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avid Grieco è giornalista, scrittore, sceneggiatore, regista, produttore, conduttore radiofonico e televisivo. È stato critico cinematografico e inviato dell’Unità dal 1970 al 1982. Ha scritto molti film, tra cui Caruso Pascoski di padre polacco di Francesco Nuti, e alcuni libri. Da Il comunista che mangiava i bambini (Bompiani, 1994) ha tratto il suo primo film da regista, Evilenko (2004), con Malcolm McDowell. Nel 2015 ha pubblicato La Macchinazione (Rizzoli) da cui ha tratto un film nel 2016, sulla morte di Pier Paolo Pasolini, di cui domani (5 marzo) ricorre il centenario dalla nascita.
Come ha conosciuto Pasolini?
Avevo circa nove anni, era un amico di famiglia. Quando ne avevo sedici mi ha scritturato per una parte nel suo film Teorema e sul set sono diventato suo assistente. A diciotto anni, quando sono diventato giornalista, mi ha considerato il suo giornalista di riferimento e lo sono stato anche dopo la sua morte, quando la famiglia mi ha chiesto di scrivere la memoria di parte civile del primo processo a Pino Pelosi. Ma l’amicizia è stata lunga, costante, duratura. Facevo parte del ristretto gruppo di persone a lui più vicine, con Ninetto Davoli, Franco Citti e Sergio Citti.
Il suo libro e il film La macchinazione raccontano gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini, a partire dal giugno 1975. Cosa l’ha spinta a questa scrittura quarant’anni dopo? Altri non avrebbero aspettato un attimo.
Non avrei realizzato La Macchinazione, libro e film, se non fosse stato per via del regista americano Abel Ferrara. Ferrara aveva in programma di fare un film intitolato Pasolini, che ha poi diretto, e la casa di produzione, la francese Canal+, gli aveva suggerito di farlo scrivere a me perché a Canal+ sapevano dei miei rapporti diretti con Pier Paolo Pasolini. Con Abel Ferrara ci siamo incontrati tre volte, e ho presto cominciato a capire quale fosse la sua visione di Pasolini. Fino a che, in un momento particolarmente teso tra noi, l’ha detto chiaro e tondo, con le seguenti parole: “David, parliamoci chiaro. Pasolini era un uomo ricco che comprava corpi”. Ovviamente, ho rinunciato a scrivere il film per Ferrara, ma da quel momento in poi ho cambiato tutti i miei programmi (dovevo dirigere un film noir a Praga) e mi sono detto che avevo il dovere di fare un film su Pasolini dalla parte di Pasolini, a qualunque costo. Ho trascinato in questa pazzia una produttrice esordiente, Marina Marzotto, che oggi è una produttrice affermata, e le sarò sempre grato di aver condiviso questa mia rabbia.
Il caso Pasolini potrebbe essere riaperto, come chiedono anche la scrittrice Dacia Maraini e altri, che sottolineano come gli strumenti oggi a disposizione della scientifica potrebbero finalmente restituire una verità che era più facile nascondere nel ‘75. Un po’ come Pasolini quando scrisse “Io so ma non ho le prove”, anche lei ha una pista che guida la ricostruzione dei fatti. Chi ha ucciso Pasolini?
È inutile parlare in astratto di riaprire il caso Pasolini. Fu riaperto dall’avvocato Stefano Maccioni, che ha trovato centinaia di indizi che smentiscono la cosiddetta versione ufficiale della sua morte, a cominciare dai Dna di più persone presente sulla maglietta di Pasolini. Ma la Procura di Roma ha pensato bene di archiviare le indagini. Parlando con Maccioni, il Procuratore Giuseppe Pignatone si giustificò dicendo: “Avvocato, sono passati tanti anni, ormai saranno tutti morti…”. Questo è l’atteggiamento della giustizia in Italia, perciò non c’è da stupirsi che non sappiamo ancora veramente nulla di quella che si chiamava la “strategia della tensione”. Mi chiedo cosa si insegna e cosa si continuerà ad insegnare a scuola in Italia a proposito della nostra Storia. Potrei parlare per ore del delitto Pasolini, ma proprio per questo ho scritto un libro e ho diretto un film – ma ora posso dare, in sintesi, pochi elementi oggettivi. Pasolini non incontrò per caso quella sera Pino Pelosi: aveva una relazione con lui da alcuni mesi. Non andarono fino all’Idroscalo per trovare un luogo appartato, ma considerata la distanza, avevano evidentemente un appuntamento con qualcuno; l’auto di Pasolini non è quella che è passata ripetutamente sul suo corpo, perché sotto non vi è traccia di quei passaggi. Infine, l’auto di Pasolini venne trovata dalla Polizia a mezzanotte, abbandonata a trenta chilometri di distanza dall’Idroscalo. Potrei continuare, ma mi fermo qui.
Cosa c’è di vero attorno alla figura di Pino Pelosi? Indicato come omicida, solo nel 2005 ha dichiarato in tv di non aver commesso materialmente il delitto.
Era un ragazzino di borgata d’altri tempi, forse Pasolini si era innamorato di lui perché gli ricordava gli Anni Cinquanta, quando era arrivato a Roma. Pelosi ha fatto da esca e non l’ha nemmeno capito. Quando l’ha capito, si è ritrovato in carcere minacciato da chiunque. Tutta la sua vita è stata un incubo, è andato ancora in galera, spesso per reati non commessi. È stato tenuto in soggezione fino al giorno della sua morte [nel 2017].
Cosa riteneva di aver scoperto Pasolini in qualità di giornalista investigativo? Aveva indagato le personalità dietro all’Eni e alla Montedison, alla P2, alla Democrazia Cristiana.
Pasolini era diventato un grande giornalista. Da quando scriveva per il
Corriere della Sera si era appassionato e si interessava di cronaca e di politica. Prima di morire stava lavorando da quasi due anni a Petrolio, che abbiamo scoperto anni dopo. In un primo tempo l’abbiamo letto in una versione molto parziale e privata degli appunti, elemento chiarificatore dell’opera. Senza stare troppo ad approfondire perché nessuno ne è veramente mai venuto a capo, io definisco Petrolio la scoperta della P2, annunciata dal cosiddetto “romanzo delle stragi” uscito sul Corriere della Sera, in cui Pasolini [nel 1974] scriveva “Io so. Ma non ho le prove”. Stava appunto cercando le prove. Ecco cos’è Petrolio [il romanzo lavorato fino al 1972 che fu pubblicato postumo vent’anni dopo da Einaudi].
Sergio Citti rivelò di essere stato contattato dalla Banda della Magliana, e questo incontro ha a che fare con la morte di Pasolini. Perché?
Sergio Citti, dopo il furto delle bobine contenenti il negativo del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, venne avvicinato da un malavitoso romano che conosceva. Fu accompagnato in un sottoscala del quartiere San Basilio dove era riunita quella che poi passerà alla storia come la Banda della Magliana. Gli fu detto che le bobine le avevano loro. Sergio Citti li derise perché avevano chiesto due miliardi di riscatto. Loro gli risposero che avevano capito di essersi sbagliati e dissero di essere pronti a restituirle senza pretendere nulla in cambio, ma specificarono che le avrebbero restituite soltanto a Pier Paolo Pasolini in persona. Quando Sergio Citti riferì a Pasolini quanto era accaduto, vide Pasolini per la prima volta in vita sua spaventato. Ma nel giro di due settimane, Pasolini evidentemente cambiò idea. Perché il suo viaggio all’Idroscalo, con ogni probabilità, aveva per scopo il recupero dei negativi di Salò.
Pasolini fu condannato per atti osceni in luogo pubblico nel 1950, per questo espulso dal PCI e dall’insegnamento, e ricevette molte denunce negli anni successivi.
Pasolini era stato costretto a fuggire da Casarsa, dalla scuola e dal PCI da un piccolo (ma in provincia macroscopico) scandalo sessuale [per “atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minore”]. Poi gli scandali sessuali lo hanno perseguitato, hanno soprattutto perseguitato i suoi film. Oserei dire, però, che da tutti gli scandali che gli sono piovuti addosso, Pasolini ha sempre trovato nuova linfa per i suoi libri e per i suoi film, facendo di necessità virtù. Potrei persino dire che da un certo punto in poi, non gli dispiacevano affatto. Gli piaceva sicuramente essere un artista provocatore, e le sue provocazioni andavano spesso a segno. A suo tempo, il Decameron fu uno dei maggiori incassi del cinema italiano.
Eppure non fu mai troppo vicino al movimento più ampio che stava portando avanti la rivoluzione sessuale. Come definirebbe il rapporto di Pasolini con il Sessantotto?
Freddo. Il Sessantotto lo sintetizzerei in tre elementi: la musica rock, la contestazione studentesca, la minigonna di Mary Quant. Fra questi tre elementi, non ce n’è uno che potesse veramente appassionare Pasolini, che non amava la musica rock, non aveva un particolare interesse per la minigonna e guardava con occhio severo la contestazione studentesca di origine molto borghese.
Pasolini è un autore su cui sono stati scritti decine di libri. Volumi che attraversano tutto l’ampio spettro degli studi culturali perché la sua produzione e la sua figura lo richiedono. Quali sono quelli che le sembrano più vicini alla persona che ha conosciuto?
Il nome di Pasolini per tanto tempo in molte scuole non si è nemmeno detto, o si è detto con fatica. Come altrove, gli insegnanti sapevano che parlarne avrebbe comportato il rischio di parlare anche di politica, di affari di stato, di ideologie, e di omosessualità. Oggi il Ministero dei beni culturali lo celebra, così come istituzioni internazionali e l’Unesco, ma questo avviene negli ultimi anni e soprattutto a ridosso del centenario. Lei che ha partecipato a molti incontri su Pasolini e ne ha studiato la figura, oltre ad avere un rapporto di amicizia, come vive questa evoluzione, se è tale?
Quest’anno in Italia assistiamo a una celebrazione di Pier Paolo Pasolini persino esagerata. A lui sicuramente non avrebbe fatto piacere tanto sfarzo. Ora si tratta di vedere a cosa porterà questo: se la scuola, a tutti i livelli, gli concederà l’ingresso che merita, sia benedetta la celebrazione. Se invece tutto resterà com’è, sarà stata solo una lunga carnevalata.
Si parla a Roma di un museo dedicato a Pasolini. Se venisse realizzato, come dovrebbe essere e chi dovrebbe occuparsene?
Se verrà realizzato mi piacerebbe che fosse chiamato a dirigerlo uno straniero, più precisamente un francese. Perché non dimentichiamo che Pasolini è celebrato anche all’estero, in particolare in Francia, dove non c’è mai stata alcuna prevenzione nei suoi confronti.