I n una delle prime scene di The Sandman, graphic novel capolavoro di Neil Gaiman, assistiamo a un oscuro rituale volto a intrappolare la morte: che nessuno debba più morire, che tutti possano vivere in eterno. Il rituale non può che fallire perché ad essere intrappolata non è la morte ma il Sogno, la capacità di riposare e trovare pace tra le difficoltà della vita. Se non c’è pace, i demoni sono liberi di camminare sulla terra: è così che Gaiman ci presenta il Corinzio, un incubo in forma umana che sceglie come suoi uguali uomini che per scelta uccidono altri uomini. Nella storia di Gaiman, il sogno riesce a ricomprendere al suo interno l’orrore; l’incubo torna alla sua forma fantasmatica, non gli viene permesso di infestare il reale. Nella realtà, invece, l’errore e l’orrore che il Corinzio rappresenta sono presenti come glitch, come alterazione della normalità che ne disvela le illusioni: Tutto era cenere, il libro di Simone Sauza uscito per nottetempo, parte esattamente da questo punto, dal crollo dell’illusione che a sua volta dà inizio a una spirale di ricerca del sé che non può che condurre all’orrore del non riuscire a trovarsi nel mondo che ci circonda.
Per Sauza, il serial killer rappresenta “un errore della realtà che non si può sistemare”: una falla in quel sistema che Nick Land chiamava human security system, capace di far implodere le categorie di analisi e di giudizio e di mostrare il fondo oscuro della vita e della materia. Per questo motivo, la nascita di un serial killer sembra coincidere con il momento in cui la realtà entra in uno stato di sospensione: uno stato simile a quello descritto da Heidegger quando in Essere e tempo scrive dell’Angst. Per Heidegger l’angoscia è lo stato per eccellenza in cui il mondo viene meno, nel quale i nostri sensi non ci forniscono più nessun appiglio sul quale proiettare il senso: è l’esperienza del nulla, intimamente connessa a quella della morte. Se però in Heidegger l’angoscia può essere considerata in una sorta di accezione positiva, poiché è la via d’accesso per una vita autentica, nell’esperienza del serial killer sembra non esserci nessuna possibilità di redenzione: quel vuoto diventa una condizione esistenziale permanente e l’unico modo per ricomporre la frattura diviene l’omicidio. Come spiega Sauza, in uno scorrere di pagine che vanno dalla saggistica più rigorosa all’autofiction più creativa, le soggettività che prendono la strada dell’omicidio seriale sembrano mosse da una ricerca, da un tentativo di ricomporre un’identità perduta per sempre e da sempre, capace però di ricostruire, a volte solo per un istante, un intero mondo a partire dalla cenere.
Sauza punta a ricostruire lo sguardo dei serial killer per immergersi in quella piega oscura che vi è nel linguaggio, e contiene il segreto dell’identità di tutti e tutte.
La catabasi compiuta da Sauza in più di duecento pagine è quindi espressione di questa ricerca: una volontà di trovare una quadratura possibile fra identità e desiderio. Come scrive Funetta nella splendida introduzione che accompagna il libro, Sauza punta a ricostruire lo sguardo dei serial killer per immergersi in quella piega oscura che vi è nel linguaggio, e contiene il segreto dell’identità di tutti e tutte. Cosa vede un serial killer quando guarda al mondo che abbiamo in comune? Per scoprirlo è necessario identificarsi con quello sguardo e in un certo senso viverne il dolore e lo smarrimento. Tuttavia, chi leggerà Tutto era cenere sperando di trovare un tour del dolore altrui rimarrà deluso: il libro non è l’ennesima enciclopedia dello strano e del perturbante, tanto in voga fino a qualche anno fa; nel testo non c’è nessun malcelato voyeurismo, ma il coraggio di partire dal dolore che ci accomuna a quelle storie di morte e massacro. La volontà di fare i conti con quella particolare dinamica di alienazione che De Martino aveva già individuato alla radice della crisi della presenza, e che ci pone, forse con vergogna, sullo stesso piano di chi uccide. Ai serial killer manca il mondo, nei molti significati del termine: non è un caso che, come spiega l’autore, uno dei temi centrali sia quello dello sguardo e in particolare dello sguardo dell’Altro, capace di fornire quel riconoscimento necessario alla creazione continua dell’esistente e dei suoi significati. I serial killer, dice Sauza, mentono: sono i primi a non riconoscersi. I media e tutto l’apparato spettacolare che accompagna le azioni efferate di chi uccide in serie creano “un’assuefazione alla rappresentazione”. In quest’ottica, i media sono quell’“elemento che ‘confisca’ l’identità del cosiddetto serial killer, e lo lascia in uno stato di disfunzionale identificazione continua – stato che equivale a un processo anomalo e squilibrato di ricostruzione del mondo. Il processo di identificazione stesso si sovrappone all’identità. L’identità, per certi versi diventa questa stessa ricerca”. Il libro manifesta un’emozione nascosta, con il quale lettori e lettrici sono costretti a fare i conti: il dolore. Il dolore assume varie forme, ma alla radice nasce da quella stessa perdita che spinge i serial killer a cercare sé stessi all’interno della narrazione restituita dai media. Ogni uccisione è una traccia, una ricerca disperata di significato, un tentativo paradossale e profondo di invertire il corso degli eventi: senza mondo non si vive, e se le preghiere non bastano allora può essere una maledizione a riportare a galla il significato e l’identità di cui diciamo, ormai quotidianamente, di non avere più bisogno.
L’unica identità possibile è quella che abita nel Fuori, nell’abisso; un’identità aliena che scioglie ogni legame, che emenda la vergogna di soffrire, di fare pensieri morbosi e di indugiare nel macabro, che riscatta l’umano annichilendolo.
Ma attenzione al monito nietzschiano: se guarderai troppo a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te. Questo tentativo di ricomporre un puzzle andato in pezzi è lo stesso che l’autore testimonia personalmente nello scorrere delle pagine: fra rimandi al cinema, alla filosofia e alla musica, traspare una vergogna, la vergogna di soffrire e, oltre un certo livello, della gioia che questa sofferenza comporta. Questa dimensione ricorda a tratti la jouissance descritta da Lyotard: una gioia sofferente che gode, in maniera perversa, dell’alienazione che sperimenta. Questo perché, come suggerisce tutta l’opera landiana, l’unica identità possibile è quella che abita nel Fuori, nell’abisso; un’identità aliena che scioglie ogni legame, che emenda la vergogna di soffrire, di fare pensieri morbosi e di indugiare nel macabro, che riscatta l’umano annichilendolo. Il fascino della morbosità è ancestrale: un’attrazione naturale, nella sua apparente estraneità. Sauza prende la mano di chi legge e con dolcezza, delicatezza quasi, obbliga a riflettere sulla nudità del Re: su tutti quei meccanismi di copertura, di occultamento e di controllo che l’umanità attua per evitare di riconoscere la dura verità che già il fauno sileno aveva reso nota millenni or sono: la cosa migliore sarebbe non essere mai nati. Ma anche qui, sarebbe errato pensare che l’autore sposi la causa di un banale e scontato, e invero davvero poco interessante e anche un po’ naif, antinatalismo alla Benatar; in realtà l’obbiettivo del libro è pressoché l’inverso: accettare la possessione del Male, ma vivere nonostante tutto, esorcizzare la paura e la vergogna, guardare dove fa più male, rigirare il coltello nella piaga per poi potersi finalmente guardare allo specchio. Già Land, autore che riecheggia in molte pagine di Tutto era cenere, pensava l’uscita dalla società attraverso una forma di estinzione di sé; Sauza mette in scena la stessa danza macabra e circolare che conduce al cuore dell’assassinio seriale, per compiere quella catabasi necessaria che da il nome al primo capitolo del libro “Persi in un loop di mediazione con il proprio sé, in questo fondo impossibile dell’esistenza non si troverà nulla, soltanto una soglia aliena che squarcia la persona al di là di ogni distinzione fra interno ed esterno, dove l’interiorità è già da sempre contaminata dalle vicissitudini della materia”.
Ogni catabasi presuppone un’anabasi, una risalita. Le ferite aperte dalle pagine di questo libro sono in realtà squarci di luce, fessure attraverso le quali cercare la propria liberazione. “È così facile pensare di essere peggiori di ciò che si è. L’abiezione di sé è già la pronuncia di un’assoluzione […] ciò che rimane è fare i conti con il divenire un enigma per sé stessi, come affermava Sant’Agostino nelle Confessioni, trovare un senso di libertà nella negazione di sé”. La vera sfida diventa quella di perdersi continuamente, ma continuamente ritrovarsi. L’enigma è preservato, ma così anche la necessaria ritualità, il continuo gesto di creazione del mondo e dei suoi significati, la volontà di cura di sé e degli altri. Perché, in fondo, se tutto è cenere allora niente importa, ma se niente importa non c’è più nulla da salvare.