C irca cinquanta pensatori dai quattro angoli del globo chiamati a scrivere un breve testo in cui espongono punti di vista e proposte sulle lotte globali per l’emancipazione: è questa l’idea alla base di Manifesto: A Struggle of Universalities, volume curato da Nicol Barría-Asenjo e Slavoj Žižek che uscirà quest’anno. “Non abbiamo visioni particolari, spesso in conflitto, che dovrebbero coagularsi in una visione globale”, dichiara la presentazione: “Abbiamo un conflitto di visioni globali.”
Non è un caso che una dei due curatori del volume sia cilena. Collaboratrice dell’edizione cilena di Le Monde Diplomatique, studiosa di psicologia lacaniana e saggista, Barría-Asenjo è stata una figura importante del movimento di protesta che, nato da un aumento di trenta pesos del costo del biglietto della metropolitana, è culminato con l’elezione di un’assemblea che scriverà una nuova costituzione per rimpiazzare quella di Augusto Pinochet. Dal Cile vengono oggi le speranze di un modello diverso di convivenza per tutta l’America latina e, forse, per il mondo intero. Ecco perché Slavoj Žižek, l’altro curatore del libro, nonché uno dei più influenti intellettuali di sinistra contemporanei, ha dato pubblicamente il suo supporto all’attuale presidente eletto Gabriel Boric nelle ultime elezioni. Abbiamo deciso di fare una chiacchierata con entrambi a proposito del Cile, del Manifesto e del futuro della sinistra durante e dopo la pandemia.
Una cosa che ha colpito molti osservatori internazionali è che il Cile che è sceso in piazza non è forse il Paese più povero dell’America latina. La parola chiave a cui si sono richiamati i manifestanti dell’estallido cileno è stata “dignità”. L’uso di questa parola esprime un disagio più profondo del semplice malcontento economico. Di che tipo di disagio si tratta?
Per quanto riguarda invece il significante “dignità”, bisogna dire che si tratta di un concetto che sanno usare molto bene tanto la destra come la sinistra. “Vogliamo un Cile degno” è stato uno slogan fortunatissimo, usato in modo trasversale, dall’estrema destra alla sinistra: quindi ci troviamo di fronte ancora una volta a un antagonismo tra concetti. Tempo fa ho letto un’intervista a David Harvey in cui affermava chiaramente che i nostri tempi richiedono una riappropriazione dei concetti. Cosa significa? In parole povere, che se ci riconosciamo nella sinistra politica, nella sinistra intellettuale, nella sinistra militante o in un’altra delle tante ramificazioni e dei tanti modi di sentirsi o di essere di sinistra, condividiamo qualcosa: abbiamo perso molto terreno nelle lotte discorsive della nostra epoca.
Slavoj, citando uno sceneggiatore di Hollywood, ti piace ripetere che abbiamo bisogno di nuovi cliché. Scrivere una costituzione significa in questo senso inventarsi delle nuove convenzioni: un “ordine nuovo”, per riprendere Gramsci. Ci vogliono doti artistiche per far funzionare il lavoro dell’assemblea costituente in Cile? In generale, a quali difficoltà credi che andranno incontro?
Perciò, certo che avranno bisogno di molte capacità, ma non è impossibile che ci riescano. Sotto questo aspetto il mio modello è la Bolivia: penso a Morales, che è stato al potere dieci anni, e alla sua equipe, in particolare il ministro dell’Economia che ora è il nuovo presidente, Lucho Arce. Lì hanno fatto un ottimo lavoro, introducendo cambiamenti che non stravolgono gli standard della gente comune, socializzando qualcosa, ma senza rovinare l’economia.
Si tratta di rischi che non corre solo il Cile. Quello che dico ai miei amici laggiù è che è molto facile vivere questo momento di entusiasmo: è successo in Spagna, per esempio, o in Grecia, sempre allo stesso modo. Riesci a mobilitare centinaia di migliaia di persone, creando questa entusiastica unione di intenti. Chi non è d’accordo con significanti padrone come “dignità”, “libertà”, “giustizia” e così via? I problemi però emergono quando devi rispondere alle aspettative. E penso che sia questa la parte cruciale: non abbiamo bisogno un’altra volta di questa sinistra pseudo-radicale e sognatrice, sempre prodiga di grandi progetti. La sinistra oggi deve imparare a rispondere alle aspettative. Quando l’estasi è finita, quando la vita torna alla normalità, la gente comune dovrebbe sentire il cambiamento, notare nella vita di tutti i giorni che le cose stanno migliorando. Si tratta di un problema universale. Non che io sia pessimista: credo solo che coloro che sono al potere ora in Cile non dovrebbero innamorarsi di sé stessi, ripetersi “ora siamo noi il grande potere progressista”. Ricordiamocelo, il lavoro vero inizia ora.
Nicol, nel tuo libro intitolato Construcción de una nueva normalidad hai insistito sulla disuguaglianza nell’accesso alle informazioni durante il Covid. In questo senso si potrebbe dire che il trauma della pandemia risiede anche nell’essere tante pandemie: per alcuni il Grand Hotel Abisso da cui osservare lo spettacolo dell’apocalisse, per altri una drastica restrizione del proprio Umwelt. Come forse un film come Don’t Look Up sembra suggerire, l’umanità sta fronteggiando una scissione cognitiva?
Ciò che ho voluto fare nel libro è stato non soltanto mettere l’accento sulle barriere che esistono nell’accesso alle informazioni, ma anche insistere sul fatto che sono le esigenze economiche di pochi che mettono in moto il cambiamento, senza alcun riguardo per chi è lasciato in mezzo a una strada senza scelte né speranze. Nel mio Paese migliaia di persone di tutte le età vivono senza servizi di base, senza acqua, senza servizi igienici, senza alloggio, senza elettricità. Internet per molti semplicemente non è accessibile. Questo perché ci sono intere località rurali che a causa della sistematica inefficienza dei governi permangono in condizioni primitive e disumanizzate.
Quello che mi colpisce nella gestione della pandemia (e si vede bene nel film che tu citi) è che le società sembrano andare avanti senza prestare la minima attenzione alle conseguenze gravi degli eventi catastrofici sulla salute mentale delle persone. Sono una studiosa di psicologia e il mio interesse principale è nel campo delle malattie mentali. Ma tutta la nostra società è malata: è una società che soffre proprio perché non le è permesso di soffrire; tutto invita gli individui ad essere felici e a divertirsi.
L’invisibilizzazione a cui sono sottoposti gli attacchi di panico, i sentimenti di disperazione, la malinconia, l’angoscia, ecc. Ecco che cosa si vede nel film: una scienziata che urla, e che potrebbe facilmente essere catalogata come isterica. Ma la sua angoscia è assolutamente importantissima, così come sono importanti il dolore, la preoccupazione, lo stress e la stanchezza nella vita di tutti i giorni. Ciò che rimane di tutto questo invece è il meme: l’evento in sé non conta affatto, ciò che conta è l’assurdità di restare in competizione per i like, per vincere. La risata, la presa in giro, lo scherzo. Bisogna continuare a esibire un atteggiamento violento e trasgressivo, in barba a qualunque indizio di fragilità.
Nicol, nel libro dici anche che la pandemia, costringendoci a casa e allontanandoci gli uni dagli altri, ci incoraggia a diventare tutti un po’ filosofi. In questo senso siamo nella condizione del barone rampante di Italo Calvino, un intellettuale illuminista che non volle mai rinunciare a scendere dagli alberi: c’è un aspetto secessionista nell’esercizio della ragione, quello che Cesare Cases chiamò il “pathos della distanza”. Se e quando la pandemia finirà, dovremo sforzarci di mantenere aperto questo spazio?
A preoccuparmi di più, però, sono quelli che non hanno mai avuto nella possibilità dell’isolamento e della cura di sé un’opzione percorribile. Non mi riferisco solo agli operatori sanitari che, prendendosi cura dei contagiati da COVID-19, sono stati la prima linea della pandemia, ma anche ai lavoratori comuni, ai venditori ambulanti, alle persone semplici che vivono alla giornata e che quindi, no, non hanno potuto permettersi di riposare.
Slavoj, se ho capito bene, A Struggle of Universalities nasce come controcanto globale al tuo Manifesto europeo uscito su Le Monde nel maggio del 2021. Lungi dallo smentirti, forse il fatto che filosofi da tutto il mondo riflettano sul tema dell’universalismo dimostra che il pensiero postcoloniale, per essere veramente tale, non può non interrogarsi sulla parte più vitale dell’eredità europea. È così?
Molti piccoli dettagli come questo ci mostrano che l’Europa (anche se non deve essere elevata a idolo universale) con il suo universalismo, coi suoi diritti umani, col femminismo ecc. può comunque stimolare la nascita di processi in altri Paesi. Ciò non significa che questi ultimi debbano limitarsi a copiare l’Europa, tutt’altro! Il grande esempio per me è sempre la rivoluzione di Haiti. Quando i rivoluzionari neri di Haiti si sono impadroniti degli slogan della Rivoluzione francese – e ci sono riusciti: Haiti è diventata pochi anni dopo il 1800 una Repubblica nera indipendente – non si sono semplicemente appropriati delle nozioni universali europee, le hanno dislocate. Hanno dato una nuova tonalità, un nuovo colore all’universalità europea. Non dovremmo mai dimenticarci di questo: essere anti-eurocentrici oggi va di moda. Quasi tutti sono anti-eurocentrici: i cinesi, i russi… Anche Trump era fortemente anti-eurocentrico! Soprattutto oggi dovremmo stare attenti a salvaguardare il nucleo emancipatorio dell’eredità europea. Anzi, ora dirò una cosa che, mi rendo conto, potrà apparire molto problematica, ma ci tengo comunque a sottolinearla: chi vuole la tradizione indigena locale di solito non viene percepito come una minaccia. A volte viene semmai addirittura sostenuto, perché il potere coloniale o neocoloniale non vuole l’unificazione delle culture, ma mantenere le differenze culturali.
Ovviamente so benissimo, per esempio, che i diritti umani sono sempre stati sotto sotto intrisi di valori europei come l’individualismo ecc. Ma ricordo che, quando ero giovane, l’African National Congress di Mandela, in Sudafrica, era per l’universalità, i diritti umani e così via, mentre erano i gruppi subordinati all’apartheid a volere una politica identitaria per i neri: “no, non dobbiamo mescolarci con i bianchi, abbiamo bisogno della nostra propria tradizione…” ecc. La mia conclusione è che queste politiche dell’identità razziale, anche se suonano anticoloniali, si adattano perfettamente all’ordine globale. Penso che il grande compito di chi oggi è culturalmente, economicamente colonizzato sia di appropriarsi di questa tradizione emancipatrice europea, ma, allo stesso tempo, permettimi di usare questo termine, di dislocarla, di inserirla in un nuovo contesto. Purtroppo, quello europeo è l’unico linguaggio universale che abbiamo: più che disfarcene, bisogna semmai piegarlo a nuove sfumature. Questo è, ad esempio, ciò che sta accadendo negli Stati Uniti con Black Lives Matter. Sono loro la vera universalità: l’universalità delle libertà umane dovrebbe essere ridefinita, dovrebbe essere essa stessa decolonizzata. E non dimentichiamoci che, a ben guardare, la maggior parte dei critici dell’eurocentrismo parla comunque una lingua europea: la cosa bella dell’Europa è che è proprio la sua tradizione illuministica a fornirci il linguaggio adatto a criticarla.
Tanto le Identity Politics come le derive nazionalistiche sembrano avere come obiettivo comune la polemica con l’universalismo. Eppure, per quanto noi cerchiamo di fare a meno di esso, attraverso la pandemia la natura sembra averci dimostrato che l’universalismo non farà a meno di noi. Per quanto cinico possa apparire ammetterlo, esiste una maieutica del virus?
Nicol, nel 2022 uscirà anche un tuo libro intitolato Karl Marx y Antonio Gramsci en el siglo XXI, insieme a numerosi altri progetti, molti dei quali frutto del sodalizio con Slavoj. Quale ruolo può ancora esercitare il concetto di egemonia nella prassi politica del futuro che ci aspetta?
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, forse quelli che stanno soffrendo meno per la pandemia sono gli ipocondriaci. Per loro è cambiato poco o nulla: avevano il terrore di ammalarsi prima, hanno il terrore di ammalarsi adesso, con la differenza che sono più abituati degli altri e possono anche dire che loro avevano ragione e il mondo (o il Grande Altro) torto. Si potrebbe dire che il loro atteggiamento risponda a quello che Dupuy ha chiamato un “catastrofismo illuminato”. Tu, Slavoj, ti metti forse in una posizione analoga quando sostieni che la pandemia è una prova generale della fine del capitalismo. Dovremmo essere tutti un po’ più ipocondriaci?
A differenza dei no vax, non credo che il punto sia se e quanto l’establishment cerchi di usare la pandemia per rafforzare il controllo sociale. Certo, c’è anche questo aspetto, ma il grande insegnamento di questa situazione è che persino la scienza, che pure io rispetto molto, non ha le risposte definitive. Come ha detto Jürgen Habermas già un anno fa, e su questo sono d’accordo con lui, non stiamo solo imparando cose nuove sul virus, ma stiamo anche imparando quante cose ancora non sappiamo. Ora con Omicron siamo nell’incertezza più totale. Da un lato, i casi stanno esplodendo. D’altra parte, sembra che siano meno gravi. Quindi forse la COVID si sta trasformando lentamente in una malattia con la quale sarà possibile convivere? Per cui, ecco, sì, puoi anche chiamarla ipocondria, se vuoi, ma è questa la grande lezione di questi mesi: dovremo imparare a convivere con delle incertezze di base, perché questo è ciò che ci aspetta, non solo per via della pandemia in corso e di altre che potrebbero aspettarci, ma anche per il riscaldamento globale. Dovremo essere pronti a molte cose, come milioni e milioni di profughi, carestie e così via. E non lo dico per suscitare pessimismo, ma perché non possiamo semplicemente fidarci del futuro. Bisogna prepararsi a grandi cambiamenti. In questo senso, solo la sfiducia nel futuro, solo la consapevolezza che non abbiamo una mappa cognitiva chiara di quello che accadrà, potrà davvero esserci d’aiuto. Non per arrenderci e abdicare una volta per tutte all’azione, ma per metterci all’opera con la consapevolezza di tutti i possibili rischi, di tutte le incertezze a cui potremmo andare incontro.
Nicol, nel dibattito politico odierno si tende a bollare come “ideologica” qualunque posizione che non professi la cinica accettazione del galateo neoliberale. In uscita in Spagna, un altro dei tuoi lavori è un libro che intende inserirsi nel dibattito sul transumanesimo, mettendo al centro l’importanza del concetto di ideologia. Che cos’è per te l’ideologia?
Slavoj, dato che quanto più consumiamo le risorse del pianeta in cui viviamo, tanto più lo mettiamo in condizione di consumare le nostre possibilità di vita su di esso, ci troviamo nella posizione all’apparenza insostenibile di chi compie un lavoro ed è al contempo il prodotto finale, pronto al consumo, di quel medesimo lavoro. A pensarci, un percorso analogo è quello che ha compiuto Cristo dalla culla all’ostia consacrata. Per parafrasare le sue stesse parole, sappiamo quello che facciamo, eppure lo facciamo. C’è una vocazione suicida nel capitalismo?
E tuttavia, allo stesso tempo, sì, lasciato a sé stesso, questo meccanismo, come vediamo chiaramente con il riscaldamento globale e alcuni fenomeni sociali, ha effetti distruttivi. Oggi assistiamo al graduale smantellamento dei patti sociali di base. I Paesi si stanno trasformando in campi di battaglia fra identità quasi tribali. Perciò dovremmo smetterla di dire, come facevano i marxisti di una volta, che la storia si sta muovendo verso un progresso. No, lasciata a sé stessa, abbandonata al proprio meccanismo, la storia si avvia verso un suicidio collettivo dell’umanità. E non possiamo più dire che ci siano agenti rivoluzionari che rovesceranno questa situazione, anche se c’è chi li cerca disperatamente, come alcuni esponenti della sinistra radicale in Europa che pensano che i proletari immigrati nomadi saranno il nuovo soggetto rivoluzionario. No, siamo tutti presi nella stessa situazione disperata e non credo ci sia un agente privilegiato di emancipazione. Le cose sono molto più tragiche di così: dovremo agire, ma non c’è una tendenza storica oggettiva su cui poter fare affidamento. Siamo noi a dover decidere.
Ricordi il vecchio motto di Gandhi, “sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”? Sia detto per inciso, ho controllato: Gandhi non ha mai detto questa frase, ma va bene lo stesso, è un bel detto attribuito a lui… Ecco, penso che questo detto acquisisca oggi una rinnovata attualità. Se ognuno di noi vede la necessità di un cambiamento (e la vediamo eccome), allora dovremmo comportarci come se tutto dipendesse da noi. Non possiamo pensare che una qualche sconfitta sociale oggettiva porti al tracollo dell’attuale status quo, come facevano i vecchi stalinisti. Dobbiamo fare affidamento solo su noi stessi.
E tuttavia, ancora una volta, penso che ci sia speranza. Magari (ecco, ora dirò una cosa molto triste) è solo che non siamo ancora abbastanza scossi. L’anno scorso abbiamo avuto delle orribili catastrofi meteorologiche, come per esempio delle temperature straordinariamente alte nella zona settentrionale. Forse abbiamo bisogno di problemi ecologici persino più gravi perché finalmente ci rendiamo conto che non si tratta solo di disturbi momentanei, di pause dopo le quali faremo ritorno alla normalità. No, la nostra normalità, la normalità nel senso del modo di vivere a cui eravamo abituati fino a, diciamo, cinque anni fa, è una cosa che abbiamo perso per sempre. Quando lo accetteremo, entreremo in una situazione disperata, ma, allo stesso tempo, sai, con la disperazione arriva anche la libertà: la libertà di fare ciò che sappiamo che deve essere fatto, nella consapevolezza che non potremo fare affidamento sull’aiuto di nessuno.