A prile 2022: per la matinée con le ragazze e i ragazzi delle scuole secondarie organizzata da un noto festival di cinema a tematica LGBTQ+ col quale collaboro, viene scartato un titolo canadese nuovissimo, da noi inizialmente proposto, a favore di Milk (2008) di Gus Van Sant: la scusa, perché c’è sempre una scusa pronta, è che Milk è per molti versi un classico che non ha bisogno di presentazioni, e ha vinto due premi agli Oscar; dell’altro, sostanzialmente inedito, trapela solo il fatto che forse c’è della nudità, e che due adolescenti fanno sesso in mezzo alla natura incontaminata. Poi certo, sono il primo a capire la preoccupazione del corpo docenti, la volontà di evitare discussioni con le famiglie esitanti, polemiche, quando non apertamente inferocite… E quella mattina di aprile partecipo alla proiezione.
In una sala gremita di studentesse e studenti intenti a fare di tutto tranne che guardare lo schermo (dal fondo, la sala sembra un cimitero nel cuore della notte, con le fiammelle dei telefonini accese su Insta e Tik Tok), risuona, oltre al doppiaggio italiano come sempre un po’ penoso, il fatto che quel film è in fondo l’ennesima storia di un martirio, e quanto piacciono a noi italiani le storie di martirio, con la proiezione che culmina in un applauso che tira giù i muri – il complesso della scimmia ha temporaneamente la meglio sulle attrattive dello smartphone. Ho conferma che ancora oggi, per molti, fuori dal safe space di un festival LGBTQ+ l’unico omosessuale buono è quello che muore, sacrificandosi per i diritti che gli vengono negati. Nella testa mi si affollano dei se e dei però, che cerco di appuntare per un istante sulle immagini che ho appena visto sullo schermo. E allora non posso non pensare a questo libretto di neanche cento pagine di D.A. Miller, Bellissimo (Nottetempo), che da più di un mese sta lì, sulla scrivania, a minare un bel numero di certezze acquisite quasi per inerzia, con la forza dell’analisi puntuale e della scrittura punk-baroque del suo autore, e la cornice altrettanto precisa e cesellata dal suo curatore.
Fuori dal safe space di un festival LGBTQ+ l’unico omosessuale buono è quello che muore, sacrificandosi per i diritti che gli vengono negati.
“Il miglior fabbro“ diceva Eliot dell’amico Pound presentando la sua Waste Land, esattamente cent’anni fa. Bellissimo non è un poema, e forse il fabbro che gli sta dietro è un po’ meno problematico, ma c’è, si sente, ed è il migliore possibile. Senza Franco Moretti questo volumetto non esisterebbe, non solo perché l’ha tradotto e ne ha scritto un’introduzione che copre un terzo del totale, ma perché questo libro è un arbitrio da lui voluto. Un bell’arbitrio. Miller, come ricorda lo stesso Moretti, che lo conosce fin dal 1972, ha da anni progressivamente spostato il baricentro dei propri studi dalla letteratura, dal romanzo, al film, o forse sarebbe giusto dire che li ha solo espansi in quella direzione. Non più di un anno fa ha raccolto ed editato per Columbia Press un volume con alcuni degli interventi che hanno reso in qualche misura inconfondibile il suo contributo alla rivista Film Quarterly. Il titolo è eloquente: Second Time Around, From Art House to DVD. Traccia fondamentale per capire questa virata verso il cinema: la seconda volta, la re-visione, e il DVD – o il Blu-Ray. Credo sia impossibile negare che quest’ultimo: il laserdisc era stato un po’ un buco nell’acqua – sia il supporto che per primo ha reso possibile, per il pubblico più vasto immaginabile, un rapporto analitico con il testo cinematografico come nessun altra modalità di visione aveva fatto prima.
È un arbitrio, Bellissimo, perché recupera due saggi con delle caratteristiche comuni, come in geometria si prendono due punti nello spazio per studiare la natura del segmento che li raccorda, o il coefficiente angolare della retta che li attraversa; o, una volta presi a campione questi due punti, cercare di capire se sono parte di una funzione, cioè se esista una curva che li unisce e ci siano altri punti che soddisfino le caratteristiche. I due saggi parlano di Brokeback Mountain di Ang Lee (2005) e Call Me By Your Name di Luca Guadagnino (2017), accomunati dal fatto di essere dei prodotti MGM, di appartenere alla “soffocante tradizione” a suo dire inaugurata dal film di Ivory. La sigla non sta ovviamente per Metro Goldwin Meyer, non questa volta, ma per Mainstream Gay-Themed Movie, dicitura coniata da Miller stesso, che si diverte a perculare in maniera scoperta il loro essere dei prodotti del cinema con grandi mezzi, pensati per un pubblico generalista.
La sintassi controllata e la calligrafia impeccabile, la cura formale ed estetica, servono ad anestetizzare, addomesticare, il potenziale rivoluzionario del tema.
Pur avendo percorsi di realizzazione differenti, i due film sono targati Universal, almeno per quel che riguarda l’home video (e il secondo debuttò al Sundance, se fosse ancora necessario a ricordare che sul suolo americano indipendente identifica una categoria molto varia e vaga di film che non sono esattamente no-budget). Però, fermi un attimo, la curva che Miller sta tracciando tocca proprio dei titoli che consideriamo canonici nella storia del cinema a tematica, e ne immola in questo caso due che nell’ultimo ventennio sono diventati a dir poco iconici. E lo fa però con due letture che non si riesce nemmeno a classificare come stroncature nel senso stretto del termine, anche solo per l’acribia con cui riesce a dedicarsi all’analisi dei film, per dimostrare innanzitutto come siano problematici proprio per la loro sintassi controllata e per la loro calligrafia impeccabile, per come la cura formale, estetica, serva ad anestetizzare, addomesticare, il potenziale rivoluzionario del tema. Rivisti i due film prima di leggere il libro, sapendo che ne parlava, ma non come, magari qualche piccola o grande riserva su dei dettagli si ripresenta: dopo la lettura ci si sente un po’ sporchi, un po’ conniventi, ma si fatica a gettare a mare del tutto i due film e quello che si portano dietro. L’impressione è che le due analisi milleriane agiscano, forse anche per l’autore stesso, come le raccomandazioni sui pacchetti di sigarette (lo dice un non tabagista): “può causare gravi malattie, consumatene, ma siate informati, a vostro rischio e pericolo”.
Certo, più di una volta viene da domandarsi se abbia ancora senso concentrarsi su due analisi di film, in un mondo dove nella mediateca a portata di click a cui facevo riferimento sopra, Netflix, Amazon, Disney, ma non solo, hanno spalancato le porte alla comunità LGBTQ+ e alla sua visibilità. Ma poi viene anche abbastanza spontanea la risposta, dal momento che le leggi del mercato più ferree che stanno dietro a quella tv e a quella serialità hanno saputo interpretare rapidamente e tramutare in fonte di reddito (o polli da spennare se preferite) un target sempre più presente e non più invisibile. E quindi, rimaniamo su quella direttrice tra l’Art House e l’Home Video.
“Ci mette alla prova in una maniera divertente e sconcertante… È un lavoro molto personale, che evita il gergo alla moda e i passaggi incomprensibili”: anche se calzano perfettamente all’occasione critica di cui parliamo oggi – innanzitutto perché evitare il gergo implica anche scongiurare i paragrafi di salamelecchi proscinetici spesso inutilmente teorici tipici di certa letteratura accademica – queste considerazioni non si riferiscono a questo testo di Miller, ma sono nel preambolo di una recensione a The Novel and the Police uscito su Comparative Literature nel 1990; in quel libro, mettendo alla prova il lettore, Miller ingaggia una lettura conflittuale coi testi, secondo un paradigma che ritroviamo in filigrana anche qui, e che Moretti riconosce e sottolinea in questa sua introduzione: nella scelta di quell’ambito d’indagine – i romanzi di Dickens, Collins e Throllope – trova riscontro il fatto che la forma-romanzo moderna si struttura parallelamente a una mutazione radicale della società, a metà Ottocento, con l’istituzionalizzazione della polizia nelle società occidentali, e di quella riflette e interiorizza per molti versi le istanze: una riflessione che evidentemente riprende le fila del discorso fissato da Foucault in Sorvegliare e punire. Da qui la battaglia – quasi danzata, come Giacobbe con l’Angelo, anche se Moretti giustamente ricorre al parallelismo con il Samurai melvilliano – con(tro) l’oggetto narrativo: là il romanzo, qui il film. “Because novels are more fun to read” confessa lo stesso Miller a Moretti, e probabilmente, c’è da ipotizzare, “movies are even funnier to watch”: ma evidentemente per Miller la cosa più funny è ri-leggere, ri-vedere le cose, sottoporle a un close reading per riconoscere i segnali della problematicità che alberga dietro la loro bella forma.
Il discorso indiretto libero nella lettura di Miller è un atto di ulteriore prevaricazione del narratore, borghese, che al proprio controllo onnisciente aggiunge l’arroganza di calarsi nel punto di vista (o lì accanto) del personaggio, subalterno, senza subirne le offese.
C’è una “bestia nera” stilistica che compare in quei romanzi ottocenteschi e riemerge nel passaggio al close reading cinematografico: l’erlebte Rede, il discorso indiretto libero, quella modalità di discorso che si afferma prepotentemente poi con il naturalismo e il verismo, e che nella lettura di Miller non può che essere vista come un atto di ulteriore prevaricazione del narratore, borghese, che al proprio controllo onnisciente aggiunge l’arroganza di calarsi nel punto di vista (o lì accanto) del personaggio, subalterno, senza subirne le offese. E dunque, cosa c’entra il discorso indiretto libero con i due film in questione? C’entra, perché quella che è “la grande, forse l’unica invenzione linguistica del romanzo dell’Ottocento” è l’impalcatura di buona parte dei discorsi sensati sullo sguardo cinematografico, e non solo all’origine della “soggettiva libera indiretta” teorizzata da Pasolini; e perché quello che sulla pagina è indiretto libero, in termini di sguardo cinematografico, arriva diretto agli occhi dello spettatore, senza la mediazione della parola scritta e la libertà, qui ancor di più che nel romanzo, è del narratore, non del personaggio. C’entra, perché lo stesso Miller riporta e analizza non solo brani dei film, ma anche elementi paratestuali che rimandano ad esso, o addirittura lo generano, come uno stralcio dall’introduzione alla sceneggiatura di Brokeback Mountain. Qui Annie Proulx, credendo di rendere esplicito il proprio atteggiamento progressista ed empatico, racconta il non-incontro con il vecchio mandriano del Wyoming all’origine del suo racconto (e quindi del film), appoggiato alla parete di un bar: la costruzione psicologica è puramente speculativa, in campo lungo, e basata su una asimmetria radicale, lei vede lui (lo cerca, forse), lui non si accorge di lei; eppure lei lo capisce (nel senso etimologico del verbo, lo prende, lo preleva dal suo contesto) e decide di raccontare i suoi simili in bella forma, ricreando un universo a partire da una serie di congetture. L’erlebte Rede nasce come sguardo empatico e progressista solo in ipotesi, entra di forza nel romanzo – basta quel “si credevano invisibili“ isolato da Miller a comprenderne la prepotenza – e torna a farsi sguardo nella traduzione cinematografica di quest’ultimo, nella creazione di uno zoo di vetro, di un terrario dove i protagonisti/animali feriti non possono che tentare di ripararsi dallo sguardo giudicante degli antagonisti/rapaci, in un trionfo di ossessioni di controllo dove lo sguardo più crudele è il nostro di spettatori, che esercitiamo il privilegio di vedere senza essere visti: sullo sfondo di una natura bella ma indifferente, magnificamente fotografata (“particolare… bella la fotografia!” diceva di solito chi alla fine di una proiezione non voleva ammettere di non aver capito nulla o di aver dormito).
Secondo caso. È curioso: nel dichiarare di aver visto la scena conclusiva di Call Me By Your Name solo “the second time around”, troppo irritato, al primo giro, dalla costruzione in forma di paradiso terrestre (popolato di saccenti di ogni ordine e grado) del contesto in cui l’adolescente Elio e il giovane ricercatore Oliver si conoscono in senso non solo biblico, Miller sembra evitare di registrare il fatto che quella, più di tutte, è la traduzione di un discorso indiretto libero (e non di certo la soggettiva di un caminetto), è l’affermazione (pre)potente e problematica di un narratore che vorrebbe dire, di fronte a Elio/Chalamet che l’inverno ha improvvisamente trasformato in Robert Smith dei Cure, “sarebbe sopravvissuto anche a questo, si sarebbe ricomposto e avrebbe affrontato Hannukah insieme alla famiglia, avrebbe pianto in silenzio mentre gli altri apparecchiavano la tavola”.
L’impressione è che nel fastidio per il cinema ‘cosmetico’ della tradizione MGM si nasconda una diffidenza radicale nei confronti di ogni assuefazione a un progressismo perbenista e de facto castrante, che ricostruisce un Closet per riporci l’Omosessuale.
Non se ne accorge o non lo sottolinea troppo, probabilmente perché il problema principale del film è quello della pseudo-accettazione, dell’addomesticamento del desiderio omosessuale, ovvero il fatto che nel film di Guadagnino, “secondo la classica logica dell’astrazione progressista, si accetta tutto purché non si veda nulla”, con principale riferimento a un dettaglio macroscopico, alla macchina da presa che si “distrae” sul frutteto fuori dalla finestra quando finalmente, dopo più di un’ora di costruzione dell’attesa (voyeuristica, certo, quale altra attesa sennò), i due protagonisti, Chalamet e Hammer, passano all’azione. Una distrazione che non solo è goffamente rétro, ma asimmetrica rispetto all’indugiare in dettaglio sulle manovre dell’amplesso ben più vigoroso che poco prima ha coinvolto lo stesso Chalamet e la giovane Garrel-figlia; una distrazione che fa anche più male perché lo stesso Guadagnino, che non è certo estraneo al mondo queer né alla tematica (come invece lo erano Annie Proulx e Ang Lee nel caso precedente) cerca in maniera ancor più goffa di rispondere a chi gli domandi non solo perché non abbia utilizzato attori gay (che è obiettivamente un problema più sentito oltre oceano che alle longitudini nostre) ma anche il perché di quella reticenza sull’amplesso: soprattutto quando la risposta è “per me era importante creare questo forte senso di universalità”, affermazione che implica in maniera irreversibile che l’atto tra Elio e Oliver doveva rimanere fuori scena anche nella sua forma simulata, sottratto alla concretizzazione per garantirne l’accettazione. È questo che irrita Miller, il fatto che quella che lui definisce giustamente “cultura progressista” abbia in sostanza vinto per via di “eufemismi alla moda” una battaglia con l’osceno: e se l’etimo è effettivamente ob-scaenus parleremmo proprio di quello che viene portato sfacciatamente in mezzo alla scena, non di qualcosa che viene nascosto. Viene portato o deve essere portato? Miller non ne parla mai, ma l’impressione è che nel fastidio per il cinema “cosmetico” della tradizione MGM si nasconda la riaffermazione di un cinema queer come lo intendono John Waters, Rosa von Praunheim o Bruce LaBruce, ma, in generale, e non solo nel dominio cinematografico, una diffidenza radicale nei confronti di ogni assuefazione a un progressismo perbenista e de facto castrante, che ricostruisce un Closet per riporci l’Omosessuale. “L’arte come metafora del Closet: un ripostiglio di ottima fattura dove il desiderio omosessuale, anziché produrre una politica esplicita, vive in silenzio con eroico ritegno, e dove nulla è più frequente dei sentimenti che restano tra le righe, se non forse le virtù – così propizie al senso estetico – della finezza, del gusto e della sfumatura”, dice Miller dopo aver dimostrato il meccanismo di costruzione e assuefazione dello sguardo a un nuovo Closet in Brokeback Mountain, uno sguardo a cui viene dato il mélo come unica via possibile e che, forse davvero non a caso, culmina dentro a un armadio, in contemplazione di una camicia-reliquia. Si fatica a non pensare, di fronte a questo close reading, a quelli che verrebbe da ribattezzare closeted reading, le interpretazioni in chiave queer, “prima della rivoluzione”, dei mélo di Douglas Sirk o, dalle parti nostre, di Visconti, una su tutte quella di Senso riletto come la storia del rifiuto di un uomo maturo da parte di un uomo giovane. Perché di quello non si parlava, non direttamente. Ma ora che se ne parla, ecco l’eteronormativizzazione al lavoro:
Nel
mainstream gay-themed movie l’Uomo Gay ottiene una sua rispettabilità tematica a patto che si rispecchi appieno nell’ideologia eteronormativa che abroga la sua differenza. È per questo che, come ho sostenuto in questi saggi, il MGM deve al tempo stesso velare le sue pratiche sessuali, e trasfigurarle nelle forme ideali dell’amore, del rapporto, e della famiglia, che sorreggono la cultura coniugale della maggioranza.
Già la famiglia, i bambini… “perché, perché nessuno pensa ai bambini?”. Niente paura: i bambini, i ragazzini, ci pensano da soli, nel loro modo non ancora sclerotizzato dagli eufemismi cosmetici approntati dal mondo adulto. Nel film canadese da cui tutto questo discorso prende avvio, che è Wildhood, di Bretten Hannam, il fratellino del protagonista, che ha osservato gli sguardi e le dinamiche tra quest’ultimo e un nuovo amico, conosciuto mentre fuggono da una famiglia disfunzionale e violenta, capisce prima di loro che i due vorrebbero strapparsi i vestiti di dosso, e glielo dice con candore, perché non ci vede nulla di complesso o scabroso che debba rimanere fuori dalla scena, sarà ben contento di non guardare, sapendoli felici. L’avessero visto quelle scolaresche, Wildhood, per una volta avrebbero addirittura potuto scoprire che l’amore queer salva, e cominciare a riscoprire che i film liberano la testa.