In Perché tornavi ogni estate ricostruisci la tua vicenda ricorrendo a una polifonia di voci che si rincorrono, che diventano sempre più incalzanti, e che si intrecciano con gli atti giudiziari, dai quali emergono ancora altre voci – familiari e periti a vario titolo. Piano piano, però, con lo scorrere delle pagine, emerge sempre più chiara la tua voce, emerge il tuo desiderio di rivolgerti alle lettrici. È così?
Sì, il mio punto di partenza è stato il fascicolo degli atti giudiziari. Cinquecento pagine per me pressoché incomprensibili, sia per il coinvolgimento emotivo sia per il succedersi di termini e acronimi che mi erano del tutto oscuri. Al tempo stesso, mi rendevo conto che quei documenti avevano una carica testimoniale molto forte, erano irriproducibili, e pertanto ho capito che avrei dovuto integrarli nel mio libro così com’erano. È qui che è avvenuto il passaggio alla non fiction.
Per quanto riguarda le voci che emergono al di fuori degli atti giudiziari, in un primo momento avevo assegnato a ciascuna di loro un nome, che però poi ho preferito rimuovere perché, in fondo, non era importante sapere chi è che aveva pronunciato quelle parole, volevo piuttosto che emergesse un mormorio indistinto.
Inoltre, mettermi in ascolto delle voci che sentivo emergere dai miei ricordi e dagli atti giudiziari mi ha permesso di compiere un ulteriore passo avanti: a un certo punto, mi sono resa conto che lavorando a quelle voci io avevo il dito puntato contro gli altri, la giustizia, ma io? Io chi ero? Ed è così che, attraverso il laboratorio di scrittura, sono arrivata al riconoscimento dell’io.
Una volta che sei riuscita in qualche modo a prendere le distanze dal linguaggio della giustizia, come è proseguita la ricerca del tuo linguaggio?
Volevo dare un nome ai fatti per dare un nome a me stessa. Questo processo è proseguito sicuramente con la scrittura del libro, dove in qualche modo ho cercato di trovare parole che non attenuassero i fatti, che non lasciassero spazio a eufemismi, com’era stato fatto fino ad allora. Volevo che laddove vi era stato silenzio ora ci fossero grida, grida di dolore, di tristezza.
E ci sono stati autrici o autori che ti hanno accompagnato in questo percorso?
Sicuramente la lettura aiuta a trovare una possibilità, ed è proprio quello che mi è successo durante la stesura di
Perché tornavi ogni estate. Ricordo che all’università mi insegnavano che Bachtin era il teorico della polifonia e io non capivo cosa volessero dirmi, non capivo a cosa mi sarebbe servita quell’informazione. Poi, quando ho iniziato a scrivere, è stata proprio la polifonia a emergere con prepotenza, ma non ero del tutto convinta, non sapevo se quello che avevo scritto potesse funzionare, se le mie intenzioni fossero chiare. E per questo mi sono rivolta a Svjatlana Aleksievič, che aveva appena vinto il Premio Nobel per il suo lavoro su Černobyl, e mi ricordo che quando ho letto
Preghiera per Černobyl (edizioni e/o, 2018, trad. di Sergio Rapetti) mi sono resa conto dell’impatto che poteva avere il dare voce a chi era sopravvissuto, ai familiari di chi aveva perso la vita, ed era come un coro di voci che raccontavano quanto accaduto. E così ho capito che quella che avevo scelto per il mio libro era una forma possibile.
Con il linguaggio è successa la stessa cosa. In Argentina ha riscosso grande successo il libro King Kong Theory di Virginie Despentes (Fandango, 2019, trad. di Maurizia Balmelli). Ricordo che ho fatto molta fatica a trovarlo e, quando l’ho letto per la prima volta (era forse il 2015 o 2016), è stato un pugno nello stomaco: l’autrice parlava di prostituzione, raccontava in prima persona il proprio stupro e spiegava che non voleva essere etichettata come “vittima”, perché si è sempre vittima di un aggressore, una sopravvissuta a un’aggressione, si dipende sempre da un’altra persona. Mi trovavo di fronte a una letteratura che abbatteva gli stereotipi, che non aveva paura – io la definivo una letteratura selvaggia, brutale.
Il libro di Virginie Despentes ha avuto una grande influenza su Perché tornavi ogni estate, soprattutto verso la fine, quando inizio a parlare di quello che succede a me con il mio corpo, con il desiderio.
Sulla scorta di queste letture, ho pensato che anche la mia letteratura poteva essere come quella di Aleksievič e Despentes, perché era una letteratura in prima persona che lavorava sulla memoria, sul ricordo. Io stavo creando un linguaggio a partire dalla mia esperienza personale ma, vedendo che altre autrici prima di me avevano fatto le mie stesse scelte, ho avuto conferma di quella possibilità. E credo che tutto questo sia legato al fatto che la letteratura stessa è una polifonia ed è impossibile concepire i libri come entità isolate, è come se i libri fossero costantemente attraversati da un fiume, dove a volte la corrente si fa più forte. È impossibile leggere e non cogliere sfumature, parole, riferimenti che vengono da altri autori e autrici, e questo ha sicuramente a che fare con le letture possibili ed è anche da qui che nasce l’impulso alla ricerca del linguaggio, al non detto. Io credo che in Argentina, nel momento in cui ho iniziato a scrivere il mio romanzo, mancasse una testimonianza diretta che per me sarebbe stato prezioso leggere quando non sapevo ancora cosa fare con la mia famiglia, con la giustizia in merito a quanto mi era successo.
Alla luce del percorso che si è venuto delineando fin qui, che cosa è arrivato a essere per te il linguaggio?
Con la scrittura del romanzo, il linguaggio è diventato un’arma, non solo per ribaltare la mia condizione di vittima, ma anche per ribaltare gli equilibri all’interno della mia famiglia e di quella di altre persone. La letteratura, pertanto, mi sembra il luogo più adatto per dare voce a chi non ce l’ha e, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale fin dall’infanzia, perché può contribuire a generare la consapevolezza di essere bambini e bambine, la consapevolezza che imparare a leggere e a scrivere è la più grande rivoluzione davanti a quegli adulti che vogliono in qualche modo occultare questi abusi. Secondo le statistiche UNICEF, 1 bambina su 5 viene abusata e l’80% degli abusi avviene in ambito familiare: come possono le famiglie rendere consapevoli i propri figli della prospettiva di genere, del linguaggio, delle parole del desiderio e della violenza sessuale se vogliono che di tutto questo non si parli? Un figlio o una figlia che può porre un freno a una situazione, che non si piega, per loro è un rischio. Anche per questo il ruolo della scuola è fondamentale. E anche come giornalista, io credo che una delle sfide principali sia l’approccio linguistico alla notizia di violenza sessuale: nei titoli degli articoli che parlano dei miei libri la parola che ha più risalto è “vittima” prima ancora che “scrittrice”, “autrice”. Di recente, ho ricevuto un riconoscimento dalla Legislatura di Buenos Aires per il contributo socioculturale del mio libro e la stampa, invece di mettere in risalto il mio ruolo di scrittrice, si è concentrata sulla mia triste storia di vittima: una povera ragazza che, attraverso quel riconoscimento, è stata in parte risarcita del calvario giudiziario subìto. Quando si smetterà di porre l’accento sull’esclusivo ruolo di vittima della donna in questione, allora emergerà con maggiore forza il resto.