D i recente in classe ho fatto un esperimento. Ho chiesto al gruppo di studenti e studentesse di concentrarsi, pensare, pensare, pensare, e di vedere se riuscivano per cinque minuti netti a “non interpretare nulla”; vale a dire, a non leggere, niente, le cose attorno, nella mente, le immagini, a non dare seguito ai pensieri, a non far funzionare, sostanzialmente, la propria capacità ermeneutica. “Non scherzo, provate a chiudere gli occhi e a non interpretare niente; non appena vi accorgerete che avete interpretato qualcosa, qualunque cosa, aprite gli occhi e alzate la mano”. Si sono fidati, e l’hanno fatto. Hanno chiuso gli occhi, e io ho vissuto attimi di imbarazzante silenzio.
Dopo una trentina di secondi si sono schiuse le prime palpebre e alzate le prime mani. Alla decima mano (su dodici) ho pensato di non aspettare oltre, anche se forse l’aver interrotto l’esperimento in maniera così brusca potrà esser sembrato un mio modo di tarpare le ali ai più giovani – e a chi magari ci stava davvero riuscendo a non interpretare. Non credo, però; perché non interpretare significa non pensare, e dunque, ce lo spiega il buon Descartes, anche non essere.
Siamo esseri interpretanti perché siamo, perché pensiamo. E perché stiamo in mezzo agli altri, e alle cose. Interpretare è infatti sempre mediare. Ma nel mezzo di cosa e tra che entità sta l’interprete? Perlomeno, direi, tra testi e teste. Testi perché ogni cosa è un testo. Anche un sasso può esser letto. E teste perché persino quelle dure come i sassi non riescono a non funzionare in maniera da non mettere in relazione le cose. L’interprete, allora, lavora sui testi per lavorare sulle teste. Introietta, modella e plasma qualcosa con cui è a contatto – stretto o distante che sia – qualcosa di non suo che però, nel pensarlo, plasmarlo, modellarlo, diviene suo per un breve frangente; per poi finire a diventare di un altro per un tempo altrettanto fugace, una volta che l’interprete l’avrà reso. Reso ossia restituito, ma anche reso ossia cambiato. Di qui la resa traduttiva, che talvolta è un anche arrendersi. Ma su una cosa non c’è resa, sul fatto che siamo tutti interpreti, come i sacerdoti che mediano tra il sacro e l’umano. Come i preti. Viviamo tra preti: inter-preti; ma tanti: inter-pretanti.
Sempre in ambito educativo, mi sono chiesto spesso il perché si veda così tanta differenza tra l’interpretazione e l’interpretare nel senso tecnico di interpretariato. Mi spiego. Si tende a pensare che la traduzione sia interpretazione, e per questo a suo modo più libera, più svincolata da costruzioni pedisseque. Soprattutto quella letteraria, di traduzione, si crede viva più di libertà autoriali, di licenze; forse perché risponde anche a fini estetici, e sappiamo bene che le forme dei messaggi espressi in lingue diverse non sono mai sovrapponibili: non possono essere ricreate, ovvero, a partire da un principio di equivalenza sintassi mia = sintassi tua. Non è così. Pensiamo alla poesia.
Della poesia, quando proviamo a tradurre la forma in maniera pedissequa, facciamo del male ai testi e alle teste. Al più possiamo inventare forme nuove, come quando prendiamo il blank verse di Shakespeare (i famosi pentametri giambici, cinque piedi bisillabici con accento sulla seconda – ma soggetti a tante variationes come le meravigliose sostituzioni anapestiche…) e li rendiamo con gli endecasillabi italiani. Cambiare forma significa tradurre? Cambiare forma significa tradurre. Tradurre significa cambiare, ed è per questo che tradurre significa essere: è quel che siamo, perché cambiamo. Continuamente.
Ogni cosa è un testo: anche un sasso può esser letto.
Dicevo: tradurre la letteratura viene associato all’idea dell’interpretazione (soggettiva), mentre interpretare nel senso dell’interprete simultaneo o consecutivo fa pensare al “tradurre automaticamente”, quasi senza interpretare. Un po’ per il fattore temporale (l’interprete rende il rendibile in maniera quasi simultanea, e quindi non avrebbe il tempo per trovare soluzioni alternative?); un po’, si dirà, perché il tipo di testi che si “interpretano” in questo senso tecnico sono spesso testi tecnici che poco lasciano all’ambiguità.
Non sempre è così. Ho personalmente visto un premio Nobel per la letteratura, interpretato in consecutiva in un grande teatro, stoppare l’interprete dicendo che non aveva detto quel che aveva detto lui. L’interprete ci è rimasta molto male, chiaramente. Ma non avrebbe dovuto: perché, se prese alla lettera, le rimostranze dello scrittore sono buffe e assurde. Ecco la scena stilizzata:
– Nobel: dice qualcosa nella sua lingua
– Interprete: ne dice un’altra nella sua, di lingua, che però in teoria avrebbe dovuto rispondere al senso delle parole pronunciate dal Nobel
– Nobel: dice “ma io non ho detto questo”
– Pensiero fuori campo: “ovvio, l’hai detto in un’altra lingua, come poteva essere la stessa cosa?”
– Interprete: si sente inadeguata per non aver interpretato bene il pensiero del Nobel, e forse anche per questo non riesce a cogliere l’ironia insita nella fallacia di quella espressione di riprovazione, che, letta alla lettera, avrebbe dovuto significare: “non hai detto le stesse cose che ho detto io, quindi non le hai ripetute a pappagallo”
Ora, al netto degli errori di interpretazione, e di traduzione, che spesso sono più sviste che errori (famoso il mio scambiare edge per hedge – forse per via dell’h muta, che però in inglese non lo è… – mescolando quindi margini e siepi), il margine di interpretazione non solo è immaginabile in ogni trasposizione del pensiero di un altro che avvenga in una lingua altra o anche nella stessa lingua (parafrasi, spiegazione, riformulazione, etc…), ma è anche: I-NE-LUT-TA-BI-LE.
Non sempre è facile dipanare le foschie che avvolgono il senso delle espressioni, consegnandocelo mai fisso e sempre mutevole.
E non può essere dimenticato men che meno espulso, neanche tra esplosioni e violenza, perché è pure “ineruttabile”. Non esiste affermazione umana che non possa essere tradotta, ridetta, in tanti modi diversi e per mille ragioni e in varianti diverse. Questo perché il linguaggio vive di ambiguità come gli irlandesi di birra scura. E non sempre è facile disambiguare, ovvero dipanare le foschie che avvolgono il senso delle espressioni, consegnandocelo mai fisso e sempre mutevole. Faccio un esempio.
La parola Poorhouse può esser scritta così come l’ho scritta io (ed è la versione più frequente) ma esistono anche attestazioni della forma poor-house e persino di poor house, per significare le workhouse tipiche dell’era vittoriana, quel tipo di miserevoli ospizi per indigenti così presenti in Dickens, gestiti dalla chiesa o da altre autorità municipali, e destinati ai poveri che vivevano di carità e a cui talvolta venivano dati lavori retribuiti da compiere.
Ora, le prime due forme non sono ambigue, ma la terza sì. Quando, ad esempio, Oscar Wilde in un suo racconto per bambini la usa per descrivere la scena in cui una signora si dà a faticosi e malpagati lavori di sartoria con accanto il piccolo figlioletto moribondo a cui non è in grado di dare altro da bere se non acqua di fiume – non essendo in grado neanche di dissetarlo con un’arancia – starà parlando delle workhouse oppure di una semplice “casa umile” in cui i due vivono? Non c’è davvero modo di reperire l’informazione dal testo in maniera definitiva; anche se, leggendo tra le righe e formulando ipotesi, si potrà arrivare a una maggiore possibilità che l’occorrenza significhi una cosa anziché l’altra.
Ecco, questa io la chiamo “traduzione probabilistica”: un tipo di resa che, di fronte all’ambiguità pervasiva del testo e del linguaggio, non si arrende ma crea connessioni, a volte su base intuitiva, per avvalorare una soluzione che però rimane sempre e solo “possibile”, mai verificata o verificabile. Perché lo sia, verificata o verificabile, bisognerebbe forse fare una seduta spiritica ed evocare Wilde, oppure, meglio, riesumarne la mente; ma anche se un folle dottor Frankenstein (pronuncia Frankenstin) e il suo fido scudiero Igor (pronuncia Aigor) riuscissero elettricamente a far rivivere il suo cervello, e anche se di quello ci fosse da fidarsi, sarebbe davvero importante e dirimente sapere quel che pensava l’autore, il creatore di testi, quando questi rivivono sostanzialmente in altre teste il cui funzionamento è indipendente da quello della (in questo caso defunta) testa “primordiale”?
Il testo rivive di vita nuova quando è letto da noi. Non vive di vita passata. la sua ombra è il domani.
Restando con Wilde e le sue favole, che dire di “The Devoted Friend”? Trattasi di un racconto in cui un ricco si approfitta, fino a vederlo morire senza mostrare di sentirsi minimamente in colpa, di un povero, ma continuando a dirsi suo amico – con la grata approvazione del miserando, felice di poter essere amico di una persona considerata a torto tanto cara e generosa. In una storia del genere, per prima cosa non sappiamo a chi si riferisca il titolo, al ricco o al povero; ma, questione più sottile, l’aggettivo “devoted” nella storia della lingua inglese riporta (e in tempi recenti e coevi a Wilde), oltre al significato che ci è familiare (appunto, devoto) anche quello di “spacciato, destinato al male o alla distruzione”. Saremmo quindi non solo in difficoltà nel tradurre il titolo, in mancanza di una soluzione altrettanto ambigua, ma anche nell’interpretarlo in maniera che possa rivelarsi genericamente condivisa. Non potendo infatti fare affidamento su un solo significato, ma avendone a disposizione due contrastanti, interpretare rischia di significare scegliere in senso restrittivo, e quindi, di fatto, sostituirsi non tanto alla testa (dell’autore, quella ampia e “immarginabile” anche perché sconosciuta) ma al testo, rendendolo più ristretto di quel che dovrebbe essere. Non possiamo sapere quale delle due opzioni Wilde prediligesse (e questo non ha importanza), ma può piacere pensare che le avesse in mente entrambe. Certo, sarebbe interessante conoscere le presunte o dichiarate intenzioni dell’autore, ma poi, quando interpretiamo, diventano più interessanti le nostre, e non perché noi siamo più interessanti, ma perché il testo rivive di vita nuova quando è letto da noi. Non vive di vita passata. La sua ombra è il domani.
Se prendiamo infatti esempi più lontani nel tempo, l’incongruenza di dare peso alle intenzioni autoriali diviene palese. Se può avere interesse chiedersi quale fosse l’intenzione generale di Saffo nell’Ode della gelosia, quale sarebbe il vero vantaggio, per l’interpretazione, di conoscere dettagli biografici precisi del possibile destinatario, al di là della mera curiosità? Allo stesso modo, ma ampliando il discorso alla storia, alla politica e alla società, è davvero altrettanto importante conoscere le condizioni di partenza ricostruibili archeologicamente dei grandi poemi omerici, quanto lo sarebbe una riflessione sui riverberi, che so, del tema della bellicosità nel presente, come del rapporto tra uomini e donne per come si configura oggi e se abbia, tale configurazione, dei legami col passato di allora?
Intendo dire che le condizioni di partenza, di origine dei testi, scandagliate in tutte le loro sfaccettature sono la base dell’interpretazione, non certo il suo obiettivo. Non dobbiamo confondere quest’ultimo con il fatto che la conoscenza di quelle condizioni sia invece l’obiettivo della ricerca.
L’interpretazione, come un’ombra, si getta sul dopo, e non sul prima. È anche questa una materia sfuggente, perché noi siamo abituati, forse per pigrizia, ad associare il concetto di ombra al passato: le nostre ombre, si dice, l’ombra che abbiamo dentro, e così via. E invece, dal punto di vista fisico, è la luce che appartiene al passato, mentre noi, o i testi che siamo, siamo il presente, un presente contro cui impatta la luce del passato, proiettando così, nel futuro, uno spazio di ombra in cui possiamo rinvenire appunto le interpretazioni probabilistiche, le letture potenziali, o anche le traduzioni possibili.
Se si mette a frutto qualcosa, resterà altro che non viene digerito. Questo qualcosa sarà espulso dal corpo traducente.
Perché la traduzione è sempre possibile – il che ci spiega che nulla vi è che sia impossibile tradurre; semmai, quel che è considerato impossibile, lo è solo nel senso che non è ancora possibile. L’impossibile, dunque, è sempre la coppia passato-presente, mentre il possibile è il futuro. Da questo assunto nasce la riflessione sulla traduzione in quanto vita-oltre-la-morte del testo (Benjamin docuit), e dunque non solo sua riscrittura sempre modificabile, sempre perfettibile (mai perfetta), ma anche il suo essere, da un certo punto di vista, più interessante per il suo legame con le teste che non per quello (più scontato) coi testi.
È una dinamica evidente quando siamo di fronte ai cosiddetti “intraducibili” – etichetta bugiarda, perché come ho detto, tutto è traducibile. Intendiamola allora come un testo che pone enormi difficoltà, non in termini di comprensione, ma di riproduzione, sia stilistica che contenutistica. Si tratta di un tipo di testi che invitano a una riflessione forse inattesa sulle tante affinità tra il tradurre e il digerire. Una buona traduzione, infatti, è come una buona digestione. Indica il buon funzionamento di un sistema, e che da quello di cui si fruisce (e che si ingerisce) si ottengono le proprietà migliori. Ovvio il corollario. Se si mette a frutto qualcosa, resterà altro che non viene, per così dire, digerito. Questo qualcosa, sarà ahimè, espulso. Lo espelle il corpo traducente, ovvero, non lo incorpora nella nuova vita-oltre-la-morte del testo che è la sua resa. Ciò non vuol dire però che quanto espulso non abbia una sua funzione.
Esattamente come avviene in natura, quanto escreto torna a vivere in altre forme, altri modi, altri campi. Restando nel campo della traduzione, e recuperando la nozione di traduzioni plurime di uno stesso testo a cui ci invita a pensare il principio della traduzione possibile e probabilistica più su enunciato, si può ipotizzare che quel che espelle una traduzione, lo può reintegrare un’altra. È capitato al sottoscritto. Mi accorsi che in versioni in tante lingue dell’Ulisse di Joyce la parola scutter era stata resa secondo il significato noto ai traduttori formati sui segreti della lingua inglese per come la si parla in Inghilterra. Sanno, tali traduttori, che è un sinonimo di scurry, e to scurry sta per “sgattaiolare”. Ahimè, scutter in Irlanda (e Joyce era irlandese) rimanda a tutt’altro. Rimanda alla “diarrea” [si noti qui la relazione causa-effetto tra i due significati potenziali, esemplificata nel fatto che l’occorrenza dell’una (significato irlandese) porterà all’azione definita dall’altra (significato inglese) per raggiungere un luogo consono all’operazione da compiere al fine, solito, dell’espulsione]. Ora, poiché la traduzione precedente aveva “espulso” il significato “scatologico”, io ho pensato di riciclarlo, alla luce del fatto che, usato come interiezione, scutter può facilmente esser tradotto con l’espletivo corrispondente al francese “merde!”.
La traduzione cambia perché ci cambia. Rende perché ci fa arrendere.
(Scutter è un termine interessante anche per altri suoi viaggi. A un certo punto della sua storia (perché le parole hanno anch’esse una storia), dall’Irlanda deve aver valicato l’Atlantico in una sua variante, scuttered, che si usa per indicare chi è “ubriaco fradicio”. Nei suoi viaggi questa parola avrebbe subito un calco in origine nello slang americano, in cui si registra il termine shitfaced che sta per la stessa cosa. Dal letame nascono i fior, come si vede).
Ma sono altri i fiori dell’intraducibile, nel senso di convogliare sia la forma che il contenuto provando a non espellere troppo. Verrebbe in mente il genere della poesia, ma io sto pensando ad altro. Ai palindromi, ad esempio. Come tradurli, mantenendo sia la componente di contenuto, sia quella formale, e senza espellere troppo?
Si dirà che spesso i palindromi sono dei semplici giochi di parole, che nascono decontestualizzati, e che dunque vanno ammirati per la loro perfetta simmetria. Ve ne sono alcuni, però, rari, la cui simmetria è terribile, perché non rispondono soltanto alla loro forma intrinseca, ma sono incastonati in opere in cui conservano anche la funzione di veicolare un contenuto.
Sono costretto, a questo punto, a fare un altro esempio, sempre dall’autore irlandese. A un certo punto di Ulysses è inscenato un possibile dialogo tra Adamo ed Eva, col primo che dice alla seconda: “Madam, I’m Adam”. Palindromo perfetto, e perfetta presentazione, da gentiluomo. Perfetta quanto impossibile da rendere? Non so. La mia resa possibile, giunta dopo tante tentazioni di arrendermi, è stata “Ave Eva”. È un caso fortunato e raro, forse, in cui si conserva spero tanto del conservabile, ma resta pur sempre una traduzione potenziale, e pure probabilistica, se è vero che si basa sulla ricostruzione ipotetica di un rapporto tra i personaggi. Cos’è cambiato? Nulla; o tutto, se per nulla o tutto si intende l’evidente salto temporale epocale.
Eccola, la traduzione, cambia perché ci cambia. Rende perché ci fa arrendere. È parte del nostro DNA, con l’unica differenza che, sebbene sia un fattore umano, non avrà una fine. La traduzione nasce con il cambiamento e con il moto, con il vuoto che si espande e si riempie, con le particelle primordiali che si moltiplicano. La sua fine sarò un nuovo inizio, il famoso finizio di cui parlo da tanto: e la sua morte saranno tante porte, porte che apriranno alla rivelazione di quello che siamo, e pure, credo, di quello che (non) vogliamo.