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l padre, Donald Galvin, ha passato tutta la sua vita nell’esercito, senza mai riuscire a fare la carriera cui aspirava fin da ragazzo. La madre, Mimi, è una casalinga che ha cercato di coltivare le sue passioni artistiche. Prima di tutto però è una madre: di dodici figli, dieci maschi e due femmine, le ultime due, tutti nati e cresciuti in una delle case con terreno assegnate ai militari a Hidden Valley Road, nei pressi di Colorado Springs, in Colorado. Cattolici, amanti della natura, sportivi, ben integrati nella comunità locale. Difficile pensare a una personificazione più patinata della famiglia statunitense.
Nei primi anni Sessanta, però, il primogenito Donald jr inizia a manifestare i sintomi psicotici della schizofrenia: alterazione del pensiero e del comportamento, deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, atteggiamenti violenti. Viene seguito, in rapida successione, da altri cinque fratelli. Il vortice della malattia, da quel momento, inghiotte la famiglia, facendole attraversare la storia della psichiatria degli ultimi sessant’anni e delle domande che si è posta per cercare di capire meglio la schizofrenia. In che misura dipende da fattori genetici e biologici e quanto da situazioni ambientali e familiari catastrofiche? Si può prevenire o quantomeno contenere, si può curare, e come? I Galvin sono diventati, negli anni, un caso di studio fondamentale, hanno accompagnato decenni di evoluzione del pensiero psichiatrico e hanno permesso di fare importanti passi in avanti a quei medici e ricercatori che hanno saputo intuire l’unicità di una situazione così particolare.
La storia quasi incredibile di questa famiglia è ripercorsa dal giornalista Robert Kolker nel libro appena tradotto per Feltrinelli da Silvia Rota Sperti, Hidden Valley Road, dopo il grande successo di vendite in patria. Dietro c’è un lavoro poderoso: Kolker ha passato diversi anni a parlare soprattutto con una delle due figlie femmine, la più piccola, Mary (per sua scelta chiamata Lindsay, da adulta), ricostruendo nel dettaglio la vita dei Galvin, e poi con decine di ricercatori e medici di vario tipo che si sono occupati della famiglia.
Il giornalista Robert Kolker nel suo Hidden Valley Road fa un poderoso lavoro di ricostruzione della vita drammatica dei Galvin, una famiglia di dodici figli sei dei quali colpiti da schizofrenia.
Il Tascabile ha chiesto a Tommaso Boldrini, ricercatore dell’Università di Padova e psicoterapeuta con lunga esperienza proprio nel trattamento della schizofrenia, di commentare i passaggi principali del libro, per capire quanto, da quel 1964, la situazione sia cambiata, per questi malati. “Nella storia dei Galvin”, spiega Boldrini, “si squaderna plasticamente ciò che oggi pensiamo sia la schizofrenia: non un’unica malattia a se stante, ma uno spettro, un insieme di manifestazioni anche molto diverse (che oggi preferiamo chiamare con termini meno stigmatizzanti come psicosi o disturbi psicotici) dovute a una combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali, che interagiscono in modo sinergico compromettendo lo sviluppo cerebrale fino dai primi anni di vita”.
Nei Galvin la schizofrenia inizia a mostrarsi, non riconosciuta, quando Donald jr, da poco entrato all’università per studiare medicina, si presenta in infermeria per farsi medicare il morso di un gatto, senza spiegare come se lo fosse procurato. Aveva sadicamente torturato il gatto. Nei mesi seguenti Donald jr torna a cercare aiuto più volte, per esempio perché convinto che il suo compagno di stanza gli abbia trasmesso, per via aerea, la sifilide, e poi per curare ustioni che si è provocato da solo, buttandosi in un falò. Presto le sue condizioni diventano incompatibili con la permanenza nel campus. In quel momento Donald jr dorme in uno scantinato dal quale esce raramente, e di certo non per studiare o prendere parte alle lezioni, ma solo per dare voce alle pulsioni di morte sempre più incontrollabili, che lo spingono, tra l’altro, a progettare il suo funerale, e a raccontare in giro di aver ammazzato un professore.
Finalmente, dopo la prima visita psichiatrica, si decide per un ricovero: il primo di una lunga serie che si conclude solo con il decesso, avvenuto pochi anni fa. “L’esordio di questo tipo di patologia” spiega Boldrini “si verifica tipicamente tra l’adolescenza e la prima età adulta. Ma oggi sappiamo che il termine esordio, in un certo senso, è fuorviante. Non si tratta, come si pensava all’epoca, di una trasformazione improvvisa ma, piuttosto, del punto di arrivo di un lungo periodo preparatorio che inizia nei primissimi anni di vita, forse già durante la gestazione. Una condizione di vulnerabilità che può manifestarsi, con sintomi più sottili e sfumati, molto tempo prima dell’esordio vero e proprio”.
Anche negli ultimi mesi a casa Donald jr aveva mostrato qualche stranezza: frantumava di colpo dieci piatti senza alcun motivo apparente, si lavava i capelli con la birra, gridava deliri a sfondo religioso. Ma nel caos permanente che regnava nella quotidianità della famiglia, non contenuto in alcun modo dalla madre, e in mezzo alle violente liti che Donald jr aveva spesso con il secondogenito Jim, nessuno ci aveva fatto troppo caso o, per meglio dire, tutti avevano respinto il pensiero di un vero disturbo, che pure i fratelli ammettono di aver avuto in più occasioni. “Oggi si cerca di intervenire prima possibile, perché è dimostrato che il tempo che intercorre tra la comparsa dei primi sintomi e il primo intervento (periodo definito tecnicamente ‘durata della psicosi non trattata’) è, in assoluto, il fattore più importante. In altre parole, prima arrivano diagnosi e terapie, minore è il rischio di aggravamento e di cronicizzazione”, chiarisce Boldrini. “C’è maggiore consapevolezza, anche nelle famiglie, anche se non è mai facile. Spesso è necessario un ricovero, per inquadrare nel dettaglio la situazione, ma in seguito si cerca di limitare al massimo l’ospedalizzazione, accompagnando il paziente e la famiglia in un percorso integrato di psicoterapia e, quando necessario, farmaci”. Il diniego vince invece sui Galvin per anni, almeno fino a quando non è più possibile nascondere, prima di tutto a loro stessi, i troppo frequenti ricoveri contemporanei, in diversi ospedali psichiatrici, dei propri figli: a Donald jr si aggiungono a turno altri fratelli, per un totale di sei.
Il caso di studio della famiglia Galvin ha accompagnato decenni di evoluzione del pensiero psichiatrico e ha permesso di fare importanti passi in avanti a quei ricercatori che hanno saputo intuire l’unicità di una situazione così particolare.
È il 1966, e la psichiatria è ancora, grosso modo, quella post bellica, anche se John Kennedy, nel 1963, pochi mesi prima di essere ucciso, ha firmato un importante finanziamento per fondare centri di salute mentale più piccoli e diffusi nelle comunità, traumatizzato dalla tragica esperienza di sua sorella Rosemary Kennedy, lobotomizzata poco tempo prima. L’obiettivo di Kennedy era quello di ridimensionare gli asylum e renderli più moderni. Ma il suo tentativo ha conseguenze imprevedibili: ansiosi di svuotare i grandi centri, moltissimi medici ricorrono in modo massiccio a un farmaco che subito venne chiamato “lobotomia chimica”: la torazina. Sperimentato per la prima volta nel 1952, gravido di effetti collaterali quali tremori, ottundimento, aumento di peso, confusione, in realtà concede una pausa dalle crisi, attenuandone i sintomi, ma non cura; ciononostante, diventa subito capostipite di decine di farmaci introdotti negli anni seguenti, di cui i Galvin saranno tra i primi utilizzatori.
Tutti e sei i fratelli che manifestarono disturbi di questo tipo trascorreranno la loro intera esistenza sottoposti a terapie sempre più pesanti e caotiche, che ne comprometteranno la salute ancora di più, fino a ucciderne due prematuramente. “La grande promessa delle aziende farmaceutiche sugli antipsicotici di seconda generazione, che avrebbero dovuto superare almeno in parte i limiti della torazina e delle molecole simili, è stata mantenuta solo parzialmente, e i farmaci attuali continuano ad avere effetti collaterali importanti”, commenta Boldrini. “Ma oggi si utilizzano in modo completamente diverso, e situazioni come quelle descritte nel libro e come molti libri e film dell’epoca hanno raccontato, a volte estremizzandole, sono fortunatamente residuali”.
Allora, invece, erano la norma; la psichiatria più moderna muoveva solo i primi passi. La prima edizione del manuale diagnostico-terapeutico o DSM (oggi giunto alla quinta versione), che cambiò profondamente l’idea stessa di malattia psichiatrica, e rappresentò finalmente un riferimento chiaro sul quale basare le diagnosi, è del 1952. “Da quel momento”, commenta Boldrini “la malattia mentale ha avuto i suoi codici omogenei, e anche se ciò ha portato spesso, soprattutto in anni più recenti, a una visione troppo schematica, troppo organicistica e rigida di patologie che spesso sono sfumate, presenti contemporaneamente e con evoluzioni temporali complesse, la categorizzazione è stata fondamentale per ridurre fortemente lo spazio arbitrario in cui muoveva la psichiatria di allora”.
Tutti e sei i fratelli Galvin che manifestarono disturbi psicotici trascorreranno la loro intera esistenza sottoposti a terapie sempre più pesanti e caotiche, che ne comprometteranno la salute ancora di più, fino a ucciderne due prematuramente.
Quelli erano anni in cui, negli Stati Uniti, moltissimi giovani, anche psicotici, e compresi praticamente tutti i figli Galvin, facevano ricorso a droghe pericolose proprio per le psicosi come l’LSD, spesso mischiate ad altre altrettanto pesanti. Ed erano anni in cui la clinica, dal canto suo, era come spaccata in due realtà. C’erano alcuni centri privati dove si esploravano approcci come quello portato avanti da Frieda Fromm-Reichman: approcci psicoanalitici, interamente basati sull’importanza dei fattori familiari nell’insorgenza della malattia e, in modo particolare, sulle responsabilità delle madri schizofrenogeniche, che potevano cioè indurre nei figli la schizofrenia tramite l’uso prolungato di forme patologiche di linguaggio e comportamento. E c’erano poi approcci molto diversi, dove si mettevano a punto i primi protocolli integrati di somministrazione di farmaci e varie forme di psicoterapia. La maggioranza dei centri, però, erano enormi cronicari come quello di Pueblo, a un’ora di auto da Hidden Valley Road, con centinaia di malati, dove le terapie più praticate, dopo il recente abbandono della lobotomia, erano ancora lo shock insulinico, l’elettroshock e appunto, la torazina in dosi massicce.
Donald jr, e poi Jim (pedofilo compulsivo e stupratore sicuramente delle sorelle, e forse anche di qualche fratello), Brian (omicida-suicida), Joe, Matt e Peter, ciascuno con una sua forma specifica, più o meno compatibile con un’esistenza autosufficiente almeno in certi momenti, più o meno violenta, autodistruttiva e delirante (per esempio con allucinazioni e paranoie a sfondo religioso, o sessuale), più o meno aggravata da dipendenze da droghe e alcol, hanno alternato, con diagnosi mutate negli anni a seconda degli specialisti interpellati, ricoveri e trattamenti sempre pesantemente farmacologici a momenti di maggiore lucidità e stabilità.
Come abbiamo già detto, oggi sappiamo che nella schizofrenia una combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali interagiscono in modo sinergico compromettendo lo sviluppo cerebrale già dall’infanzia. “In questo modo si struttura una condizione di vulnerabilità”, aggiunge Boldrini, “che potrà o meno esprimersi nella sua forma clinica (l’esordio) a seconda dei fattori di rischio successivi: una famiglia disfunzionale, come quella dei Galvin, traumi extra familiari, l’uso di sostanze (persino della cannabis, di norma innocua). Insomma, la biologia dice se e come ci ammaleremo a contatto con un ambiente avverso”.
Come spiega Tommaso Boldrini, la schizofrenia oggi è considerata uno spettro, un insieme di manifestazioni diverse dovute a una combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali.
Quest’ultima parte emerge con forza sempre nella storia dei Galvin: se è indubbio che deve esistere una suscettibilità genetica in un nucleo familiare unico così intensamente colpito, è altrettanto certo che ciò che succede nella quotidianità, per anni, ha un’importanza cruciale. Anche i fratelli sani della famiglia, tutti terrorizzati, quasi rassegnati ad ammalarsi, spesso hanno vacillato, e hanno cercato per tutta la vita, faticosamente, di emanciparsi da un nucleo che, nel racconto di Kolker, appare via via più disfunzionale, oltre che sfortunato: anche un prete che si avvicina ai Galvin per assistere Mimi nella sua conversione al cattolicesimo abusa di un numero imprecisato dei figli. “Esperienze come quelle vissute in casa Galvin, su chiunque, ma soprattutto su persone portatrici di una vulnerabilità alle psicosi, possono avere effetti devastanti”, sottolinea Boldrini.
La domanda che si sono posti in molti, naturalmente, è: come mai non si sono ammalati tutti? Una risposta definitiva ancora non c’è. Negli anni, però, il lavoro di alcuni dei protagonisti assoluti della psichiatria degli ultimi decenni ha portato a dettagli sempre più precisi della malattia. Lynn DeLisi, per esempio, ha raccolto migliaia di campioni in famiglie con casi di psicosi per poi scoprire, insieme al collega Steven McDonough, un gene fondamentale, SHANK2, illustrato in un lavoro pubblicato nel 2016, cioè trent’anni dopo i primi incontri con i Galvin. E lo stesso ha fatto Robert Freedman, che ha individuato un altro gene cruciale, CHRNA7, coinvolto nella sintesi del recettore dell’acetilcolina, fatto che ha portato alla sperimentazione della somministrazione della stessa colina in gravidanza, tuttora in corso. Ancora oggi sono attivi e in pieno svolgimento studi su campioni di migliaia di famiglie in cui ricorrono i casi, avviati anche grazie ai Galvin e alle intuizioni di pionieri come DeLisi e McDonough. Tutto ciò ha portato a un’idea della schizofrenia molto diversa e, in alcuni paesi come la Gran Bretagna e l’Australia, ad approcci integrati e più efficaci, come attestano numerosi studi.
In Italia, invece, c’è ancora molto lavoro da fare. “Le linee guida internazionali per il trattamento dei disturbi psicotici”, spiega Boldrini, “sono scarsamente tradotte e poco utilizzate, mentre l’ultimo aggiornamento di quelle nazionali è addirittura del 2008. A causa della mancanza di personale debitamente formato, spesso si tende a intervenire in maniera esclusivamente farmacologica, e i pazienti con psicosi che ricevono anche una psicoterapia nei servizi pubblici sono ancora pochissimi”. Ma ciò che è peggio, conclude, è la prevenzione è ancora quasi un’eccezione, anche se ormai ci sarebbero tutti gli strumenti per metterne in campo una efficace. “La vulnerabilità si manifesta in modi sempre più specifici durante lo sviluppo, è questa la grande acquisizione della ricerca degli ultimi anni. Sottili anomalie cognitive, della percezione del sé, e della realtà in cui si vive sono osservabili, misurabili e diagnosticabili diversi anni prima dell’esordio, a volte già nell’infanzia, e questo offre numerosissime possibilità di prevenzione. Un adolescente che improvvisamente si ritira dal suo mondo sociale ed esprime convinzioni bizzarre o disturbi percettivi (per esempio sente voci interiori) che lo lasciano confuso e spaventato, dovrebbe essere preso in carico il prima possibile da un centro specializzato. Ma in Italia sono ancora pochi, e quasi tutti nelle città più grandi”. Nelle tante Hidden Valley Road di cui il mondo è pieno, i Galvin di oggi rischiano, nonostante tutto, di avere un destino non molto diverso.