La miopia di Voir
La serie Netflix imita il formato del video essay trascurandone gli aspetti più interessanti.
La serie Netflix imita il formato del video essay trascurandone gli aspetti più interessanti.
S ulla pupilla di un occhio appaiono alcune immagini memorabili della storia del cinema, in una rapida successione quasi scandita dal battito delle ciglia: Un chien andalou. Frankenstein. Via col vento. La donna che visse due volte. I 400 colpi. 2001: Odissea nello spazio. Velluto blu.
Non sono sovrimpresse su un occhio che le guarda, ma sembrano piuttosto affiorare dal fondo della pupilla, a segnalare che quelle immagini non sono fuori, proiettate su uno schermo, ma si inscrivono nella memoria di questo anonimo spettatore. I titoli di testa di Voir, la serie documentaria sul cinema prodotta da David Fincher e David Prior, delineano dunque fin dall’inizio il profilo del suo spettatore ideale: cinefilo, con il giusto bagaglio di visioni alle spalle, e capace di saper vedere i film. In quel proiettarsi all’interno delle immagini c’è anche una dichiarazione di intenti: Voir ambisce a proporre delle riflessioni sul cinema che muovano anzitutto dall’esperienza soggettiva.
Nato nell’ambito delle pratiche artistiche e sperimentali, il termine video essay è associato oggi, soprattutto, alle produzioni video diffuse in rete che rimontano e riassemblano le immagini cinematografiche per finalità critiche e di analisi.
Ma procediamo con ordine. La serie è stata annunciata a novembre, in occasione dell’Afi Fest. A destare interesse era stato soprattutto il coinvolgimento di Fincher in veste di produttore, perché l’ideazione e la regia dei singoli episodi sono stati affidati a persone diverse, fra cui Taylor Ramos e Tony Zhou, le menti creative dietro il canale YouTube di successo Every Frame a Painting. L’importanza che la serie attribuisce alla dimensione soggettiva dell’esperienza spettatoriale era stata ribadita da un altro dei critici coinvolti nel progetto, Drew McWeeny, il quale aveva dichiarato che gli episodi di Voir avrebbero riguardato “ciò che del cinema ci intriga o, viceversa, ci delude, o comunque che ha a che fare con il nostro legame con i film”. Questo, sempre secondo McWeeny, renderebbe Voir “diverso da qualunque show sul cinema che voi abbiate mai visto”. Ma è davvero così?
Di certo, la serie ce la mette tutta per farcelo credere, a partire dal termine impiegato per definire i singoli episodi, “visual essays”, un’espressione che evidentemente rimanda a quella, più nota e più frequentemente utilizzata, di “video essay”, videosaggi. Nato nell’ambito delle pratiche artistiche e sperimentali, il termine video essay è associato oggi, soprattutto, a quelle produzioni video diffuse in rete che rimontano e riassemblano le immagini cinematografiche per finalità critiche e di analisi. La brevità degli episodi e il coinvolgimento di alcune personalità legate all’esplosione del fenomeno del videosaggio in rete, come Zhou e Ramos, sembrerebbero confermare che Voir ambisce a essere una versione commerciale e di alto profilo di queste pratiche. Il tentativo di nobilitazione parrebbe avvalorato, come ha ironizzato qualcuno, dalla sostituzione di “video” con il più pretenzioso “visual”. Mentre il termine “essay” potrebbe corrispondere a una precisa scelta di campo: non solo un’allusione al saggio come forma “mutevole e inafferrabile”, per dirla con Alfonso Berardinelli, ma soprattutto alla tradizione del film saggio, con il suo andamento meditativo e le sue aperture alla riflessione soggettiva.
Il progetto che Netflix ha messo in piedi con Voir segna il passaggio da produzioni a bassissimo o a zero budget, realizzate per lo più da una sola persona o da gruppi di lavoro ridotti all’osso, a un apparato produttivo di tipo industriale.
Potrebbe, dicevamo. In realtà i titoli di testa racchiudono già una contraddizione quando, poco prima della tagline “A collection of visual essays… for the love of cinema” appare un’altra indicazione: Voir è una serie documentaria di Netflix. Quella del documentario è già un’etichetta meno spiazzante, più generica, riconoscibile, familiare di visual essay. Questa dicotomia è sintomatica, se vogliamo, di un’altra tensione, più profonda: quella tra la libertà espressiva di una pratica ibrida, il video essay, che in rete ha trovato, soprattutto in una prima fase della sua storia, l’habitat ideale per sperimentare con la forma e liberarsi delle rigidità e gli automatismi di certi ambiti settoriali (la critica, l’accademia), e il suo addomesticamento entro forme di produzione più “istituzionali”. Se distribuzioni home video come Criterion e piattaforme Svod come MUBI hanno investito molto presto nella realizzazione di video essay per valorizzare il proprio catalogo, il progetto che Netflix ha messo in piedi con Voir segna definitivamente il passaggio da produzioni a bassissimo o a zero budget, realizzate per lo più da una sola persona o da gruppi di lavoro ridotti all’osso, a un apparato produttivo di tipo industriale.
Il risultato di questo dispiegamento di risorse, tuttavia, appare piuttosto deludente. È come se la tensione appena descritta, invece di risolversi o di generare una dialettica produttiva, si fosse tradotta nella mancanza di un’idea chiara, di una visione d’insieme. Nel complesso, gli episodi appaiono troppo eterogenei, quasi sgangherati, tenuti assieme soltanto da una serie di scelte stilistiche poco convincenti – l’immagine-cliché del critico da solo nella sala buia, il ricorso al reenactment – anch’esse utilizzate, però, in maniera discontinua. Questa eterogeneità trova solo parzialmente giustificazione nel fatto che la scrittura degli episodi è affidata, come si è detto, a persone diverse – Sasha Stone di Awards Daily, Tony Zhou, Taylor Ramos, Drew McWeeny di Ain’t it Cool, Walter Chaw di Film Freak Central –, ciascuna delle quali dovrebbe mettere in campo la propria esperienza soggettiva, in quel costante gioco di equilibrio fra la singolarità della propria relazione con il cinema e la possibilità di renderla condivisibile che contraddistingue l’esercizio critico.
Gli interrogativi che vengono sollevati nella serie, tanto sul cinema che sull’esperienza spettatoriale, oscillano fra superficialità, banalità, vaghezza.
Summer of the Shark, di Sasha Stone, racconta, quasi esclusivamente attraverso una ricostruzione finzionale, l’estate del 1975, in cui uscì nei cinema Lo squalo, e la critica, adolescente, scopre la passione per il cinema. The Ethics of Revenge, di Tony Zhou, e But I Don’t Like Him, di McWeeny, tentano entrambi di porre domande scomode sulla nostra fascinazione nei confronti della violenza e della vendetta perpetrata sullo schermo, o sulle ragioni per cui riusciamo a empatizzare con personaggi negativi, sgradevoli. Mentre Zhou preferisce strategie di costruzione del discorso basate sul montaggio serrato di clip cinematografiche e interviste a esperti, McWeeny è fra coloro che vengono ripresi dentro un cinema completamente vuoto, l’Orpheum Theater a Los Angeles, e i suoi interventi con lo sguardo rivolto alla macchina da presa puntellano costantemente l’episodio. La coppia Ramos-Zhou firma i due episodi successivi: nel primo, The Duality of Appeal, dedicato all’animazione e alle tecniche impiegate per disegnare la figura umana in modo armonico, sono soprattutto le talking heads di esperti animatori a portare avanti il discorso, mentre Film vs Television affronta l’annosa questione delle differenze e delle sovrapposizioni fra i due media combinando sequenze di montaggio di frammenti da film e serie televisive e parti recitate. In Profane and Profound, infine, Chaw, a partire dalla propria esperienza di asioamericano, interroga il modo in cui un prodotto di genere come 48 ore mette a tema la questione del razzismo sistemico.
Sia per accuratezza dell’analisi che per la capacità di intrecciare biografia personale e contesto sociale e politico l’episodio di Chaw appare il più riuscito. Gli interrogativi che vengono sollevati nella serie, tanto sul cinema che sull’esperienza spettatoriale, oscillano fra superficialità, banalità, vaghezza. La premessa del più informativo degli episodi, quello sull’animazione, è la generica nozione di “appeal”, tradotto in italiano con “attrattiva”: un concetto che non viene interrogato – come fa, per esempio, Jordan Schonig nel bellissimo Contingent Motion – ma assunto in maniera aproblematica come indicatore di alcune qualità del disegno animato. In Summer of the Shark Stone spreca un’ottima occasione per mettere in evidenza come l’esperienza dello spettatore cinematografico sia gendered, non neutra ma profondamente determinata dalla nostra identità di genere (esistono, oltretutto, diverse letture femministe de Lo squalo); altrettanto esile è l’analisi delle differenze fra narrazione cinematografica e seriale di Film vs Television, che ignora del tutto, per dire, il meccanismo della serializzazione applicato all’industria cinematografica. Lo scrive con chiarezza Adrian Martin, che ha demolito con feroce puntualità la serie: “Nessuna nozione di teoria del film pare abbia mai sfiorato le persone coinvolte nella realizzazione della serie. […] nessuna riflessione teorica su desiderio e ideologia, genere e identità, forma e testualità. Se qualcuno di loro ha mai incontrato qualcuno di questi concetti negli anni del college, o li ha rimossi o ha rinunciato a farvi ricorso. Oppure, davvero, non vi è mai incappato”. Quello di Adrian Martin non è snobismo: cercare di rispondere a domande che si vorrebbero profonde senza introdurre alcuna riflessione teorica è come combattere con le armi spuntate. Tanto più che, come dimostrano proprio moltissimi canali YouTube di grande popolarità, si può fare divulgazione mantenendo un linguaggio chiaro e accessibile e senza per questo rinunciare alla teoria.
Ciò che Voir sembra del tutto ignorare, più in generale, è proprio la ricchezza di strumenti, di approcci, di sperimentazioni che la critica e l’analisi per immagini hanno sviluppato nel corso del tempo. Paradossalmente, la serie finisce proprio per trascurare l’immagine e le potenzialità del montaggio.
Tuttavia, ciò che Voir sembra del tutto ignorare, più in generale, è proprio la ricchezza di strumenti, di approcci, di sperimentazioni che la critica e l’analisi per immagini hanno sviluppato nel corso del tempo. Paradossalmente, la serie finisce proprio per trascurare l’immagine e le potenzialità del montaggio: a cosa serve provare a pensare il cinema attraverso le immagini se poi tutto ciò che ritroviamo, in un prodotto che vorrebbe dirsi innovativo, sono le immancabili foto di scena, gli intervistati filmati in salotto, rapide sequenze di montaggio di film che rendono impossibile apprezzare anche solo la composizione delle inquadrature, e scene di finzione fin troppo didascaliche? Pur nella loro natura didattico-divulgativa, i lavori di Mark Cousins hanno guizzi di montaggio decisamente più sorprendenti, e almeno concedono il giusto respiro alle clip dei film che analizzano; Room 237, di Rodney Ascher, aveva dato corpo a una serie di letture “aberranti” di Shining mimandone l’ossessività attraverso un montaggio che altrettanto compulsivamente torna sulle immagini del film, le rallenta, ne isola dei dettagli, le ripete. Ma gli esempi virtuosi potrebbero essere numerosi, anche senza guardare a produzioni nate in contesti professionali come quelle di Cousins e Ascher. Molti video essay online curano in maniera meticolosa il montaggio e ricercano soluzioni visive sempre nuove – si pensi agli inconfondibili inserti grafici di kogonada, al desktop documentary di Kevin B. Lee e Chloé Galibert-Laîné, al modo in cui visualizza lo spazio Davide Rapp, agli esperimenti in split screen di Catherine Grant, all’equilibrio perfettamente calibrato fra voce e immagine nei lavori di Cristina Álvarez López e Adrian Martin.
Anche l’attenzione alla dimensione soggettiva ed esperienziale della prassi critica è uno degli elementi che contraddistinguono il video essay – non a caso, il diffondersi di queste pratiche in ambito accademico ha dato nuovo vigore sia agli approcci fenomenologici sia a quelli di matrice psicanalitica. Video come Explosive Paradox, di Kevin Lee (il più votato fra i migliori video essay del 2020 nel sondaggio annuale di Sight and Sound), o My Mulholland, di Jessica McGoff, riescono dove Voir fallisce: dare corpo a un’esperienza singolare e allo stesso tempo sollecitare delle riflessioni di carattere più generale sui film che affrontano, sulle modalità di fruizione dello spettacolo cinematografico, sul cinema come dispositivo anche ideologico, rendendo il personale, a tutti gli effetti, politico.
Ciò che Voir mette purtroppo in evidenza è la crescente difficoltà nel discernere fra buone pratiche critiche e pigri esercizi di lettura che applicano un filtro cosmetico alla povertà di idee.
“L’amatore – scriveva Maya Deren in Amateur Versus Professional – deve approfittare di quel grande vantaggio che i professionisti gli invidiano, e cioè la libertà, sia fisica che artistica”. In questo caso, però, in gioco non c’è solo l’annosa questione della libertà che le pratiche dal basso, pur con tutti i loro limiti, possono permettersi rispetto alla rigida gabbia dorata delle produzioni professionali. Ciò che Voir mette purtroppo in evidenza è la crescente difficoltà nel discernere fra buone pratiche critiche e pigri esercizi di lettura che applicano un filtro cosmetico alla povertà di idee, il non saper più riconoscere quali approcci e quali riflessioni oggi siano veramente nuovi per rimanere legati, piuttosto, a una relazione con il cinema che, quando non sembra alimentata da una curiosità superficiale da trivia di Imdb, prende una piega nostalgico-cimiteriale. Il critico-spettatore solo in sala che Voir mette in scena sembra allora non un privilegiato, ma una triste profezia del futuro se si continuerà a scambiare per freschezza ciò che è già superato, a pensare i film con categorie obsolete, a girare a vuoto invece di indicare nuovi percorsi di lettura del cinema, dei media, delle immagini, per formare nuove generazioni di spettatori. E invece, di fronte alla complessità degli ecosistemi mediali, alla dissoluzione dei luoghi istituzionali della critica e all’atomizzazione del sapere, anche i blasonati produttori di Voir hanno perso la bussola.