C osa ci insegnano le cosiddette “società primitive” sull’arte e, nello specifico, che tipo di “presenza” o di “agentività” hanno le opere d’arte nelle società? La risposta è che le opere d’arte contengono un potere sacro, o quasi sacro, anche se questo spesso non viene riconosciuto. Per sua stessa natura l’antropologia è un’impresa comparativa, che pone la “nostra” cultura in relazione alle “loro”. Questo significa che definire l’“arte” e l’“oggetto artistico” è, al medesimo tempo, problematico e stimolante. Problematico perché la cosiddetta arte primitiva non era destinata a essere appesa alle pareti. Stimolante, perché l’oggetto d’arte e la pratica artistica sono in qualche modo sacri, un’affermazione che probabilmente, ai giorni nostri, può far sentire a disagio gli occidentali o aprire le porte al kitsch New Age, come lo “sciamano” cornuto, con il viso dipinto e coperto di pelliccia che ha attaccato il Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021. In un moderno museo d’arte, un vaso o un tessuto realizzato in tempi antichi o in una cosiddetta società primitiva potrebbero essere esposti come “arte”, mentre nella società che li hanno originati sono oggetti d’uso. Questo pone domande interessanti, persino dilemmi, su cosa sia arte. Inoltre, molta “arte primitiva” – come le pitture del corpo, sulla sabbia, nelle caverne, le scarificazioni, la danza, i canti, la musica – esiste in funzione dei rituali ed è effimera, non facilmente trasformabile in “art commodities”.
In un moderno museo d’arte, un vaso o un tessuto realizzato in tempi antichi o in una cosiddetta società primitiva potrebbero essere esposti come ‘arte’, mentre nella società che li hanno originati sono oggetti d’uso.
Questa caratteristica effimera spesso sembra essere l’essenza di tali attività e oggetti. Non sono fatti per durare. Gerardo Reichel-Dolmatoff racconta delle statuette di guarigione in legno degli emberá-catío nel Chocó colombiano che, una volta servite al loro scopo, giacciono abbandonate su cumuli di spazzatura. Mi vengono alla mente i massicci totem, scolpiti con cura, che ricordano una morte nella Terra di Arnhem, nel Nord dell’Australia, e che vengono lasciati a marcire nella foresta, come si vede nel film del 1980 di Lester Hiatt, Waiting for Harry. Potremmo dire che, in molti casi, tale arte – come viene chiamata oggi – è destinata a essere effimera ed è pensata per esserlo, come i fuochi d’artificio? Qui interviene Georges Bataille con il suo concetto di dépense, sprecare per il gusto di farlo.
Anche la musica, il canto, la poesia e il racconto orale lo sono. L’essere effimeri è ciò che li rende affascinanti e potenti. Al contrario, che miseri fantasmi pallidi sono le loro registrazioni su supporti elettronici. I canti sciamanici che conosco, nel Sudovest della Colombia, talvolta vengono descritti dagli stessi sciamani come intonati dagli spiriti della pianta psicotropa che lo sciamano, avendone fatto uso, ascolta e copia o da cui è ispirato. Inoltre, i canti sembrano essere più che suoni, paiono possedere una vita o una forza vitale propria. Potrebbero essere animali o sembrare animali; un uccello che dall’alto si tuffa e volteggia, un pesce che guizza nell’acqua bassa, o un tessuto membranoso che ci avvolge come nell’utero. Le canzoni sono animate anche nel senso di un continuo cambio di ritmo, come il jazz moderno o come viene descritta, dall’antropologo e romanziere peruviano José María Arguedas, la forza vitale di una trottola con cui giocano gli scolari in I fiumi profondi. Le canzoni sono animate nel senso che entrano nel corpo altrui e lo fanno ballare a livello cellulare e molecolare. La tromba molimo così splendidamente descritta da Colin Turnbull nel suo libro The Forest People, è la religione dei pigmei della foresta del Congo. Come tutto ciò che è sacro nelle società primitive, la sua fonte è segreta, nota solo agli iniziati. La sua unica forma di esistenza è il suo suono che sembra provenire dalla foresta stessa. Turnbull ha visto da cosa proveniva quel suono solo una volta: era un pezzo di un tubo di drenaggio abbandonato da una squadra di costruttori di strade. Immaginate quel vecchio tubo arrugginito in un museo d’arte o addirittura in un museo etnografico. Eppure secondo Turnbull questa è la religione della gente della foresta Ituri. È impossibile pensare alla scena dell’arte contemporanea in termini di effimero perché l’oggetto d’arte, per esempio quello venduto in un’asta di Christie’s, deve materialmente durare come proprietà privata e tale proprietà ha una lunga e complicata storia istituzionale. I vecchi tubi di scarico in ferro non vanno bene. Questo non significa assolutamente che altre forme di proprietà non siano presenti nelle società primitive in cui, per esempio, una canzone, come un incantesimo, ha probabilmente un proprietario e deve essere comprata, ereditata o ricevuta come un dono speciale.
È impossibile pensare alla scena dell’arte contemporanea in termini di effimero perché l’oggetto d’arte deve materialmente durare come proprietà privata.
Per quanto riguarda l’“evoluzione” dell’arte primitiva allo status di merce, immaginiamo una scena avvenuta nell’Australia centrale nel 1970. Uno studente di giurisprudenza di Sydney, diventato maestro d’arte, Geoffrey Bardon, sta insegnando ai bambini in una riserva aborigena chiamata Papunya a 250 miglia da Alice Springs. Nota alcuni vecchi che disegnano sulla sabbia. Le forme si rivelano essere porzioni di disegni segreti/sacri usati nei rituali. È entusiasta e incoraggia gli uomini a intraprendere una rivoluzione artistica, dipingendo l’Honey Ant Dreaming, senza i suoi elementi segreti/sacri, sui muri della scuola con colori acrilici. Ciò che prima era orizzontale sulla sabbia diventa verticale sulle pareti. I funzionari del governo bianco, che gestiscono l’istituto, esigono che il dipinto venga rimosso, imbiancato, affermando che trasgredisce la politica governativa di “assimilazione” dei popoli nativi alla società bianca. Bardon si oppone. Uomini aborigeni adulti iniziano a fare “arte” basata su “sogni” segreti/ sacri. La voce arriva a Melbourne e a Sydney. I galleristi si precipitano. Bardon viene attaccato dall’amministrazione della riserva e anche da alcuni artisti che lo accusano di aver intascato parte dei loro compensi. Crolla mentalmente. Viene salvato dal fratello, portato a casa a Sydney, curato con l’elettroshock e l’insulinoterapia, e non si riprende mai veramente. Ciononostante, nasce qualcosa che stimola un grande interesse nei mercati dell’arte di Melbourne e Sydney e, successivamente, in tutto il mondo. La “Desert Art” fa il boom, sono le scoperte della fine degli anni Quaranta a essere alla base del suo successo; quelle tendenze mondiali che coinvolgono l’acquerellista australiano del Deserto Centrale Albert Namatjira, così come l’arte “eschimese” (poi chiamata Inuit) e l’arte haitiana. Come raccontato nell’avvincente film di Curtis Levy del 1975, Sons of Namatjira, di lì a poco orde di mercanti d’arte e collezionisti dilettanti si aggireranno per Alice Springs come cercatori d’oro. Da quel momento in poi la pittura non figurativa, Dreamtime, sarà la più importante merce proveniente dalla regione del Remote Australia, più preziosa del carbone e del ferro in termini di impatto culturale mondiale. L’opera d’arte dipinta sulla fusoliera dei bellissimi aerei della compagnia nazionale australiana, Qantas, divenne al pari di Honey Ant Dreamings, una magnifica immagine estesa fino alla coda del velivolo.
Da qui, l’intervento contro-egemonico del 1989 dello spettacolare e interessante film Too Many Captain Cooks, realizzato da una giovane studentessa di cinema, Penny McDonald, con protagonista l’indigeno di Arnhem Land Paddy Fordham Wainburranga. Il film è incentrato su un grande dipinto verticale eseguito sulla corteccia staccata da un albero. Il dipinto diventa il palcoscenico per una performance in cui Wainburranga, con un puntatore, racconta la sua storia; Capitan Cook è un personaggio di milioni di anni fa (cioè del Tempo del Sogno) che ha portato molte cose buone agli aborigeni ma è stato ucciso dai suoi figli (come può accadere nelle storie del Tempo del Sogno) che hanno rivolto le loro armi contro i neri di tutta l’Australia. A quel punto le grida stridenti dei cacatua ti riempiono l’anima di terrore quando i vecchi seduti a terra suonano i loro didgeridoo con suoni ossessivi mentre cantano canzoni come la paddle song, non canzoni sull’opera nel suo complesso, ma canzoni che accompagnano i dettagli come le pale nel dipinto, non una narrazione complessiva. In termini occidentali il risultato è un Gesamtkunstwerk (un’opera d’arte totale) di canzoni, poesia, striduli canti di uccelli, pittura e narrazione che cancella la storia. Quest’ultima viene sostituita con un altro tipo di storiografia. Inoltre, vediamo il processo di pittura: l’albero scortecciato, da una mano sicura, il foglio di corteccia che viene appiattito sul fuoco, la preparazione dei pigmenti, e il meticoloso dipingere il dramma stesso, ripreso dalla telecamera che, con un close-up, si muove da un dettaglio all’altro. Il tempo del sogno si ripiega sull’incubo coloniale, animato dal mito, dalla magia e dall’umorismo demistificante, dall’interazione tra la macchina da presa e l’interprete, tra questa e la pittura.
Nel museo di Melbourne, l’antropologo Sir Baldwin Spencer siede accasciato nella vetrina di un diorama, guardando in lontananza. È vestito con un abito bianco, con un cappello bianco, con una cravatta bianca e con stivali bianchi. Il tutto è coperto dalla fine polvere rossa del deserto. Perché sembra triste? Anche lui è una figura del Tempo del Sogno? Forse è arrivato a capire cosa si prova a essere un oggetto d’arte, se non addirittura un artefatto, come i tanti che ha raccolto nelle sue spedizioni nella regione della Remote Australia alla fine del XIX secolo. Perché lì, davanti a lui, appesa a fili invisibili, in una multiforme moltitudine, c’è una vera e propria foresta di boomerang e lance. Lui stesso è diventato un trofeo scientifico e anche se lo staff del museo ha respinto il progetto originale di Tony Birch di avere un indigeno, dal vivo, fuori dal diorama di vetro come guardiano di un luogo sacro, il messaggio è chiaro. Come in Too Many Captain Cooks, gli agenti della storia sono ora i suoi oggetti.
E che cosa dire degli oggetti che non hanno nulla a che fare con i rituali, come i vasi e la stoffa intrecciata di cui ho fatto menzione precedentemente? Prendete la freccia che viene fabbricata nel grande film di Juan Downey del 1979, The Laughing Alligator, girato durante i sette mesi in cui Downey, sua moglie Marilys e la figliastra Titi vissero con gli yanomami nell’Amazzonia venezuelana. Vediamo gente dondolarsi lentamente in amache di corda, un oggetto estremamente utilitaristico. Le donne dipingono volti e corpi, gli sciamani sono sdraiati sulla schiena e tamburellano il terreno per combattere gli spiriti nemici e, a un certo punto, il film si sofferma su un giovane che inserisce delle piume all’estremità della freccia che sta fabbricando. Stringe l’asta sotto l’ascella. La freccia e il corpo del suo creatore sono una cosa sola. È seduto su uno sgabello basso con le gambe distese, un po’ reclinato all’indietro, nudo tranne che per un piccolo lembo di tessuto, paradigma dell’equilibrio e del rilassamento. Fa roteare l’asta. Riflettendo la luce, le piume diventano nere, poi blu e poi di nuovo nere. Vedere questa scena mozza il fiato. Sicuramente è arte non meno di quanto lo sia la quotidianità, la fabbricazione della freccia non meno di quanto lo sia il modo in cui viene filmata, quello che voglio dire è che anche le attività e le cose più pratiche, pragmatiche e legate alla sussistenza dalla vita hanno la loro arte.
Un altro esempio che mi viene in mente è il gesto che fanno le donne afro-colombiane quando cercano l’oro nel corso superiore del fiume Timbiqui, sulla costa dell’Oceano Pacifico della Colombia. In piedi nel fiume, a volte con una pesante roccia legata alla schiena nel caso in cui debbano immergersi in profondità, entrano nelle acque vorticose per raccogliere dal fondo ghiaia e sabbia che mettono in una “padella” di legno a forma di disco. Ponendo le mani da una parte e dall’altra del bordo, fanno roteare con un gesto ipnotico la padella, chiamata batea, e fanno fuoriuscire gradualmente il suo contenuto, lasciando una macchia nera al centro della batea dove si potrebbe trovare, se si è molto fortunati, un granello d’oro. Una donna, spesso con un bambino piccolo, può passare cinque o sei ore a fare questo gesto sotto al sole crudele. L’incantevole bellezza del movimento rotatorio prende una vita propria. Questo gesto, il suo immediato contesto, per me si qualifica come arte, l’arte speciale del muovere la sabbia, la ghiaia e l’acqua vorticosa di un fiume che si lega a una storia di schiavitù. È significativo che nulla di tutto ciò appaia, o che nemmeno vi si rifletta, nel famoso Museo dell’Oro di Bogotá che, invece, è dedicato agli oggetti d’oro precolombiani depredati dalle tombe indiane. In termini occidentali oggi, solo quest’ultima è “arte”. In poche parole, non c’è spazio nei musei d’arte per attività pratiche come cercare l’oro o costruire una freccia. O se c’è, a tali attività non viene concessa l’etichetta di “arte”; se trovano posto, sarà invece nei musei etnografici con tutto il carapace coloniale che ciò implica. Inoltre, queste “attività pratiche”, che sono anche “artistiche”, presentano un profondo problema filosofico legato al significato della parola “arte”.
Non c’è spazio nei musei d’arte per attività pratiche come cercare l’oro o costruire una freccia. Se trovano posto, sarà nei musei etnografici con tutto il carapace coloniale che ciò implica.
Nel suo dizionario, Keywords, Raymond Williams, professore di teatro a Cambridge, scrive una breve storia sociale della parola “arte” e della sua diffusione come arte nel XIX secolo. Egli traccia l’impatto che la rivoluzione industriale ha avuto sull’artigiano a partire dal XVIII secolo che è risultato in una biforcazione, con, da un lato la nascita delle belle arti, e dall’altro, l’artigiano. Quest’ultimo capace di “lavoro manuale specializzato” senza “carattere intellettuale” o “potere immaginativo” o “scopi creativi”. Che dolore si prova a leggere queste parole! Quindi, costruire un attrezzo a mano con materiali locali o cercare l’oro al fiume non è considerato degno dell’etichetta “arte” o “belle arti”.
Primo Levi racconta una storia misteriosa e triste su una tribù di 2500 indigeni chiamati siriono, che abitavano le umide foreste a est del Perù orientale. Il racconto dal titolo “Gli stregoni” si trova nella raccolta Lilit e altri racconti. È in parte fiction e in parte basata su un lavoro etnografico poco noto pubblicato nel 1950 dall’antropologo statunitense Alan Holmberg. I siriono al tempo in cui Holmberg li aveva studiati non avevano alcuna arte nel senso occidentale del termine, non avevano sciamani, ed erano perennemente affamati (motivo che spinse Holmberg a studiarli). Erano vecchi a quarant’anni. Non erano capaci di fare il fuoco. Stando a quanto raccontato da Levi, le donne anziane avevano quindi la responsabilità di mantenere le braci ardenti. La storia di Levi riguarda due etnografi inglesi, che studiano i siriono, a cui brucia il campo base e tutto l’equipaggiamento. I due riescono a inviare un messaggero indigeno a camminare per venti giorni fino al più vicino insediamento non indiano per chiedere aiuto. Mentre aspettano i soccorsi, negoziano per avere del cibo dal capo locale, ma quest’ultimo è riluttante. Cercano di barattare un orologio, il registratore e infine due scatole di fiammiferi, l’unico oggetto a cui il capo è interessato. Questi chiede che facciano altri fiammiferi ma gli etnografi non sanno come fare, soprattutto perché non c’è salnitro (spiega Levi, il chimico). Il capo del villaggio si allontana, torna con un’asta di legno e davanti ai loro occhi costruisce lentamente un arco e una freccia. “Lavorava con applicazione ed abilità, in silenzio o canticchiando a bocca chiusa […]. Forse percepí una traccia di impazienza nell’atteggiamento o nei commenti dei due.” La corda dell’arco quando viene pizzicata suona come un’arpa. Il capovillaggio scocca una freccia. A differenza degli etnografi, può fabbricare e rifornirsi di ciò di cui ha bisogno.
Gli etnografi, che non parlano bene la lingua dei siriono, continuano a sforzarsi di pensare a schemi per cui la loro superiorità, in termini di civiltà e tecnologia, potrebbe essere barattata. Ma non riescono a costruire nulla. Percepiscono che gli indiani li considerano cattivi stregoni, inetti o malvagi, che sono in grado di fare orologi, registratori e fiammiferi, ma non vogliono o, peggio ancora, non possono farlo. Di conseguenza vengono rinchiusi, soffrono per la mancanza di cibo e le privazioni, ma alla fine, come previsto, una barca arriva a salvarli. Senza soluzione di continuità, Levi dice al lettore, alla fine del suo racconto, che le informazioni sui siriono le ha avute dall’etnografia di Alan Holmberg. Questo elemento è parte del racconto stesso. Il punto della storia è che una parte vitale dell’essere umano risiede nella produzione di cose necessarie alla sopravvivenza, ma che in una moderna economia di mercato, con la sua intricata divisione del lavoro, nessuno sa fare molto. Siamo artless (come si dice in inglese). L’orinatoio di Duchamp, come gli altri suoi readymade, rende bene questa idea.
Una parte vitale dell’essere umano risiede nella produzione di cose necessarie alla sopravvivenza, ma in una moderna economia di mercato, con la sua intricata divisione del lavoro, nessuno sa fare molto. Siamo ‘artless’.
In altre parole, tutto dipende da come viene presentata la cosiddetta arte primitiva, le maschere africane sono “in” come Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, fare frecce e cercare l’oro no. Questo ci fa capire che la presentazione dell’arte, così come l’arte stessa, è una performance orchestrata culturalmente, anche quando – anzi specialmente quando – viene appesa a una parete bianca e raramente corredata di didascalie, perché l’idea è che, come un oracolo, è destinata a “parlare da sola” in comunicazione silenziosa ma profonda con lo spettatore. È sorprendente, davvero, questa presunzione; strappare l’arte dal rituale o dalla prassi (prendendo in prestito il termine dal giovane Marx), per non parlare dell’attaccarla a un muro. In effetti, molto prima di Marx, Giambattista Vico fece di tale prassi la base della sua Scienza nuova, formulando l’idea che nel fare qualcosa, la cosa fatta si nutre del suo creatore, affermando così un rapporto stretto e dinamico tra il cosiddetto oggetto e il cosiddetto soggetto. Dio ha creato la natura, ma poiché l’uomo fa la storia, quest’ultimo può entrarvi dentro e conoscerla dall’interno.
È l’arte di oggi sacra come quella nelle chiese rinascimentali? Ma che dire allora della Gioconda al Louvre, un potente magnete per turisti, o forse dovremmo chiamarli pellegrini, che viaggiano verso i luoghi sacri che oggi chiamiamo musei. La verità è che tutti sono confusi. “Che cosa è arte” è una domanda a cui nessuno può rispondere. “Fai uscire la mosca dalla bottiglia” direbbe Wittgenstein. Basta porsi domande a cui non si può dare risposta. Ma non possiamo smettere. E poi c’è la storia che Bataille racconta a proposito del museo del Louvre come intimamente connesso al regicidio, all’omicidio, tanto che, nei giorni successivi alla rivoluzione, la borghesia poteva passeggiare nelle gallerie la domenica pomeriggio e purificarsi, come se fosse una chiesa. “Al cuore della bellezza” riflette Hollier, “c’è un omicidio, un sacrificio, un’uccisione (non c’è bellezza senza sangue).” L’origine del museo, dice Bataille, “sarebbe così strettamente legata alla ghigliottina”. Nel toccare un nervo idiosincratico surrealista, Bataille ci sorprende con l’idea che ciò che oggi chiamiamo “arte” nei musei abbia un legame sotterraneo con l’uccisione della sovranità e quindi con il sacro, come in Too Many Captain Cooks. Il senso di “presenza” e di aura delle opere d’arte oggi, su cui si concentra il libro che avete tra le mani, richiede quindi un’antropologia dell’arte non meno di un’arte dell’antropologia.
Estratto da Scambiarsi le arti di Anna Castelli e Franco La Cecla (Bompiani, 2022).