D a dove arriva la voce chirurgica, abbandonata, ironica di Antonella Anedda? Forse dall’aver affilato lo sguardo da sempre, a partire dagli inizi come storica dell’arte nella Roma d’inizio anni Ottanta, sotto la guida di Augusto Gentili. “Ero ben avviata per un percorso accademico, stavo per iniziare la specializzazione” mi ha raccontato la prima volta che l’ho incontrata, a Pisa: schiva, voce pacata, l’esatto opposto dell’idea mortifera del poeta-che-declama. “Avevo fatto una tesi d’iconologia su Carpaccio, poi una ricerca su Palma il Giovane: abbiamo individuato una committenza, è stata un lavoro un po’ poliziesco. Poi qualcosa non ha funzionato”. Poi anni d’incertezza, di riflessione, passati in disparte — ma non in solitudine: è il periodo del lavoro alle pagine culturali del manifesto — nell’intento di scoprire quello che era: una delle voci poetiche più riconoscibili della sua generazione. A intuirne per primo le doti era stato Fortini, leggendone l’esordio narrativo (un romanzo dal titolo e atmosfere irlandesi, Voci d’inverno) inviato al Premio Calvino: “Ma lei vuole scrivere poesia, non è vero?”.
Il testo resterà inedito, ma qualche anno dopo, complice quell’incoraggiamento, vedrà la luce la raccolta d’esordio Residenze invernali (Crocetti, 1992), primo passo d’un percorso che ha visto alternarsi senza soluzione di continuità poesia, prosa, traduzione e racconto critico, numerosi premi e due dottorati (uno honoris causa dalla Sorbonne, l’altro da Oxford, con una tesi su Darwin e Leopardi da poco diventata libro). Anedda incarna come quasi nessuno in Italia un’idea di scrittura non al passo con le mode editoriali e forse per questo in anticipo sui tempi; l’avvicendarsi tra vocazioni ricorda le due scrivanie di Anne Carson, di cui ha co-tradotto Antropologia dell’acqua in tempi non sospetti. Come l’autrice dell’Autobiografia del Rosso, si è tenuta ai margini del circuito letterario: non ama presenziare ai festival, detesta i pettegolezzi, si cura poco dell’opinione di chi non stima, è rigorosa con se stessa e generosa con coloro verso cui sente un’affinità. Anche nella quotidianità si distanzia dalle pose maudits di autori suoi coetanei: nata a Roma ma d’origini sarde (padre giudice, madre discendente d’una famiglia nobile, gli Angioy), divide il suo tempo tra Monteverde e La Maddalena, dove passa le estati col marito e la figlia, di cui scrive spesso.
Non si percepisce separazione tra vita e scrittura: con lo stesso appassionato rigore ci viene raccontato di paesaggi e preistoria, nuvole e desiderio, traghetti e inesistenza dell’identità. Qualcuno ha affermato che ci sono poeti musicali e poeti visivi; senza dubbio Anedda è fautrice dell’I have seen it, secondo la definizione di Elizabeth Bishop. “Lo diceva perfettamente Keats” mi ha detto in un’intervista: “la poesia è una carcassa e il poeta è l’essere più impoetico del mondo. Per me scrivere coincide con una passione per la realtà, un vedere nella sua interezza una cosa indipendentemente dalle categorie di bruttezza e bellezza; perfino un parafango può essere meraviglioso, o una ringhiera”. Che il vedere — anzi, il vedersi vedere — abbia da sempre avuto un ruolo chiave è evidente sin da Residenze invernali , affiancato in prima edizione da due litografie di Ruggero Savinio. La silloge è palinsesto d’una costellazione di ecfrasi cancellate, ‘dipinti di copertura’ che contribuiscono al posizionamento obliquo dell’io lirico rispetto alla sezione di mondo che decide di porci davanti. Così la quinta sezione, L’anno raggiunge il suo giorno più breve, tratteggia l’anonima camera mortuaria dove è distesa una persona cara:
Scendi anche tu
Le gambe freddate dal lenzuolo
metallo
Indifferente
A cosa frantuma dentro il buio
[…]Silenzioso è il retro dei quadri
Silenziosi gli angoli, l’aria
Senza respiro degli oggetti
Le scarpe inchiodate alla parete
L’abbandono del cuoio
Le coordinate spazio-temporali si offuscano, aprendo a uno sguardo che è al contempo oggettivo e ottuso, cioè (per dirla con l’amica-maestra Amelia Rosselli) “invaso dalla vita”. Quello di Residenze è un mondo dominato dall’anacronismo; non esiste realtà univoca, gli uomini appaiono solo di passaggio, meno importanti degli oggetti — il cappotto disteso, il cestino con ancora una mela — che aprono la raccolta. Le voci dei ricoverati nelle corsie d’ospedale si alternano a quelle dei parenti in visita, in una volontaria oscillazione tra noi e il voi; il dentro è trafitto dal fuori, la contingenza della malattia si intreccia di continuo alla morte ‘che sta per accadere, ma non accadrà’ sulla superficie dei dipinti. L’inserto figurativo precedente è significativo anche per la posizione che occupa: fa da ponte tra la prima sezione, dominata dalla tragedia della sopravvivenza, e un corsivo che rimanda invece all’esistenza di mondi metafisici (“Forse volano vetri sugli scogli/ e più lontano uccelli/ cacciano altri uccelli”) manifesta nel finale (“Il raggio alto nel tempo/ l’ora buia o splendente”).
La figurazione apre quindi uno spiraglio tra universi che mai avrebbero potuto incontrarsi; ma anziché il riferimento iconografico in sé è la trasversalità della percezione, che passa attraverso il filtro del medium pittorico, a far sì che ci si possa staccare dal dolore quel tanto che basta per riuscire a oggettivarlo scrivendone. Se Bishop era solita eternare dipinti imperfetti — una sua poesia, Large Bad Picture, riesce a rendere unica persino una marina sbilenca pittata da un prozio — per Anedda non sempre è così: in questo e nei libri successivi viene squadernato un canone verbovisivo orientato al nord (si riconoscono le ombre di Böcklin e Bruegel in pittura, Cvetaeva e Celan in poesia), ma con un cuore che batte per gli antichi maestri. L’immagine delle gambe freddate dal lenzuolo tornerà anni più tardi nell’antiecfrasi del Cristo morto di Mantegna, oggetto della prosa di chiusura di Ritagliare, prima sezione dello splendido iconotesto La vita dei dettagli:
Sono i piedi di un morto. A volte nelle camere ardenti li legano con un filo di nylon perché non si divarichino. […]. Il pittore tenne con sé il quadro fino alla fine insieme alla sua collezione di monete antiche. Quanto lo dipinse aveva appena perso due figli, Federico e Girolamo. Vedo la sua vita intirizzire, secca dentro una ciotola di tempere. Rivedo me stessa davanti a piedi simili. Questo non è solo un Cristo morto ma il ritratto della nostra vertigine davanti a ogni morte, la sua veduta aerea. L’occhio percorre un paese deserto.
L’uso eretico del dettaglio — un modo come un altro per disubbidire alla prospettiva — permette di ricostruire alcuni riferimenti oscuri che tornavano nei Notturni di Notti di pace occidentale, raccolta del ‘97 che risuona dolorosamente con l’oggi: “Attraversa lo spazio e il vortice d’erba di camere ardenti/ Pensa la fronte pesante come una testa di bestia/ Scagliata sul crinale/ che nella morte unisce nel marmo le caviglie”. (Capita a volte che la prosa chiarisca riferimenti impliciti nelle raccolte; più spesso la poesia tracima nella prosa, incurante degli steccati tra i generi, forse perché quest’ultima “è la più reale di tutte le forme, e non pretende di definire le forme”). Il tagliare un dettaglio da un dipinto, isolandolo da quella che gli antichi chiamavano azione, spinge all’identificazione col dolore altrui — e a risignificare il proprio. Guardare è prima di tutto un gesto etico, un non tirarsi indietro (dilatando lo spazio, congelando il tempo) che può arrivare a ferire chi lo esercita:
Alla domanda sul perché siano trentadue, rispondo che ogni sguardo sostiene quello che può, in quel particolare momento di vita, e che l’ultimo dettaglio mi ha fatto sentire il peso di tutti i precedenti. Ho dovuto smettere, stabilire una tregua, scrivere pagine sagge.
Saggia la voce che ci parla non lo è mai; scrive per liberarsi dagli stereotipi, scombina di continuo le carte e le nostre aspettative muovendosi sulla pagina come farebbe un’artista visiva: orizzontalmente, per mappe delle emozioni anziché per alberi genealogici.
Così le fotografie di volti luoghi oggetti amati inserite in La vita dei dettagli (2009) e Salva con nome (2012) non illustreranno mai i testi, né viceversa; lo spazio-pagina è un campo di battaglia in cui il lettore abituato a passare da un’immagine all’altra senza pensare si sente invitato ad essere partecipe, esercitando l’occhio a non prendere mai per buono quel che ha davanti, accogliendo in sé la necessaria lentezza e la scomodità che ne deriva. Guardare vorrà dire allora esercitarsi allo spossessamento, alla sparizione del proprio io.
“Anedda” scrive Sara Sermini a proposito d’un altro recente libro di prose “traccia le geografie del proprio sguardo, ne segue gli spostamenti, si osserva vedere”.
Tanto in Historiae (2018) quanto in Geografie (2021) l’orizzonte si fa più ampio, oltrepassando la storia e con essa la presenza umana, che da primo piano diventa sfondo. Anche l’approccio al lessico non potrà che essere materico; le intersezioni tra le raccolte di prosa, poesia e iconotesti sono segnate dalla presenza ossessiva di ‘parole-segno’, che hanno una funzione simile a quanto accadeva per il drippingin Pollock o per i tagli in Fontana: una gamma di vocaboli emersi in forma inconscia, che hanno la funzione di richiamare costantemente l’attenzione del lettore sul gesto e la riflessione di chi scrive. Si contrappongono al dettato ricercato del resto delle poesie e assumono un valore che comprende insieme il lato oggettuale e quello astratto: termini come balcone, osso, tregua, isola trapassano i loro significati tradizionali per dar corpo alle istanze più profonde della poesia, creando un loro “spazio interiore nel mondo” che ribadisce l’osmosi naturale tra parola e immagine:
Tra foglio e quadro intercorre un rapporto di vita. Il quadro è un tuffo nella realtà (anche quando è Rothko). E nella vita prima ancora di scrivere volevo guardare i quadri, ritrovare là il fango, il cielo, le bestie, certi asini legati ad una staccionata, vicino alle pozze d’acqua. Mi sono laureata in storia dell’arte, ma più che un’iconologa ero una adoratrice solitaria di immagini. Il quadro è verticale, il foglio è verticale, anzi lo schermo del computer è verticale. Entrambi hanno a che fare con la luce e con l’ombra, con il bianco e col nero.
Il timbro d’una voce che riconosceremmo ovunque nasce dal cortocircuito tra passione per la realtà e purezza della lingua volta a custodire il mondo (“Scrivi, dico a me stessa […] Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco/ trema più fragile del bosco”), in un impeto non dissimile da quello del Fortini di Traducendo Brecht (“Scrivi, mi dico, odia/ chi con dolcezza guida al niente/ gli uomini e le donne che con te si accompagnano/ e credono di non sapere”). La fusione tra regola e emozione, la commistione tra generi, l’idea stessa di traduzione costituiscono l’asse portante d’una poetica tesa a creare un dialogo tra chi ha scritto o dipinto in passato e chi sta leggendo. Attraverso un occhio mai arreso Anedda colma di continuo distanze — tra passato e presente, tra prosa e poesia, tra immagine e parola, tra scienza e letteratura —, aprendo spazi impensati a chi si appresta a cominciare: “Ma lei vuole scrivere poesia, non è vero?”.