T ornato al centro dell’interesse mediatico per via dei discutibili lanci in orbita di Bezos e Musk, lo spazio non ha mai smesso di esercitare il proprio fascino agli occhi di chi per mestiere viaggia con la mente: gli scrittori. In un botta e risposta con Anna Maria Ortese datato 1967, Italo Calvino era stato tra i primi a mettere in luce le conseguenze positive delle missioni; alla scrittrice, che comprensibilmente si diceva preoccupata della perdita di immaginazione procurata dall’ossessione mediatica per l’allunaggio, Calvino (da poco uscito dal lavoro sulle Cosmicomiche) rispondeva che la scoperta avrebbe riguardato
non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva. Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna.
Di lì in avanti tra i maggiori autori italiani — da Moravia a Zanzotto, Ortese, Levi, Manganelli, Maraini e molti altri, come hanno raccontato Andrea Cortellessa e Alessandra Grandelis — si sarebbe aperto un dibattito centrato su due interrogativi: l’esplorazione scientifica avrebbe costituito una minaccia alla “poesia della luna”, oppure le nuove tecnologie avrebbero fornito ulteriori spunti per la sua rappresentazione fantastica? E cosa svelavano i lanci su coloro che, occhi al cielo, ne seguivano gli sviluppi? Tra le voci che tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta si sono susseguite nel raccontare attese, entusiasmi, perplessità e delusioni di fronte alle imprese spaziali tra le più interessanti e non ancora valorizzate è quella di Dino Buzzati, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni dalla morte.
Complice la doppia vocazione narrativa e giornalistica, Buzzati (autore di uno dei primi romanzi dedicati al tema dell’intelligenza artificiale, Il grande ritratto) è tra i più sensibili nel cogliere le contraddizioni dei viaggi nello spazio degli anni Sessanta e Settanta. Nelle sue pagine si intrecciano curiosità per le scoperte tecnologiche e ironia sulle magnifiche sorti e progressive, volontà di umanizzare i protagonisti delle imprese e al contempo fascinazione per l’occulto, il tutto affrontato alternando senza soluzione di continuità cronaca e racconto: osservare la luna ed esserne osservati è un modo inedito per interrogarsi sulla natura umana, mettendone in luce l’infelicità derivata dalla volontà di potenza, ma pure la tensione all’esplorazione dell’ignoto. Ho provato a estrarre delle possibili tracce da questo “lunario involontario”, costituito da circa trenta articoli conservati nell’Archivio storico del Corriere della Sera e del Corriere d’informazione finora mai raccolti in volume.
Uno dei primi casi in cui la luna irrompe nel tessuto narrativo è Commiato notturno, racconto breve utile per svelare come il satellite viene rappresentato precedentemente al 1969, quando Selene non è che un’immagine letteraria. In una Milano post-apocalittica assistiamo al monologo d’un ragazzo di buona famiglia per molti versi simile all’Orfi di Poema a fumetti, Girolamo Grinti. Poco prima di avviarsi inconsapevolmente alla morte, Girolamo “canta” i luoghi amati nell’infanzia:
“E pensare che — mormorò con malinconia sovrumana, non sua, non voluta, derivante dall’ora, forse — che in questo preciso momento, dalle mie parti, lontano lontano…”. “Cosa?” gli chiesero gli amici. “Sugli acquitrini — egli riprese — si distende la nebbia, nello spazio di pochi minuti si allarga e sale tra le piante che stanno ferme e nere. C’è la luna, e non per caso, signore e signori. La sua luce illumina debolmente anche i vapori fra gli alberi. E sembrano allora tanti fantasmi che adagio vanno lungo i laghi, contorcendosi un poco. Ma dove? dove?”.
Le inversioni, le ripetizioni, il lessico apertamente allusivo all’ipotesto — l’infinito leopardiano mimato nei principali nuclei, incluso il superamento d’una barriera spaziale attraverso l’immaginazione — non fanno che allontanare la narrazione dalla contemporaneità, facendo sì che l’evocazione d’un passato favoloso prenda corpo, incoraggiata dalla presenza lunare, osservatrice dei destini umani e chiave d’accesso a un mondo indefinito, da paesaggio gotico. Questa doppia valenza è tradotta nell’uso dell’“accumulazione evocativa” (così l’ha definita lo studioso Stefano Lazzarin), schema retorico volto a trasmettere un senso di vaghezza attraverso l’uso di elenchi, sostantivi astratti e inversioni aggettivali, offrendo la possibilità di rivisitare in chiave moderna la “poetica della lontananza” leopardiana. E a Leopardi lo scrittore guarda nel tratteggiare sia dialoghi dominati da una disincantata ironia sia pezzi di riflessione filosofica, due delle molte anime che animano le sue riflessioni lunari. Rosanna Maggiore ha a ragione parlato di un Buzzati “operettista” parallelo all’amante dei Canti, che adotta liberamente il modello del dialogo straniante per adattarlo alle esigenze della modernità; E dopo? (1959), gustoso dialogo ambientato ai tempi dell’invio dei primi satelliti russi, rivela la funzione-Leopardi in tutta la sua pervasività:
“Lo hai sentito il colpetto?“ – chiese la Terra alla Luna.“Quale colpetto?”
“Domenica sera, voglio dire sette giorni fa – parlo dei giorni miei si intende – non sei stata colpita da un proiettile?”
Il paradossale ping pong continua con le inesauste vanterie della Terra, che decanta le volontà espansionistiche dell’uomo per venir poi messa a tacere dall’umile satellite: “E dopo? Quand’anche l’universo intero sarà visitato mensilmente dai tuoi esattori delle tasse, ti sentirai forse più felice di me, che lascio consumarsi i millenni senza muovere un dito? La potenza, il dominio, la ricchezza, il sentirsi grandi e invincibili. Bella roba. Non ti sfiora mai il dubbio, o sapientissima Terra, che tutto ciò sia vanità delle vanità e un correr dietro il vento?”. La citazione finale, chiara allusione all’Ecclesiaste (“tutto è vanità, è un correre dietro al vento”, 2:14), pone la pietra tombale scambio di battute, rivelando la vacuità della volontà di potenza dei terrestri: esplorare lo spazio è dunque un modo di riflettere sui propri limiti.
Anni più tardi, con le prime orbitazioni russe e americane attorno alla Terra, lo schema del dialogo — o del racconto a più voci — verrà riutilizzato in chiave diversa, nell’intento di rendere più umani personaggi ormai mitici quali Valentina Tereškova e John Glenn. Buzzati vuole insomma sì far “dire di più alla luna”, ma intraprende una strada inversa rispetto a Calvino: se quest’ultimo si augurava che la letteratura potesse inglobare entro di sé l’esattezza, l’autore bellunese percorre la via opposta, una scienza raccontata in tono fantastico. Il tema era stato già affrontato in un articolo dal titolo Non esiste più l’incredibile. Abitudine al miracolo (1961); nel commentare i successi di Shepard e Gagarin, Buzzati arriva ad affermare che non c’era più separazione tra i due mondi, ma sempre facendo propria una chiave favolosa:
Fino a ieri, tecnica e scienza stavano da una parte, fantasia dall’altra. Erano due mondi separati, ciascuno dei quali aveva i suoi fedeli. Il poeta, l’artista, anche il filosofo pensava che in casa sua la gelida scienza non potesse mai mettere piede. […] Ma adesso la scienza stessa è diventata fantasia. La scienza stessa sta uguagliando, o forse superando, i più pazzeschi voli della mente.
Ma mentre l’affermazione calviniana si fa portatrice d’una fiducia nel contatto tra le possibilità aperte delle scienze nel vivificare l’immaginazione letteraria (pur non abbandonando i propri modelli letterari, da Verne a Leopardi), il Buzzati della fine degli anni Sessanta si mostra via via più scettico. A mettere in discussione il fascino stesso dell’oggetto-luna non è la pericolosità delle imprese, quanto l’assuefazione al bombardamento pubblicitario. Pur lontano da toni apocalittici che contraddistinguono le poetiche di altri autori, successivamente all’allunaggio lo scrittore non esita a mettere in scena la conflagrazione tra due modelli, quello della “luna poetica” e della “luna nuova”, tematizzata nel famoso Non deluderci, Luna (1969). L’articolo riporta un immaginario scambio di battute di due innamorati intenti ad assistere all’allunaggio uno guardando la televisione, l’altro osservando la luna dal balcone:
“Rimane ancora una speranza, un filo. Ah, se la Luna non ci deludesse. Tu dirai che è pura follia, alienazione mentale, dirai che è un pensiero delittuoso, nichilista, che è… Ma questi sono i momenti decisivi”.“Decisivi per chi? Per gli astronauti?”.
“No. L’ultima speranza, vuoi saperlo?, è che tra poco, questione di minuti, la Luna se ne vada. Che, avvicinandosi gli esploratori, i pionieri, gli ulissidi, gli eroi, improvvisamente tu, solinga, eterna peregrina, ti stacchi dall’orbita antichissima, tolga gli ormeggi e ti allontani, beata, via per gli spazi del cosmo. Vederti rimpicciolire a poco a poco, restringerti, giù per le profondità sconfinate, in silenzio, diventare una palla, una pallina, un lume, un lumicino, un punto di luce, e poi più niente”.
“Mi fai semplicemente ridere. E la Apolloundici? Che ne vorresti fare dei tre poveri astronauti?”.
In questo caso Buzzati esplora un topos, quello della luna fuggente (“diventare una palla, una pallina, un lume, un lumicino”), già presente nelle figurazioni degli anni Cinquanta. In quei casi il trasformarsi — sdoppiandosi, ingrandendosi a dismisura, o rimpicciolendosi fino a sparire — era un modo di ribellarsi alla tirannia dei moderni ulissidi: ma se in un primo momento la luna era diventata saggia commentatrice dei destini umani, o presenza minacciosa eco della paura atomica, successivamente sembra arrendersi ad essere ridotta a “mera idea poetica”), come avrebbe scritto Eugenio Montale in un articolo dal titolo Luna e Poesia. Nei suoi ultimi articoli l’autore di Poema a fumetti spesso riflette sulla luna “ammuffita”, ormai assurta a cliché che nessuno vuole più. L’avvicinamento ha reso tutto prosaico, come evidenziato da Soli soletti (1970), descrizione delle reazioni degli astati all’impresa dell’Apollo 13:
“La luna? la luna?” – L’industre era un po’ sopra pensiero. – No, no, caro Somazzi. Ho da rivedere tutta la situazione della Eximpa”.A donna Felicia La Piatta, l’amica Nietta Sorenkampf:
“Ma tu la vedrai, no, la luna stasera dopopranzo?”. “No, no – ha risposto Nietta – lo sai che alla domenica ci tengo al mio brigidino”.A Tullio Galimberti, montatore specializzato, la moglie: “Senti, gioia, vuoi che mettiamo su la luna oppure il film del secondo programma che ci ha la Raquel Vele?”.
“La luna? Cosa la luna?”.
“Be’, lo sai che stasera quelli là in America ripartono per la luna”.
“No, no, per carità. attacca la Raquel”.A lei ragazzina, lui ragazzetto, nell’angolo del bar periferico: “Tesoro, sono le nove e un quarto, vuoi che andiamo di là a vedere il lancio per la luna?”. “Uffa! Sempre con questa luna”.
Al registro colloquiale si aggiunge l’accumulazione caotica di dettagli irrelati, volta a mostrare la contiguità tra l’immaginario d’una luna butterata e lo sciatto disordine della quotidianità. Eppure, più che l’oggetto della ricerca, sembra Buzzati voglia dirci che è il nostro sguardo ad essere cambiato, avendo perso la capacità di stupirsi.