A lfonso Desiderio, coordinatore del canale Youtube di Limes, ha passato l’ultimo mese a discutere con esperti di ogni campo e regione del mondo le origini, le implicazioni e gli scenari intorno all’invasione russa dell’Ucraina. Quella che segue è la seconda conversazione redazionale, dopo la chiacchierata con Marco d’Eramo: un formato di cui ci stiamo servendo per interpellare intellettuali che sappiano aiutarci a seguire meglio quel che sta succedendo in Ucraina: lanciandoci spunti diversi, cercando di andare nel passato e di proiettarci nel futuro. È un’esigenza prima di tutto nostra, della redazione. Davanti all’enormità dei fatti dell’ultimo mese, più ancora che stare sulla notizia abbiamo bisogno di parlare con calma con intellettuali in grado di aprirci la mente, di toglierci dalla posizione di passività a cui troppo spesso ci costringono stampa e televisione quando plasmano un pubblico di pura reazione, senza concedere lo spazio per pensare.
Alfonso Desiderio è giornalista professionista ed esperto di geopolitica e relazioni internazionali. Lavora per Gedi Digital / Limes.
Matteo De Giuli: Partirei dalla Ucraina e da come, per identità e cultura, prima della guerra fosse bene o male composta da due, o forse tre zone: occidentale, orientale e meridionale.
Alfonso Desiderio. Ucraina significa terra di confine, nome azzeccatissimo perché nei secoli è sempre stata contesa tra mondo russo e resto d’Europa. Da quando è indipendente, in ogni elezione presidenziale ucraina si è sempre vista una spaccatura elettorale tra parte sud orientale (filo-russa) e parte centro occidentale (filo-occidentale) con un candidato che voleva l’Ucraina sempre collegata all’Occidente (NATO, UE). E questo aveva una base storica perché da Kiev le zone verso est sono state sotto il controllo russo a lungo, mentre invece le parti occidentali hanno vissuto solo una breve occupazione russa. Anzi, il grande problema di oggi l’ha causato Stalin, perché alla fine della seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica vincitrice non ha soltanto espanso la sua area di influenza fino all’Europa centrale, ma ha voluto espandere i confini della stessa URSS. Oltre poi a prendersi Kaliningrad sul Mar Baltico (che dopo il 1991 è diventata un’exclave della Federazione Russa), nella parte meridionale Stalin ha voluto inserire nella Repubblica Sovietica di Ucraina tutta una regione che faceva parte dell’impero asburgico, il cui punto di riferimento è Leopoli, che fu addirittura la quarta città dell’impero, e dove si era sviluppato un sentimento nazionale ucraino in chiave anti-russa.
All’inizio di questa guerra molti analisti, me compreso, pensavano che alla fine Putin sarebbe riuscito a conquistare facilmente la parte orientale. Questa è stata un po’ la sorpresa di questa guerra, perché si è visto che c’è una fiera resistenza anche nella parte orientale, come nella parte meridionale. Mariupol è fondamentale come città, perché è una città che non è ancora [venerdì 18 marzo, ndR] controllata dai russi, città che in sostanza divide la parte delle Repubbliche Federate del Donbass, rese autonome nel 2014 e ora riconosciute da Putin, con la Crimea – anche quella annessa nel 2014 – e la provincia di Kerson nella parte meridionale già conquistata.
A parte Mariupol che è un caso a sé, simbolo della resistenza ucraina, c’è il famigerato battaglione Azov, o meglio reggimento, con tutte delle implicazioni politiche, perché è un battaglione che ha usato una simbologia nazista, e viene accusato dal punto di vista ideologico e politico. Ma nelle altre province meridionali la città chiave è Dnipro, dove vedevamo i video delle madri che preparavano molotov per strada. Ora certo, c’è un effetto propaganda, però ecco non è che i russi abbiano avanzato tranquillamente. In questi otto anni dal 2014 anche quella parte di popolazione che consideravamo russofona in realtà si è trasformata e sta combattendo contro i russi. Questa è una novità, perché abbiamo sopravvalutato l’influenza storico-culturale della Russia in queste province. La divisione sembra essere in tre parti: cittadini ucraini che si considerano russi (Donbass e Crimea); la parte che parla russo abitualmente; e ucraini occidentali che sanno entrambe le lingue ma parlano solo ucraino. La novità di queste prime settimane di combattimenti? È diminuita l’influenza politica e culturale russa in questa parte orientale di Ucraina; la resistenza ucraina rappresenta una sconfitta per Putin. Altra sorpresa è che tutti si aspettavano che Putin volesse mettere un governo fantoccio, si pensava che questa cosa sarebbe stata facile, trovare cioè un politico ucraino che proclamasse una Repubblica ucraina indipendente filo-russa. Al momento la sorpresa è che anche nelle parti più legate alla Russia c’è molta resistenza, è uno dei motivi che l’ha spinto a intervenire ora, la paura di perdere il paese.
MDG: L’obiettivo minimo adesso per Putin qual è? Prendersi la Nuova Russia, intesa come regione storica, cioè tutta la parte a nord del Mar Nero?
AD: Quello sta diventando l’obiettivo massimo. Sarebbe una conquista importante. Non solo si conquisterebbe tutta la costa del Mar Nero (sbocco mediterraneo che si aggiunge all’espansione russa in Siria, Libia, etc), ma sarebbe un colpo gravissimo per quello che resta dell’Ucraina, che senza sbocco al mare difficilmente riuscirebbe a sopravvivere. Questo paese già era povero prima della guerra, affaticato dalle tensioni degli ultimi anni, senza sbocco sul mare avrebbe delle difficoltà economiche. L’obiettivo sarebbe di creare uno stato talmente debole che un domani si potrebbe convincere a tornare alla Russia, vecchia tattica usata sull’Ucraina intera. Ora, conquistata Mariupol, si tratterebbe di escludere Odessa e annettersi e riconoscere una Repubblica del Donbass allargata fino alla Crimea. L’altra questione per i russi è che la Crimea, anche se storicamente legata alla Russia, dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico ed elettrico dipende dall’Ucraina. Dal 2014 ci sono stati problemi per i russi a fornire acqua e corrente elettrica alla Crimea. Questo obiettivo minimo consentirebbe una vera annessione della Crimea alla Russia.
Elisa Cuter: Hai parlato di un sentimento nazionalista ucraino che ha sorpreso gli analisti. Puoi parlarci delle sue origini? Quanto è legato alla figura di Zelensky, e quanto dipende dai rapporti con l’Occidente, o piuttosto da un senso di identità nazionale forte?
AD: All’inizio della guerra non era previsto da nessuno. Tutti pensavano che le minacce fossero un modo per ottenere risultati dal punto di vista politico e diplomatico. E la dimostrazione la si vede in questi giorni. Militari mandati a fare esercitazioni in Bielorussia sono stati avvisati all’ultimo o non avvisati. Lo stesso apparato russo, generali nei vari gradi, alla fine non erano informati o pronti a questa guerra. Quindi sicuramente nella fase iniziale c’era un obiettivo negoziale anche perché dal punto di vista militare è un’operazione illogica. Stiamo parlando di un paese grande quanto la Francia con oltre 40 milioni di abitanti ed è difficile riuscire a controllarlo con duecentomila soldati. L’unica speranza di vittoria era che Putin venisse accolto come liberatore. Puoi vincere una guerra come gli Usa in Iraq, ma poi mantenere il controllo del paese è un’altra questione. Tutto ciò fa pensare che ci sia stata una decisione di avviare l’intervento da parte di Putin. Che lui avesse già da tempo questa intenzione e l’abbia tenuta nascosta, questo non lo sappiamo. Che fosse obiettivo di lungo termine è vero, qui però entriamo nel campo delle ipotesi, un ping pong con gli Usa che hanno fatto di tutto per non impedire l’invasione, perché con lo spostamento dei diplomatici a Leopoli e gli annunci sul non-intervento per l’Ucraina hanno lasciato agli europei il compito di sostenerla.
Insomma, Putin ha pensato che fosse il momento giusto. Con l’attacco al Congresso americano e con il ritiro dall’Afghanistan ha intravisto una debolezza americana. Quando fece la guerra in Georgia era il 2008, l’anno della crisi economica che portò al fallimento di Lehman Brothers… Forse pensava che Zelensky e il governo ucraino entrassero subito in difficoltà e forse delle persone identificate come alternativa a Zelensky sono venute meno. E quindi è rimasta solo l’opzione militare. L’altra sorpresa è stata Zelensky, ex attore comico che Putin probabilmente non considerava un leader capace di reggere, e che invece si è rivelato in questa fase un grande leader; sa usare i mezzi social per coinvolgere l’opinione pubblica occidentale, i governi europei e la stessa popolazione. Non era scontato. Altro fattore: considerate anche che Biden e gli Usa hanno tenuto un basso profilo. Dal punto di vista mediatico abbiamo assistito al confronto tra un Putin che invade, l’uomo forte, e Zelensky la vittima debole. Sui media è Davide contro Golia. Forse se ci fosse stata una presa di posizione forte da parte Usa dal punto di vista mediatico sarebbe stato un confronto tra Biden e Putin; nell’Europa occidentale questo avrebbe creato manifestazioni di movimenti anti-americani, “Zelensky fantoccio degli Usa”, però in questa situazione mediatica non è – almeno – sembrato così.
Francesco Pacifico: I telegiornali in giro per il mondo che differenze hanno al di fuori della Russia su come stanno raccontando della guerra?
AD: Ovviamente non conosco tutti i media. Molti paesi subiscono l’influenza dell’informazione occidentale, quella che noi vediamo filtra in tanti paesi del mondo ad eccezione di due soggetti principali di questa guerra, Russia e Cina, dove sono controllati. Quanto questi media sono pervasivi? Con i social ci sono tanti modi per informarsi. Escludiamo la Cina per ora, parliamo della Russia. La questione mediatica è questa: in Russia alla fine il settore della popolazione che subisce l’effetto delle sanzioni è un settore limitato, soprattutto urbano, e ha quindi un impatto relativo. Il grosso della popolazione russa, meno legata agli standard occidentali, ha la carta prepagata russa che non subisce sanzioni, guarda la tv russa filo-putiniana eccetera. C’è una Russia profonda che in questo momento non viene intaccata dalle sanzioni, ma ci vuole tempo; non conosce i fatti se non quelli che arrivano dal governo russo. E conoscendo lo spirito russo è facile per Putin dare colpa all’Occidente perché c’è un atavico complesso di inferiorità russo verso l’Occidente. C’è una popolazione che da un lato può essere mobilitata verso occidente, e dall’altro – pur essendo povera e in difficoltà – è pronta a sacrifici per la potenza del proprio paese. L’impatto dei media è relativo, considerando che l’opinione pubblica russa conta relativamente. È importante l’impatto che ha sugli apparati, ministeri, gruppi di potere intorno a Putin. Sono in corso delle purghe che sono da un lato effetto di come sta andando la guerra, ma forse ci sono anche delle crepe all’interno del sistema. Importante qui è stato rendere pubblico quel video del Consiglio di Sicurezza russo in cui Putin mette in difficoltà i suoi collaboratori, segnale che da un lato affermava la forza del leader, dall’altro faceva capire che su questa guerra c’erano state delle divisioni interne alla Russia. Per la Cina c’è un altro discorso. L’impatto dei media relativo, il regime è particolare. Molto importante è quello che deciderà il governo cinese, che è l’unico che può salvare la Russia.
Nicolò Porcelluzzi: Prima parlavi del momento giusto per attaccare, l’altro giorno nel Mappa Mundi con Orietta Moscatelli parlavate di questo come l’ultimo momento possibile; Moscatelli ipotizzava che la caduta di Mariupol potesse essere sufficiente a innescare una tregua.
AD: Quello è il problema classico delle negoziazioni. Apriamo il quadro, riguardo al momento giusto e quello non giusto. C’è stato un allargamento NATO nel tempo, a danno di quella che era la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica e della Russia stessa. Si è passati dal contenimento a un rosicchiamento dei vari pezzi, un allargamento fino alle Repubbliche baltiche nel 2004. C’è stata la Georgia, l’Ucraina, si era arrivati a ipotizzare la caduta di Lukashenko in Bielorussia, l’unico saldo alleato della Russia – anche se non è così semplice il suo rapporto con la Russia, perché a lungo Putin e Lukashenko non hanno avuto ottimi rapporti, Lukashenko aveva voluto rimarcare l’indipendenza della Bielorussia dalla Russia… Detto ciò, con le manifestazioni contro Lukashenko in Bielorussia dal punto di vista di Putin, e russo, c’era il rischio che anche la Bielorussia potesse fare la fine dell’Ucraina. Nella visione russa, Bielorussia e Kazakistan, al di là dell’allargamento della NATO (l’Ucraina non sarebbe mai potuta entrare nella NATO per varie ragioni, assenza di confini chiari, stato di guerra permanente etc), la sensazione da parte di Russia e Putin era di questo continuo rosicchiamento, e ricordiamoci sempre che la Russia è un impero, non uno stato nazione. Limes l’ha scritto in vari volumi. La perdita di pezzi equivale a una frammentazione della Russia stessa.
FP: Con Marco d’Eramo abbiamo parlato di temi simili, quanto è importante la Siberia per esempio: se la Russia si disgrega, magari la Cina si prende la Siberia e non è detto che gli Usa lo vogliano… Ci sono tante nevrosi nel giornalismo italiano, puoi dirci un po’ la tua su questo disagio davanti al fatto che veniamo da un lungo periodo di benevolenza per la Russia, e questo imbarazzo di vedere gli Usa che hanno incalzato, fatto sentire insicuro l’impero russo, e noi non sappiamo più come parlare… Come vedi questo imbarazzo?
AD: Italia e Germania sono due paesi che storicamente, anche facendo parte dell’alleanza atlantica, hanno sempre avuto un rapporto di forte interscambio con la Russia. Il caso energetico è quello più evidente. Italia e Germania dipendono dal gas russo. Fatto economico e politico. Due esempi: Schröder, segretario del partito socialdemocratico tedesco, va a lavorare per Gazprom ed è uno dei personaggi chiave per la realizzazione del gasdotto che collega Germania e Russia saltando la Polonia.
L’altro esempio è il nostro circa il rapporto tra Berlusconi e Putin, non a caso noi dipendiamo dal gas russo per più del 40 per cento, e così la Germania. In Italia c’è un sostrato di rapporto culturale economico che ha sempre visto l’Italia, che è stato rafforzato anche dai rapporti politici. Ci siamo presi delle libertà nel sistema atlantico. Il problema dell’Italia e degli altri paesi europei, seguendo un filone del post-storicismo, è che siamo entrati in una fase in cui si pensava solo ai lati economici e non politico-strategici, abbiamo delegato questi agli Stati Uniti. Ora ci svegliamo. Gli Usa non sono più disposti a difendersi come nella guerra fredda e scopriamo che per l’accordo del gas ci fu grande attenzione da parte di media e popolazione sugli aspetti che ci legavano alla Russia di Putin.
Stella Succi: Intervenire nel Mar Nero significa anche interferire nelle rotte dei “mari caldi”. Come si modificheranno le dinamiche dello scacchiere mediterraneo a livello strategico, considerando anche la presenza della Russia in Siria?
AD: Il Mediterraneo è stato considerato a lungo ai margini dello scacchiere strategico internazionale. Gli Americani per anni non hanno più schierato portaerei nel Mediteraneo, e adesso sono tornate: in questo momento sono in corso esercitazioni tra la portaerei francese De Gaulle, la portaerei italiana Cavour, la portaerei americana Truman. Quindi il Mediterraneo dal punto di vista strategico torna importante, e anche a rischio. Si tratta di un problema pratico, perché le navi russe vanno a vedere cosa fanno le navi occidentali durante queste esercitazioni, c’è un confronto: molto spesso c’è un aereo che entra, una nave che si avvicina all’altra… C’è un gioco delle parti che provoca tensione, e un incidente può sempre accadere.
Esiste poi un discorso strategico e politico più ampio. Noi la Russia ce l’abbiamo al confine, perché da una parte sostiene Haftar in Libia, dall’altra in Tripolitania abbiamo la Turchia. Il rapporto tra Russia e Turchia è molto particolare, e se dovessero trovare un accordo sulla Libia noi avremmo la Russia vicina alle nostre altre forniture di gas ed energia algerine e nordafricane. Poi c’è la questione migratoria. La Turchia ha usato l’arma migratoria nei confronti dell’Europa, e potrebbe usarla anche contro l’Italia, facilitando gli sbarchi e provocando la reazione dell’opinione pubblica.
E poi ci sono i Balcani, che sono già in un equilibrio molto instabile: basti pensare alla Bosnia negli ultimi mesi, e all’importante rapporto storico che la Serbia ha con la Russia – anche se in questa crisi la Serbia all’Onu ha una posizione non proprio filo-russa. Con Romania e Bulgaria che sono sul Mar Nero, e vengono influenzate da questa guerra direttamente, anche i Balcani entrano in fibrillazione: è possibile che nei prossimi mesi esplodano delle crisi.
E poi abbiamo una serie di effetti indiretti: noi parliamo giustamente dei danni economici che le sanzioni e provocheranno all’economia italiana ed europea, ma il rialzo dei prezzi avrà effetti devastanti nei paesi dall’Africa e del Medio Oriente, quindi bisogna stare attenti a crisi che potrebbero essere innescate dal rialzo dei prezzi delle materie prime – grano, fertilizzanti, metalli e così via – e che innescherebbero effetti anche politici nei Paesi con economie molto più fragili della nostra, in aree instabili.
MDG: A proposito, c’è anche una questione mediorientale poco raccontata ma che in realtà mi sembra fondamentale. La Russia ha un ruolo chiave in Medio Oriente. Per la presenza militare e politica in Siria, come dicevi, perché contiene l’Iran contro Israele, e per le tante connessioni che ha proprio con Israele: il russo, per esempio, è la lingua madre non ufficiale del paese; sono legami profondi, culturali. Per questo Israele sembrava, almeno all’inizio, poter diventare una figura di intermediazione, anche per il fatto che Zelensky è ebreo.
AD: All’inizio sembrava, sì, in questa fase sembra esserlo meno, però forse ha un ruolo sotterraneo. Considerate che i russi in Israele si sentono russi. C’è un legame forte poi di Israele con gli Usa che è scontato. C’è il discorso dei flussi finanziari, i patrimoni degli oligarchi all’estero, metterei anche Cipro che è una delle destinazioni privilegiate delle finanze; ricordiamo che è divisa, la situazione è ambigua. E quindi Israele può avere un ruolo, ma non è ancora chiaro di che tipo, dal punto di vista politico, perché i legami con gli Usa sono fortissimi anche se si dà per scontato il luogo comune per cui Israele sia influenzabile dagli Usa. Non è sempre così. I rapporti di forza tra i due paesi è particolare, non è che Israele segue e basta, è un rapporto complicato e quindi bisogna capire gli interessi in questa fase di Israele, che è appunto interessato all’Iran. Siria: c’è una presenza russa che sostiene Assad, in contrasto forte con la Turchia. Alcuni scontri sono tenuti nascosti. Noi abbiamo visto anche meno di ciò che è stato tra Russia e Turchia. Entriamo nel capitolo della Turchia, allora, paese chiave nei rapporti con la Russia: è un rapporto ambiguo. La Turchia fa gioco tra Stati Uniti, Nato e Russia; quindi da un lato la Russia sarebbe un’antagonista della Turchia (Libia, Mar Nero, controllo degli stretti), hanno un problema nel Caucaso, hanno tantissimi contrasti in atto… Nonostante ciò hanno anche delle collaborazioni: la Turchia ha comprato il sistema missilistico russo S400, gli Usa non hanno dato gli F35 perché temevano che la tecnologia potesse passare ai russi; collaborazione economica, flusso turistico, un rapporto non nitido. È impossibile fare previsioni. Dal punto di vista strategico la Turchia è antagonista della Russia per interessi contrapposti; magari vedremo un avvicinamento tattico ora, in funzione anti-americana, anche se lì Turchia e Russia hanno troppi problemi geopolitici di lungo periodo per un riavvicinamento totale. Ci sono diversi dossier, bisogna capire su quali si può trovare l’accordo. Discorso simile per la Cina, anche lì sono impossibili le previsioni, non è scontato che la Cina sostenga la Russia e viceversa.
FP: Hai tirato fuori la parola “dossier”. La parola dossier aiuta a capire la differenza tra il lavoro che fate a Limes e quello di talk show e telegiornali che la buttano sul sentimentale. È importante ricordarsi che ci sono una serie di faldoni con scritte delle questioni, e bisogna un po’ trattare tra quelle. La domanda che ti vogliono fare è: voi avete tradotto in italiano deep state, stato profondo, traduzione di un termine turco che Trump ha usato per parlare male degli apparati. Voi avete fatto un lavoro per far capire che per stato profondo si intende continuità del rapporto tra collettività e amministrazione e comprensione di quale deve essere la strategia. Con tutti questi personaggi, qual è il rapporto tra i dossier che stanno in mano allo stato profondo e il lavoro dei politici? Qual è equilibrio tra le due cose?
AD: Gli apparati svolgono una funzione fondamentale dal punto di vista culturale storico e politico. Il consigliere del principe ha sempre avuto un ruolo fondamentale. È difficile da soppesare. È più facile negli Usa, che hanno un apparato evidente, che non è però compatto. Entriamo nella logica per cui l’apparato americano è diviso in vari componenti; ma anche proprio all’interno delle singole strutture c’è questo interscambio continuo tra mondo privato e pubblico, questa attività di lobbying che fa sì che la divisione tra privato e pubblico sia molto fragile. Ci sono poi i filoni culturali che vanno di moda nell’apparato americano che in vario modo influenzano. Nell’apparato americano c’è una tradizione anti-russa importante. E qui c’è una novità. A Limes abbiamo fatto una carta sulla Russia nemico preferito degli Usa, tanto che alcuni parlano nei termini di una collaborazione perché la divisione faceva comodo a entrambi: era una guerra fredda, ma anche un’alleanza, per certi versi. E c’è questo filone anti-russo molto forte legato alle comunità, ad esempio, di polacchi negli Stati Uniti. La novità è che sta crescendo il filo-putinismo negli Usa, c’è una crisi interna negli Usa, ecco anche perché la motivazione di un profilo basso di fronte all’invasione di Putin. Sono spaccati al proprio interno. Anche lì è complicato, perché è sempre complicato il rapporto tra apparato e opinione pubblica americana: c’è un’America che da sempre non sopporta Washington, una ridotta minoranza che sta diventando un concetto più ampio. Gli apparati hanno problemi a mantenere il controllo della popolazione. Negli USA c’è la stampa libera. È facile scambiare informazioni.
FP: È pensabile immaginare uno scenario della Russia dopo Putin?
AD: Anche nella migliore delle ipotesi per Putin, un passo geopolitico duraturo nel tempo è stato fatto. La Russia resterà a lungo con le sanzioni. Putin nei primi anni della sua presidenza guardava molto a occidente, all’integrazione russa nel sistema occidentale. Poi si è rotta questa strada, e la strategia è cambiata. È stato nel 2007-2008, quando a Monaco Putin fa un discorso importante, dove dice alla NATO: “dove volete arrivare?”; e poi l’applicazione pratica di questa logica è la guerra in Georgia nel 2008.
Anche gli ultimi discorsi, spinti dall’immediatezza della situazione attuale, mostrano un odio verso l’Occidente. Un odio che marca uno spostamento della Russia verso oriente, anche nella popolazione; quella più legata all’Occidente è quella più colpita, più debole in futuro. L’effetto nel medio periodo è importante. L’altro grosso effetto dal punto di vista geopolitico è il riarmo tedesco, un elemento fondamentale che avrà un effetto sul futuro dell’Unione Europea, ma ne parliamo un’altra volta.