N el 2010 un noto editore d’arte contemporanea ha pubblicato un’antologia critica con l’unico scopo di distruggere Francesco Vezzoli. Vezzoli non aveva neanche quarant’anni, aveva esposto in musei di tutto il mondo, era con Cattelan la punta dell’arte italiana. Intitolato Contro Vezzoli e firmato da cinque critici molto noti, il volume lo definiva “un artista famoso solo per essersi trovato al posto giusto al momento giusto”. La sua opera, “ingannevole e scontata”, era accusata di essere “tanto vuota di contenuti da aver bisogno di essere puntellata dalla presenza di superstar”, e in quanto tale “del tutto incapace di parlare a un pubblico futuro”. “È complicato”, si legge in uno dei saggi, “accingersi a scrivere qualcosa su un artista per cui provo tanto disprezzo”.
Un tono così netto e violento ha qualcosa di rivoluzionario nel mondo generalmente ipocrita della critica d’arte. “Un coraggioso tentativo di rompere col sistema critico dominante”, dichiara la prefazione del curatore dell’antologia, Francesco Vezzoli.
Non era un buon periodo per la critica. (Escludo da questo ragionamento quella accademica, che per bizzosa scelta o incolpevole esilio esiste in un mondo separato da quello in cui vive la disciplina artistica a cui fa riferimento, e porta avanti un discorso che ne è in larga misura indipendente). Dieci anni di espansione digitale, impaninati fra due crisi finanziarie, avevano costretto la stampa culturale a una serie di tagli che pareva destinata a non finire mai; e come ha scritto Robert Storr – già direttore del MoMA e di una Biennale di Venezia – la critica, come ogni attività umana, tende a fare gli interessi di chi la paga. Quando la stampa (cioè il pubblico) non lo fa, chi scrive di letteratura o arte dipende dalle collaborazioni commissionate dall’industria di settore, gallerie o case editrici. In una posizione del genere non si è molto inclini a farsi nemici. Si è inclini alla celebrazione in pubblico e al pettegolezzo in privato.
Questo stato di cose è ciò che – nella più generosa delle letture che ammette – mirava a denunciare l’operazione di Vezzoli. Non valeva solo dell’arte: anche in letteratura il discorso critico era sempre più povero, ridotto a un coro monocorde di celebrazioni tutte simili: autrici e autori, incapaci di mantenersi coi soli romanzi, avevano bisogno di traduzioni o posizioni nell’industria culturale, nei festival, nelle case editrici: cioè, avevano bisogno di tanti amici. Chi non conosce i meccanismi interni del settore spesso imputa l’assenza di stroncature alle amicizie, al magna-magna. Questo è un misto di complottismo e ottimismo della volontà: la ragione, semmai, è che non si magna proprio.
È passato un decennio e per molti versi si magna sempre di meno. Molte testate letterarie storiche d’Italia hanno chiuso, mensili e settimanali vanno sparendo. Uno degli ultimi grandi critici militanti, Alfonso Berardinelli, ha smesso di leggere romanzi e ha lamentato in una recente intervista che la critica è “tramontata”. Un’indagine sui compensi dei giornali pubblicata negli ultimi giorni colloca il prezzo di un articolo per un quotidiano fra quattro biglietti del cinema e due del bus. I social media non hanno favorito neppure una fioritura del gossip, perché chi ha seguito sull’Instagram letterario spera in contratti o almeno in libri omaggio, e persino su Twitter, dove nessuno ci paga, si fa critica solo sussurrando, falsando le grafie (W00lf, J0yc3) per evitare che un autore permaloso e innamorato di sé lo scopra googlandosi e tiri su un casino.
Il pubblico della critica non sono i lettori in quanto acquirenti di libri, e neppure gli autori: sono entrambi, in quanto partecipi di una cultura letteraria.
Eppure siamo in un’epoca di stroncature bellissime. Nel discorso letterario anglofono, che essendo più ricco (di soldi) è anche più ricco (di voci autonome), si è fatta strada una generazione di critiche e critici che ha insufflato nuova vita al genere, firmando un proliferare di analisi letterarie lucide e rigorose ma animate dall’ironia giocosa e spietata del discorso online – qualcosa che anche solo un decennio prima sembrava in via d’estinzione. Parlo, ad esempio, di Andrea Long Chu (su su Maggie Nelson, su Hanya Yanagihara), di Christian Lorentzen (su Richard Powers, su Roth e il suo biografo, insieme), di Lauren Oyler (su Jia Tolentino, su Sally Rooney). La demolizione dei monumenti letterari è diventata tanto comune che gli stessi demolitori ci scherzano. “Mi hanno assoldata come assassina”, ha scritto Patricia Lockwood. “Nell’anno del Signore 2019, se inviti una donna di 37 anni a recensire Updike è perché auspichi uno spargimento di sangue”.
Nell’anno del Signore 2019, gli spargimenti di sangue sono d’un tratto diventati auspicabili: i saggi che ho portato ad esempio hanno conosciuto tutti una certa misura di viralità. Certo, questo dipende anche dal fatto che il sangue che spargono è blu; che si tratti di nobiltà di spada, cioè vendite, che di toga, cioè reputazione, Twitter è un ottimo posto per i regicidi.
Questa è la tesi di alcuni saggi apparsi di recente che vedono nella rinascita della stroncatura un tentativo cinico di raggranellare i like dei gufi e dei musoni, “attacchi personali agli autori”, calibrati al microgrammo perché “girino il più possibile fra i DM e si prestino ai thread su Twitter”. Se chi li scrive fosse in buona fede, e non animato dalla Schadenfreude o dal protagonismo, starebbe zitto: “La critica più efficace di un libro che si ritiene brutto è ignorarlo”. È un ragionamento addotto molto spesso a spiegare l’assenza di stroncature sulla stampa: i libri, come le automobili e i rasoi elettrici, sono tanti, e al pubblico smarrito è molto più utile sapere dove guardare che dove no.
Questa analogia è di una povertà intellettuale che rasenta la bancarotta, e riduce la critica letteraria a un sottoinsieme di consigli per gli acquisti. Nessuno può sostenere in buona fede che chi legge varie pagine di una stroncatura non abbia già un’idea forte sull’autore di cui tratta; più che fargliela cambiare, il pezzo ha ottime probabilità di ribadirne l’importanza, convincendolo a leggerlo anche solo per bastiancontrarietà. E cioè: il pubblico della critica non sono i lettori in quanto acquirenti di libri – e neppure gli autori in quanto produttori di opere migliorabili in base a chissà quale standard oggettivo: ma sono entrambi, in quanto partecipi di una cultura letteraria.
La critica esiste nelle conversazioni private di chi legge o scrive.
Scrive Walter Siti, in un intervento di gennaio ‘22 talmente lontano da tutto ciò di cui ho scritto qui che sembra uscito dagli anni di piombo: quel che manca è una comunità critica ancora in grado di formulare giudizi di valore. I giudizi di valore sono ovunque – espressi in stelline, in like, in superlativi virgolettati – e in qualche misura, oggi più che mai, sono soggettivi. Personalmente, invece, sento la mancanza di una critica che – come auspicato da Christian Lorentzen – miri a creare la cultura letteraria di cui si vuole essere parte. Questa cultura è intrinsecamente pluralista. Per questo ha senso stroncare solo chi ha conosciuto il successo – per spada o per toga: per cerare un contrappeso alle classifiche di vendita, al battage delle recensioni concordate, al diluvio degli stan sui social media che dicono, costantemente: non esiste nient’altro.
Ma esiste. Ho scritto che la critica esiste sotto forma di gossip e sussurri: potevo dire, semplicemente, che esiste nelle conversazioni private di chi legge o scrive – appunto, nella cultura letteraria viva – e leggendo nota il conservatorismo di tale autore, si irrita per il provincialismo di tale romanziera, ride per l’erudizione sterile di un terzo. Vedere che le proprie impressioni sono tanto lontane dal discorso letterario pubblico conduce, semplicemente, a perdere ogni fiducia in esso, generando complottismo (“è tutto un magna-magna!”) o più semplicemente disinteresse. Gli elogi di un discorso che non ammette altro che elogi sono privi di valore e di una classe di contrasto: la lunga critica al “culto di santa Joan Didion” uscita in questi giorni sul Times (o quella, storica, di Mary McCarthy) aiutano anche a mettere a fuoco le forze uniche di una grandissima scrittrice che, come tutti i suoi pari, aveva altrettante idiosincrasie, mancanze, cecità. Un panorama letterario che non ammette il minimo di pluralismo per cui un romanzo può essere per certi versi una grande opera e per altri conservatore, provinciale, o troppo erudito ha ridotto se stesso a categoria merceologica.
Per questo – come di Joan Didion e di John Updike – dovremmo poter leggere stroncature di Roberto Calasso, di Elena Ferrante, di Nicola Lagioia, di Antonio Scurati, di Chiara Valerio. Ma a guardarci intorno vediamo solo stelline: rispettivamente 4,11, 4,41, 4,23, 4,14, 4,33. Per Didion, invece, sono 4,19.