Animale, macchina, uomo
Torna Il corpo virtuale di Antonio Caronia, a più di vent’anni dalla sua prima edizione.
Torna Il corpo virtuale di Antonio Caronia, a più di vent’anni dalla sua prima edizione.
N el XVII e XVIII secolo tra i filosofi si fa strada una convinzione, che è la conseguenza radicale delle teorie eliocentriche di Copernico, Keplero e Galileo, e poi delle nuove leggi unificate di natura scoperte da Newton: quella dell’unitarietà della natura, della sua descrivibilità con un unico linguaggio, quello della nuova scienza. È una concezione altrettanto metafisica di quelle dualistiche, aristoteliche e platoniche, a cui essa pretendeva di sostituirsi, ma ha un merito: dà un senso alle nuove attività dell’uomo in quei secoli, allo straordinario accumularsi di conoscenze sul mondo e di nuove tecniche di manipolazione della materia, di creazione di nuove forme di energia, al nuovo potere di trasformazione che l’uomo sta scoprendo in se stesso. La natura non fa salti, è un continuum in cui ogni fenomeno è legato all’altro, e proprio per questo l’uomo può descriverne il funzionamento in termini unitari.
Non c’è nulla di più attraente di questa contemplazione, che ha per oggetto la scala impercettibilmente graduata, nella quale si vede la Natura passare esattamente per tutti i suoi gradini senza saltarne mai alcuno in tutte le sue diverse produzioni. Che magnifico quadro ci offre lo spettacolo dell’universo! Tutto vi è perfettamente variato, non c’è alcun salto: se si passa dal bianco al nero, ciò avviene attraverso un’infinità di sfumature o gradi, che rendono tale passaggio infinitamente piacevole (de La Mettrie, 85-86).
Ecco una prima conseguenza di questo modo di pensare: l’uomo è simile all’animale, solo una graduazione quantitativa separa queste due figure del creato, anzi “è più grande la differenza che passa tra un uomo e l’altro di quella che separa gli animali dall’uomo” (Montaigne, in Mazlish, 19). Da questo punto di vista si può addirittura sostenere (e Montaigne l’aveva fatto) l’inferiorità dell’uomo rispetto all’animale, testimoniata proprio da quello che l’uomo moderno più stima in se stesso, le sue facoltà razionali. Non sono queste ultime, alla fin fine, che hanno determinato la sua caduta, la cacciata dal paradiso terrestre? Dietro a questo modo di vedere le cose sta la convinzione che nell’animale la natura si manifesti in maniera più genuina che non nell’uomo: l’obbedienza dell’animale alle leggi di natura è più profonda, meno inquinata dalla cultura e dal pensiero. Ognuno nel proprio campo, gli animali raggiungono un’eccellenza di risultati che all’uomo è negata: il volo dell’uccello, la velocità del ghepardo, la potenza dell’elefante, il nuoto della balena. Descartes, che del nuovo paradigma meccanicista è uno degli iniziatori (non, però, l’esponente più radicale), riconosce le affinità fra l’uomo e l’animale, ma tenta di rovesciare le conclusioni di Montaigne. L’animale, non c’è dubbio, è più perfetto dell’uomo quanto a industriosità, ad abilità, a qualità innate: ma proprio per questo gli è inferiore. L’uomo possiede la ragione. Ciò che l’animale raggiunge automaticamente, per la sua adesione cieca al progetto della natura, l’uomo lo può attingere grazie al suo libero arbitrio, guidato appunto dalla ragione. Il modello di perfezione dell’animale, secondo Descartes, è quello di una macchina. Per Descartes in effetti i corpi non sono che macchine, ed egli riconosce volentieri tutte le affinità tra uomo e animale sul piano (per usare la terminologia aristotelica) delle due anime di livello inferiore, la vegetativa e la sensitiva. Ma l’analogia deve fermarsi a un certo punto: l’uomo, e solo l’uomo, possiede l’anima razionale, l’uomo, e solo l’uomo, pensa. Quello che è interessante notare, per noi adesso, è l’identificazione introdotta da Descartes fra animale e macchina (e fra corpo umano e macchina: l’uomo, se non fosse per la ragione, sarebbe sotto ogni altro rispetto niente più che un animale).
La natura fa sì che essi [gli animali] si comportino come si comportano in relazione alla disposizione dei loro organi; proprio come un orologio, con le sue ruote e le sue molle, è in grado di misurare il tempo molto più accuratamente di quanto noi umani, con tutta la nostra intelligenza, riusciremo mai a fare (Descartes, in Mazlish, 22).
I critici tradizionalisti di Descartes respingono questa analogia. All’osservazione che gli animali sono come orologi, Fontenelle replica ironicamente che un cagnolino-macchina e una cagnolina-macchina, messi insieme in opportune condizioni, produrranno un terzo cane-macchina, mentre due orologi, per quanto a lungo stiano vicini, mai produrranno un terzo orologio. Il sesso, lo vedremo, è uno dei temi ricorrenti nelle riflessioni e nelle produzioni fantastiche sull’uomo-macchina. Ma c’è anche chi ritiene debole l’argomentazione cartesiana sulla irriducibilità dell’uomo alla macchina da un altro punto di vista. Non è tanto la ragione il punto di discrimine, quanto la possibilità di cadere in errore. La macchina appare, dal Settecento in poi, come un’esecutrice infallibile di programmi predeterminati: non può sbagliare. L’uomo, al contrario, sbaglia in continuazione. È la prevedibilità del comportamento della macchina che segnala l’impossibilità di assimilarla all’uomo, dotato di libero arbitrio. Quando Edgar Allan Poe, nel 1836, smascherò il falso automa giocatore di scacchi di Von Kempelen, questo fu uno dei punti di forza della sua argomentazione: “L’Automa non vince invariabilmente la partita. Se la macchina fosse una pura macchina, ciò non accadrebbe: vincerebbe sempre” (Poe, Il giocatore, 50). Le tesi di Descartes sui rapporti fra uomini, animali e macchine, incontrarono però un altro tipo di critiche. I materialisti radicali del Settecento francese accettavano il suo punto di partenza, l’identità di animali e macchine, ma si sbarazzavano della soluzione di continuità da lui introdotta tra l’animale e l’uomo, cioè dell’anima, e trasformavano la differenza qualitativa tra “cosa estesa” e “cosa pensante”, tra materia e spirito, in una differenza soltanto quantitativa. Non più: “l’uomo non è né una macchina né un animale perché pensa”, ma: “l’uomo è un animale, o una macchina, che pensa”. Il pensiero cominciava ad apparire come una funzione della materia, un suo epifenomeno, per così dire, non come una sostanza diversa ad essa contrapposta.
La contrapposizione fra i sostenitori del pensiero come sostanza e del pensiero come funzione si ripresenta ancora oggi, nella forma aggiornata del problema mente-cervello.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. Le ricerche di psicologia cognitiva del Novecento hanno radicalmente corretto le ipotesi semplicistiche degli empiristi inglesi come Locke (vera fonte ispiratrice dei materialisti radicali francesi del Settecento), per cui i sensi erano l’unica fonte di conoscenza. Oggi sappiamo che l’opera bruta di registrazione dei dati ad opera degli organi sensoriali (nell’uomo come negli animali) è del tutto insufficiente a spiegare anche le attività cognitive di livello apparentemente più basso, i processi non coscienti come quelli della visione o dell’ascolto. Ma il problema non ha fatto che spostarsi di livello. La contrapposizione fra i sostenitori del pensiero come sostanza e del pensiero come funzione si ripresenta ancora oggi, nella forma aggiornata del problema mente-cervello: è giusto ridurre il pensiero a una funzione del cervello, o la mente è una “struttura” che va descritta e spiegata in termini autonomi, non riducibili alle componenti biologiche e all’attività elettrochimica dell’organo che comunque appare come la sede fisica di quell’attività? Il dibattito settecentesco sull’esistenza dell’anima, sul rapporto uomo-animale-macchina, sul materialismo, è ancora oggi attualissimo. Ed è proprio sul nuovo paradigma meccanicista del materialismo integrale di de La Mettrie, di D’Holbach, di Diderot, che si fonda la nuova fortuna (o la sventura) del corpo artificiale nella modernità.
Come hanno dimostrato Lewis Mumford e David Landes, è stato l’orologio, non la locomotiva o la macchina a vapore, la macchina chiave della modernità. È l’orologio il modello della perfezione meccanica di tutte le altre macchine industriali, oltre a essere lo strumento che consente l’operazione base, senza la quale l’organizzazione della vita moderna, a cominciare dalla fabbrica, non sarebbe neppure pensabile: la misurazione del tempo. Fin dall’inizio dell’età moderna, l’orologio connette così, più chiaramente di ogni altra macchina, la dimensione materiale e tecnica a quella immateriale e “organizzativa”, l’hardware al software. Non è quindi strano che, come già per Descartes (l’abbiamo visto poco sopra), anche per i teorici del materialismo integrale settecentesco l’orologio rappresenti l’analogia più adatta quando si parla di uomo-macchina.
Occorre altro per provare che l’uomo non è che un animale, ossia un insieme di molle che si caricano tutte le une con le altre senza che si possa dire da quale punto del cerchio umano la natura abbia cominciato? Se queste molle differiscono tra loro non è che per la sede o per il grado di forza, e mai per la loro natura: e di conseguenza l’anima non è che un principio di movimento, o una parte materiale sensibile del cervello che si può, senza tema di errore, considerare come una molla principale di tutta la macchina (…). L’oscillazione naturale, propria della nostra macchina, di cui è dotata ogni fibra e, per così dire, ogni elemento fibroso, simile a quella di un pendolo, può sempre avvenire. A mano a mano che si perde bisogna rinnovarla, quando langue bisogna darle forza, affievolirla invece quando è oppressa da un eccesso di forza e di vigore (…). Il corpo non è che un orologio, di cui il nuovo chilo è l’orologiaio (de La Mettrie, 58-59).
Ma se “il corpo non è che un orologio”, se “l’anima non è che un principio di movimento”, o peggio ancora “una molla principale di tutta la macchina”, nulla in linea di principio esclude che l’uomo possa essere replicato artificialmente. E in effetti la figura dell’uomo artificiale, dell’uomo ricostruito meccanicamente, serpeggia per tutto il Settecento, fa capolino qua e là, nell’immaginazione e nella realtà, nei laboratori degli artigiani francesi e svizzeri e nelle pagine degli scrittori e dei filosofi. Il primo a presentare una statua animata per spiegare il funzionamento del corpo fu Descartes, ma l’automa più famoso coinvolto in un esperimento mentale si trova nel Trattato delle sensazioni di Etienne de Condillac. Qui il filosofo ed economista francese, per illustrare la teoria che ogni conoscenza nasce dai sensi e che non c’è alcun bisogno di ipotizzare delle idee innate (come aveva fatto Descartes), immagina una statua di marmo senza intelletto, ma organizzata come un uomo. E argomenta che, dotandola degli stessi sensi dell’uomo, uno dopo l’altro, noi vedremmo nascere in lei poco a poco le stesse conoscenze sensoriali che abbiamo noi, dapprima più semplici, poi più complesse, fino alle idee astratte.
Utensile e macchina sono solo manifestazioni diverse, a un diverso grado, dell’atteggiamento ‘tecnico’ verso il mondo che è tipico della nostra specie.
La statua di Condillac ha colpito forse più i narratori che i filosofi. Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, nel loro Manuale di zoologia fantastica, affascinati dal sensismo integrale del francese, ma senza crederci più di tanto, ne danno una versione poetica (“Un odore di gelsomino è il principio della biografia della statua; per un momento non ci sarà che questo odore nell’universo…”, 21). Più polemico lo scrittore americano di origine irlandese Raphael Aloysius Lafferty, una curiosa figura di narratore fantastico nutrito di umori cattolici tradizionalisti (un po’ come C.S. Lewis). La statua di Condillac serve infatti a Lafferty per mettere in ridicolo la pretesa illuminista (più precisamente la sua visione dell’illuminismo) di ridurre tutto alla ragione. La statua di marmo, infatti, educata alle teorie e alle pratiche sensiste, crede cionondimeno nelle idee innate del bene e del male, del bello e del brutto, e viene perciò redarguita da Condillac. Ma prevede meglio di lui le conseguenze di quelle teorie. “Il mondo futuro sarà il mondo della ragione totale”, dice il filosofo. “No, sarà la rivoluzione”, ribatte la statua. “Un mondo condannato alle razioni ridotte della ragione chiederà il sangue a gran voce” (“La statua di Condillac”, 34). In fondo, a modo suo, anche la statua di Condillac/Lafferty si ribella al suo creatore, adottando le tesi storiografiche più reazionarie sulla rivoluzione francese. Ciò non le impedisce di diventare un capo rivoluzionario, ma sempre con una riserva mentale: vorrebbe infatti frenare gli eccessi dei sanculotti contro la proprietà, perché si sente ricca, avendo un ladro in fuga depositato nella sua testa una borsa d’oro (e qui sono le teorie utilitariste di Bentham a essere messe in ridicolo). E finisce scollegata, cioè a tutti gli effetti morta.
Anche questo è un aspetto interessante della questione: uomo e macchina, vita e morte. Da un certo punto di vista, nell’evoluzione della specie umana, c’è una continuità tra l’utensile, protesi immediata e controllabile della mano, e la macchina, dispositivo creato dall’uomo e avviato da lui, ma capace poi di funzionare “autonomamente”: utensile e macchina sono solo manifestazioni diverse, a un diverso grado, dell’atteggiamento “tecnico” verso il mondo che è tipico della nostra specie (e forse è questa la tipicità più radicale dell’uomo, il vero fondamento, che ci piaccia o no, della nostra “umanità”). Ma per altri versi la macchina suscita fantasie che l’utensile non potrebbe mai provocare, e che vengono meglio in luce quando appunto la macchina si congiunge con la statua, cioè con la replica materiale di un corpo umano. La statua, non c’è dubbio, come tutte le immagini, ha la funzione di esorcizzare e vincere la morte, di tramandare le fattezze e quindi il ricordo dell’uomo. La statua è immortale, o almeno così pensano i suoi creatori. Naturalmente è materiale, perciò anch’essa destinata a deteriorarsi e a lungo andare a svanire, anche se i tempi del suo disfacimento sono così lunghi, e i processi così diversi, rispetto a quelli cui è soggetto il corpo umano, da funzionare bene come illusione. E poi è un’immortalità immobile, che per animarsi ha appunto bisogno del ricordo o dell’immaginazione di chi la guarda. Insomma, è un simulacro di immortalità accettabile per molti versi, ma non del tutto soddisfacente. Anche la macchina è immortale (o lo sembra, rispetto all’uomo), ed è dotata di movimento: un movimento che non dipende direttamente dal corpo dell’uomo, come avviene nell’utensile, ma che è insito nel suo funzionamento. Immesso nella macchina dall’uomo, in essa il movimento si autonomizza, può apparire come una qualità interna e intrinseca alla macchina: una volta fornita l’energia necessaria, esso continuerà indefinitamente (e la perseveranza con la quale dall’inizio dell’era moderna pseudoinventori di tutti i tipi, contro ogni evidenza scientifica, continuano a inseguire la chimera del moto perpetuo, la dice lunga sulle motivazioni più profonde dell’attaccamento alla macchina).
La macchina suscita fantasie che l’utensile non potrebbe mai provocare, e che vengono meglio in luce quando appunto la macchina si congiunge con la statua, cioè con la replica materiale di un corpo umano.
Certo, il movimento non è la vita, ma è una sua simulazione, per quanto rozza o intermedia. Non ci vuole di più per capire allora il fascino che esercita il simulacro animato dell’uomo o del mondo, e insieme la delusione, che facilmente si trasforma in terrore, quando sotto l’apparenza della vita scopriamo il marchio dell’artificialità: la molla, il metallo, oggi anche il circuito (per quanto, come vedremo, qui non solo l’illusione può essere più forte, ma forse può essere qualcosa di più di un’illusione). La situazione è stata rappresentata con straordinaria efficacia da Federico Fellini in una scena del suo Casanova, quella in cui un impassibile Donald Sutherland balla con una dama meccanica, e insieme volteggiano, volteggiano, fino a che con un rumore secco una gamba dell’automa va fuori posizione, e Casanova continua a ballare mentre la sua compagna, sotto la crinolina, esibisce grottescamente un’inquietante gamba tesa in orizzontale. Una scena che diventa idealmente, pochi anni dopo, quella del primo Terminator di James Cameron, in cui un cupo e fisso Arnold Schwarzenegger (geniale utilizzo dei limiti espressivi di un attore) si seziona il braccio con una lama per rivelare non carne e sangue, ma leve e ingranaggi. Ma qui la meccanica ha già cambiato status, non è più la regina della tecnica, è diventata ancella dell’elettronica. E infatti il Terminator, per quanto a tutti gli effetti sia soltanto un perfezionatissimo androide, viene chiamato “cyborg”, con una forzatura terminologica che però non è del tutto ingiustificata.
Estratto da Il corpo virtuale di Antonio Caronia (Krisis Publishing, 2022)