C he cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Potrei cominciare così, con una citazione laterale e incongrua di un altro scrittore – Busi, che Tondelli stimava – per raccontare la figura di un personaggio che, grazie al consueto mortifero anniversario, è tornata per qualche giorno al centro del discorso con un libro di chiacchierate per Bompiani (Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991, a cura di Fulvio Panzeri, pp. 427, € 14) e un documentario curato da Stefano Pistolini (Ciao libertini, Sky Arte). Ma forse sarà meglio tautologizzare, invertire: che cosa resta di tutta la gioventù che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Quando è nata? Che farne? La parabola umana e artistica di Pier Vittorio Tondelli, nella sua dirompenza e incompiutezza, ci interroga sul senso di una stagione e di una scrittura che hanno segnato le lettere, senza risparmiare sé stesse. Ne valeva la pena?
Comincio dai giovani perché lì finiamo sempre. Capita di sentire amici e amiche sostenere di avere amato Altri libertini visceralmente al tempo del liceo e di non riuscire più a riaprirlo per timore di restarne delusi. A leggere una di fila all’altra le chiacchierate che compongo la raccolta Bompiani e che seguono l’intera carriera di Pier Vittorio Tondelli dal primo libro fino alla morte, viene da sorridere con amarezza per la ricezione sulla stampa di quel meteorite nuovissimo e incandescente che è stato il suo esordio per Feltrinelli e in generale di questo scrittore giovane, giovinastro, giovanilista. E infatti gli domandano nel 1982: “La sua è stata definita, assieme a quella di Andrea De Carlo, ‘una penna giovanotta’”. Un articolo nel 1986 esordisce alla prima riga: “Professione: giovane scrittore”.
In un’intervista, Tondelli racconta ingenuamente: “Faccio ancora una vita da studentello anche se ho già fatto il militare”. Giovanotto, studentello: sempre storpiato e già imbarazzato, lì a giustificarsi così come noi ancora oggi un po’ ci vergogniamo di averlo amato tanto, come un peccato originale. Sarebbe rimasto giovane per sempre, perpetuato dalla dedica di Enrico Brizzi apposta a Jack Frusciante: “A Andrea P. e T., che hanno disegnato e scritto”. Cioè Pazienza e lui, morti cristallizzati. È possibile forse dire che i giovani li abbiano inventati e fossilizzati i suoi libertini, così come Salinger con Holden inventò la gioventù nel 1951? Eravamo così in ritardo? Quattro anni dopo Porci con le ali (che però era un libretto)? Di sicuro l’editoria (ri)scoprì un gergo, una posa, una figura sociale e anche commerciale. In un dibattito organizzato dall’“Espresso” nel gennaio del 1986 con un gruppo di nuovi scrittori (Del Giudice, Tabucchi, Pazzi e appunto Tondelli) messi a confronto con i marpioni cattivoni del Gruppo 63, Sanguineti sente subito puzza di fascismo&capitalismo, chiosando:
Manganelli, invece, non è mai stato giovane. Nel momento in cui esordiva, la gioventù non era considerata un valore. E meno male: non esiste parola più brutta di gioventù. Slitta facilmente in giovinezza… è proprio lì sull’orlo…
Lì sull’orlo di cosa. Giovinezza, primavera, bellezza. “Nella vita e nell’asprezza / il tuo canto squilla e va”: a rileggere il testo mussoliniano di Beniamino Gigli viene quasi da meravigliarsi che in Altri libertini non vi sia un campionamento/presa per il culo, remixato da qualche creativo in acido e volto a liberare quelle parole, tanto la centrifuga linguistica di quel libro operava sul passato e si proiettava verso il futuro. Ancora oggi è difficile aprirlo e non percepire l’urto, l’urlo, di feroce libertà espressiva che arrivò ad esempio a Giovanni Lindo Ferretti. C’era un libraio a Reggio Emilia, racconta l’ex cantante dei CCCP nel documentario di Pistolini, che appiccicava sulla porta le novità ineludibili, le attaccava proprio con il nastro adesivo, e tu dovevi leggerle. Ferretti comprò il libretto, si accomodò su una panchina e lo lesse tutto (come feci io, tale e quale, più o meno dieci anni dopo). Per lui fu trovare sé stesso, come dice in una frase che ha dentro tutto Tondelli: “Io e Zamboni ci mettevamo a Campogalliano per fare l’autostop e scendevamo a Berlino. Per andare a ballare”. Per me fu quello che raccontava Springsteen riguardo al momento in cui ascoltò per la prima volta Like a Rolling Stone, e cioè qualcuno che buttava giù una porta con un calcio. Molto diseducativo, va detto. Elettrizzante, nocivo.
In tanti laboratori di scrittura mi sono ritrovato a invitare a guardarsi dal tondellismo: aprire la pagina al parlato e non smettere più. La sbrodolata è dietro l’angolo. Il problema del giovane Tondelli è che sembra facile ma se il sound non è sopraffino – se non è sincero, direi – tutto diventa micidialmente barboso. Quel frullatore magico di linguaggi – fumetto, cinema, argot, neologismi, anglismi, aulicismi, coprolalia (in un’intervista definisce il suo linguaggio “sboccalato”, tanto che Altri libertini venne sequestrato per oscenità dal tribunale dell’Aquila, facendone la fortuna: “Il pubblico ministero infatti lesse una relazione in cui erano state catalogate puntigliosamente tutte le volte che nel testo comparivano ‘espressioni oscene’: per cui ora non ricordo bene avevamo trentadue ‘Cazzo’, ventisei ‘Figa’, dieci ‘Pompino’, e così di seguito”) – quel frullatore era da una parte un’eco consapevole del maccheronico gaddiano filtrato dalla musica dolce di Celati e da quella rabbiosa di Céline, e dall’altra una consapevole apertura più esistenziale che sociologica ai linguaggi giovanili, una musica che portò avanti nei primi due libri e che rimodulò nel terzo sinfonicamente e nel quarto in favore di una tonalità pacata e funebre: dall’hip hop al jazz all’ambient, per certi versi. I suoni, quindi, ma anche gli strumenti umani, il concerto: gli altri.
Quando inizia a scrivere una persona non ha scelta, solo dopo incomincia a vedere una serie di strade che si diramano: crescere, stravolgere, cambiare, contraddire, deludere, rilanciare. Tondelli aveva capito, sulla scorta di Kerouac e Céline, che l’orecchio giovinastro non si può portare avanti per tutta la vita: tra I sotterranei e Angeli della desolazione, tra il Viaggio e Rigodon, c’è lo stabilizzarsi di una maniera e l’arrivo di una stucchevolezza proprio lì dove invece tutto era fresco, di prima mano, in presa diretta. E così provò a maturare, lasciando forse con Weekend postmoderno l’altra grande opera, superiore senz’altro a Rimini e forse anche a Camere separate. Smettere di essere giovani per esserlo ancora in modo più maturo. Continuare a indagare quel tipo di mondo. Se nei romanzi ampliò il discorso, con opere più mutevoli, parallelamente partecipò alla rivista “Panta” e varò una serie di antologie sugli under 25 che videro esordire un mucchio di persone e il cui testimone venne portato avanti da Giulio Mozzi e Silvia Ballestra con “Coda” (e anche da Matteo B. Bianchi con “’tina”) e che arrivò fino alle ammucchiate buffe di RicercaRe, manifestazione che si teneva proprio a Reggio Emilia, a due passi dal Posto Ristoro che apriva Altri libertini, e dove gli esordienti leggevano qualcosa dal vivo per venire strapazzati dai critici (di nuovo Sanguineti!) in una specie di masochistico rito di passaggio (sbeffeggiato da Tiziano Scarpa che si presentò con un celebre grembiulino da scolaretto). Troppi libertini: bisognava che pagassero.
In Tondelli c’era qualcos’altro, non solo il giovanilismo. Forse un tentativo di abbraccio, di fuga da una solitudine dove poi tornava a rifugiarsi, in una omosessualità che senza una coppia vera e propria lui cercava di vivere come normalità.
Ma in tutto il lavoro di Tondelli c’era qualcos’altro, non solo il giovanilismo. Forse un tentativo di abbraccio, di fuga da una solitudine dove poi tornava a rifugiarsi, in una omosessualità che senza una coppia vera e propria lui cercava di vivere come normalità. Oggi farebbe impressione sentire dire: “Io penso che l’omosessualità non sia un problema se non per quelli che proprio vogliono che lo sia. Non se ne uscirà mai se si passa il tempo a spiegarla!”. Diventa forse il primo scrittore a parlarne in modo piano, pacificato, sentimentale, al di fuori dei tormenti sacrali dei Pasolini-Testori e delle gioie sfrontate degli Arbasino-Busi. Invece la cristologia finale di Tondelli, che pure in Ciao libertini viene spiegata con intelligenza da Mario Fortunato, risulta insopportabile, come insopportabile è l’intercalare compiaciuto e appropriativo di Antonio Spadaro quando lo giudica godereccio, sì, eppure “non c’è niente da fare, il suo sguardo era sempre un passo indietro” e cioè non ci stava bene nella propria sessualità: era distaccato. Già, che strano, in una società cattolica omofoba come è stata la nostra, alla lunga davanti alla morte a soli trentasei anni ha la meglio la preghiera invece che – per dire – le filastrocche di Alberto Arbasino. A me invece la storia sembra più simile ai versi di Sandro Penna: “È nel dolce scompiglio del tuo viso / l’amore della folla. Quanti amici / per un amico qui confuso e solo”.
La sua lezione più alta resta quella dell’apertura, perfino al mondo cattolico da cui veniva e dove andò a chiudere. Diceva il teologo Martin Buber: “L’Io si fa Io nel Tu”. Tondelli rivendica la curiosità verso il mondo – e la fauna dileggiata e semplificata dai media di volta in volta come rock, pop, punk, post, eccetera – che lo faceva sentire a casa, che lo confortava, che lo spostava verso le cose e le persone e i luoghi (in fondo si chiamava proprio movimento). Forse la cosa più bella del documentario di Pistolini è Luigi Ontani che lo definisce “una presenza turrita”. Per l’altezza, sì (giocava a basket), ma soprattutto per l’esserci, direi, quella che sempre Ontani definisce “sensibilità di attenzione”. I suoi libri ruotavano intorno a un “noi” ma non un “noi” combattivo, politicizzato, freddo come quello dei 63ini (occupare le cattedre, sabotare il romanzo, voltare le spalle al pubblico) (salvo poi ritrovarsi con il compagno di banco che scrive il più grande bestseller degli anni Ottanta, occupando il pensiero pubblico fino a far germinare apocrifi ignobili come Dan Brown), no, era un “noi” spaesato, ferito, illuso. Che cercava alleanze. D’altro canto, quando gli chiesero conto delle critiche rivolte a Pao Pao da parte degli antimilitaristi, lui le respinse:
Tra rifiutare il servizio militare e accettarlo io propongo una terza via: rimanere nelle istituzioni, ma mantenendo i propri spazi di libertà.
Che è il riassunto vero della sua storia con il mondo: essere liberi in quella gabbia che è la vita universitaria, militare, editoriale, sessuale, generale: essere giovani nella maturità. Anche nella sigla di Picchetto Armato Ordinario, il suo scardinamento riusciva a trovare un’eco esotica, un’immagine ecolalica di fuga e di apertura. “Pao pao” non è il verso di un giovanilista, ma di un bambino.
Dalla storia ampia e dolce e triste di Tondelli emerge non tanto il giovanilismo, quanto una forma d’amore, ingenua e generosa e verissima. Diverse volte nelle interviste Tondelli cita una frase tratta dalla Trilogia del rivedersi di Botho Strauss: “Noi, però, che scriviamo al riparo del nostro tenerci in disparte, noi dobbiamo lavorare duramente per la riconquista delle lacrime, delle risate dimenticate, dei groppi fusi di gioia e tristezza che conferiscono alla vita umana, e anche alla convivenza sociale, nuove forze, nuova ricchezza: l’eccitazione irrefrenabile, la profusione dei sentimenti, il conforto”. C’è tutto il rischio di quella stagione, la deriva emotiva, la possibilità d’essere equivocato e banalizzato. Identica a quella di uno dei suoi più grandi e meravigliosi pezzi di scrittura, “Autobahn”, che è sia un racconto emotivo che un corto sperimentale che un sogno che un delirante monologo che una canzonaccia rock, ma tiene quell’odore, quella visione, quell’allucinazione, quello slancio verso gli altri, pieno di strappi e ingolfamenti. In Tondelli c’è questa ambiguità, forse perfino dovuta alla morte. Era freschissimo e, pur essendo maturato, è rimasto là. Che male c’era? Nessuno. Anzi, era già bravissimo e certo non è responsabile dei giovanilismi successivi, ma era come se in nuce ci fosse quel rischio. Però, appunto, il rischio è innocente e sincero. Forse, per parafrasare una frase a Bruno Schulz, ci vuole coraggio per maturare verso la gioventù.