza difficoltà ancora dire la sua in uno spettacolo di teatro documentario del Ventunesimo secolo.
Mi chiedo come mi avrebbe visto, come avrebbe considerato la mia storia in relazione alle sue teorie e rivendicazioni. Il mio ruolo all’interno dello spettacolo di Lola Arias era quello di portare l’esperienza di maternità di una persona trans* (o transgender: persone la cui identità di genere non corrisponde a quello che viene tipicamente associato al sesso assegnato loro alla nascita), di una persona quindi non riconducibile al genere femminile, di una persona come me non binaria e che socialmente e legalmente è considerata di genere maschile: sostanzialmente una madre uomo per lo Stato. Mi immagino che mi avrebbe visto con simpatia, come elemento in grado di scompaginare le carte che anche lei stava tentando di far saltare, in qualche modo funzionale alle sue teorie e alle sue lotte.
Hastings infatti scriveva affinché si spezzasse quel determinismo biologico che inchiodava le donne al ruolo di madri, in sostanza a macchine per la procreazione, e che, in virtù di questo ruolo, venivano oppresse e sottomesse dal patriarcato: “Finiamola con questa assurdità della maledizione ebraica. Non tutti gli uomini zappano la terra e non tutte le donne partoriscono con dolore”.
Hastings parla provocatoriamente di “seduzione dell’utero”, intendendo tutta quella mistica della femminilità che vuole la donna come naturalmente madre e moglie sottomessa e legata a ruoli che la definiscono in quanto femmina: ma cosa succede se l’utero, come nel mio caso, non appartiene a una donna? Se infatti l’utero non è più una prerogativa solo delle donne ma anche di persone di diversa identità di genere, se la maternità è portata avanti anche da persone transgender, si spezza automaticamente l’analogia tra donna, utero e maternità (obbligata) contro cui Hastings ha combattuto strenuamente?
Maristella Diotaiuti scrive nella prefazione al libro: Hastings crede che l’essere madre non sia un destino ineluttabile, né deterministicamente naturale, ma sempre un obbligo sociale. L’essere madre non è uno status in cui si nasce, ma uno status che si acquisisce con il tempo sotto l’assedio di una lunga e pervicace opera di costruzione di modelli funzionali a un certo ordine del mondo, violentemente patriarcale e predatorio, che utilizza la maternità, il corpo della donna, le sue funzioni biologiche, per costruire un’architettura economica e sociale fondata sul dominio.
Ecco quindi che la maternità queer, la mia maternità di persona non riconducibile alle categorie classiche di donna o uomo, può scompaginare questo ordine della maternità assoggettata alla patria e al dominio maschile, anche in virtù della sua capacità intrinseca di far saltare i confini, le classificazione sui corpi e su quello che i corpi possono fare, confini che invece, sempre seguendo il ragionamento di Diotaiuti, sono strettamente necessari al potere maschile (“È un potere, quello maschile, che dimostra il bisogno di porre dei confini, tracciare i limiti di un territorio al fine di renderlo controllabile, che nasconde la paura dei propri limiti e della propria finitezza”).
Lo spettacolo Lingua Madre era diviso in virtuali capitoli, e si apriva con il capitolo “Educazione sessuale”, dove ognuna/o di noi raccontava, con un libro in mano, alcune battute della propria educazione sessuale. Immagino allora Hastings con il suo libro, leggere stentorea dalla Dichiarazione con cui il libro si apre: “Se fossi stata educata riguardo a ciò che era mio diritto sapere – l’imminente sviluppo dell’impulso sessuale e la prevenzione scientifica del concepimento (…). Se avessi saputo che la maternità, come la lotta libera, l’esplorazione, e così via non è un obbligo”. E invece “a casa non ho mai sentito una sola parola al riguardo”.
E quindi chiedere a gran voce, da un’epoca che ci sembra lontanissima, lo stesso diritto all’educazione sessuale che surrettiziamente anche noi interpreti del Ventunesimo secolo stavamo chiedendo, ricordando le nostre ingenue ricerche sulla sessualità conseguite attraverso giornalini pop per adolescenti o libri trovati nella biblioteca dei nostri genitori, ma mai attraverso una discussione/formazione franca e aperta con adulti di riferimento (che sia la famiglia o la scuola).
Hastings parla provocatoriamente di “seduzione dell’utero”, ma cosa succede se l’utero, come nel mio caso, non appartiene ad una donna?
I due capitoli conclusivi dello spettacolo si intitolavano: “Lavoro riproduttivo” e “Madre futura”, e proprio la discussione intorno alla costruzione di questo penultimo capitolo legato ai temi della riproduzione e del lavoro è stata la discussione più accesa all’interno della nostra microcomunità di interpreti, che ha portato anche a momenti di frizione e conflitto generativo. Il libro di Hastings è disseminato di richieste precise e puntuali di salario per le donne, anche legato al lavoro riproduttivo, e quanto era quindi all’avanguardia allora, se consideriamo che lo sarebbe stata ancora nel 2021 durante le nostre discussioni su cosa andasse retribuito o meno in ambito riproduttivo.
La libertà per Hastings passa infatti per forza dall’emancipazione economica, ma ancora ci precede di decenni. In quel capitolo infatti io avevo una battuta in cui ricordavo l’esperienza di emancipazione dal lavoro domestico vissuta da mia madre, perpetrata però attraverso l’assoldamento di una donna Etiope, pagata per fare “le faccende” a casa nostra e mi chiedevo “Abbiamo pagato Evelina per la nostra liberazione, ma chi libera Evelina?” e scoprire che Beatrice aveva già problematizzato la cosa, come ancora Giada Bonu ben sintetizza nella postfazione: “La liberazione dal lavoro domestico non può passare dall’asservimento di altre donne, come invece accade con le domestiche ad ore. Anche in questo Hastings anticipa di decenni la critica decoloniale al femminismo bianco e all’emancipazione delle donne bianche, pagate al prezzo delle ‘nuove serve’ razializzate”.
Nel capitolo conclusivo dello spettacolo, quello intitolato “Madre Futura”, ci sono delle battute che, dopo la lettura del libro di Hastings, mi sembrano una sua eco. In questo capitolo finale gli otto interpreti si sono trasformati, attaccandosi addosso oggetti di scena che rimandano alle loro storie, in assemblaggi vagamente mostruosi e sicuramente bizzarri ed evocativi, che avanzano in linea verso il pubblico, fermandosi sul proscenio a declamare, come statue viventi, visioni e previsioni di maternità future. Una delle interpreti, incarnante la storia di una madre adolescente, dichiara: “La procreazione sarà del tutto slegata dal sesso come lo conosciamo ora. E non ci saranno più bambini non desiderati.” E allora vedo il “mostro” Hastings, in linea con noi sul proscenio, che avrebbe potuto dire la stessa battuta con le parole del suo libro: “Ognuno di noi ha il diritto di essere quantomeno voluto da coloro che si fanno carico di diventare i nostri genitori”.
Io aprivo quella scena con una battuta in cui si immagina una genitorialità futura condivisa, dove per ogni figlio ci siano dieci persone che si mettono d’accordo per averlo, come possibile antidoto contro la supremazia del “sangue” e alla sovrappopolazione e sento Hastings rispondermi che nel suo libro ci aveva già pensato:
Lo stato giovane richiedeva un costante e crescente rifornimento quantitativo, e permetteva alla religione di rendere tabù le relazioni sessuali che non fossero destinate a questo scopo, e di ostacolare il diffondersi di una concezione che non fosse legata alla procreazione. Questo incantesimo si è spezzato, ma la vecchia morale continua ad influenzare le classi più povere e meno intelligenti, e continuano a nascere bambini in eccesso (…).Il sistema industriale è un tentativo di impiegare questi numeri inutili. Questo vile sistema economico è stato costruito per utilizzare prodotti umani di scarto. La buona discendenza è una questione pubblica, e lo stato ideale sarebbe quello in cui ogni neonato è davvero bene accolto, e ogni morto davvero rimpianto
Il linguaggio di Hastings può a volte avere un’aria vetusta e anche classista, se estrapolato dal contesto e dalla conoscenza dell’opera (e bisogna fare attenzione anche al suo uso spregiudicato dell’ironia), ma in realtà è capace non sono di parlarci dei nostri tempi ma anche, come in questo caso, portarci ancora più avanti, nel futuro, nella descrizione di distopie che possiamo ad esempio ritrovare in prodotti televisivi di successo, come alcune serie televisive di fantascienza. Il tema ad esempio degli umani “di scarto” e di cosa farne di questo “eccesso di produzione umana” mi fa venire in mente la serie brasiliana “3%” (2016), dove si immagina, in un pianeta ormai degradato e compromesso, un mondo diviso a metà, dove pochi eletti (scelti su base meritocratica attraverso una sorta di esame e sottoposti a sterilizzazione) vivono in un ricostruito paradiso terrestre mentre le masse escluse e indegne rimangono sulla terra a svolgere il ruolo di riproduzione per la generazione successiva di eletti. E così, leggendo il libro di Beatrice Hastings, il cui titolo “Woman’s Worst Enemy: Woman” può essere anche di primo acchito disturbante, me la sono immaginata come una persona che avrebbe potuto guidarci sul palco, una leader nelle nostre discussioni, una fonte indefessa di sapere, un nodo fondamentale nelle nostre genealogie ma con cui poter parlare anche di serie tv.