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a lettera uccide è una raccolta di saggi pubblicati lungo un ventennio da Carlo Ginzburg, e di inediti, che prosegue un percorso scandito da altri suoi volumi come Miti, emblemi e spie, Occhiacci di legno, Il filo e le tracce, Rapporti di forza, Paura reverenza terrore: si tratta di saggi dedicati a temi, casi, personaggi storici, testimonianze e documenti solo apparentemente disparati, accomunati da un intreccio di rimandi e da una profonda continuità, costituita dall’intenzione di “far emergere la complessità che si nasconde nella dimensione letterale di un testo”. Questo obiettivo ha caratterizzato il lavoro di Ginzburg fin dai primi esperimenti di microstoria, come le indagini sui processi inquisitoriali che hanno portato a capolavori come I benandanti e Il formaggio e i vermi: la difficoltà, in quei casi, stava nel tentativo di interpretare voci di individui accusati di eresia e quindi condizionati dalla minaccia, come il mugnaio friulano Menocchio, che nei suoi interrogatori si giocò la libertà e la vita. Il gesto fondamentale della storiografia di Ginzburg è consistito allora nel tentare di ricostruire il pensiero che si esprimeva in quei verbali, ricollegandolo a tradizioni popolari e colte d’impensata ampiezza e profondità. Il lavoro filologico sulla lettera del testo e sui rapporti di forza tra classi e culture che l’attraversano è proseguito nelle raccolte di saggi brevi partendo da altri casi, con la consapevolezza che lo storico e l’antropologo occupano la posizione di interroganti che a suo tempo è stata degli inquisitori.
Se le domande sono sempre formulate con il linguaggio del presente, dunque con un anacronismo, le risposte devono essere ricostruite comprendendo il linguaggio del passato e degli altri.
L’indagine di Ginzburg comporta infatti sempre una messa in gioco dell’osservatore e del suo presente. Questo rapporto con l’attualità, che rivive quando si mette in dubbio la presunta evidenza di senso di testi e immagini, è richiamato dal termine “esperimento”, con cui Ginzburg caratterizza i suoi saggi. Al metodo implicato da questo termine sono dedicate diverse riflessioni che attraversano La lettera uccide: nell’esperimento si tratta sempre di mettere alla prova un’ipotesi, formulata dal ricercatore, e in questo senso può valere il motto di Croce secondo cui “ogni storia è storia contemporanea”; ma Ginzburg precisa subito (richiamandosi alla distinzione di Kenneth Pike tra emic e etic, cioè tra punto di vista degli attori sociali e punto di vista degli osservatori esterni) che, se le domande sono sempre formulate con il linguaggio del presente, dunque con un anacronismo, le risposte devono essere ricostruite comprendendo il linguaggio del passato e degli altri. Perciò bisogna concludere, piuttosto, che “ogni storia è storia comparata”, fondata cioè su un confronto di punti di vista e linguaggi appartenenti a contesti diversi.
Mancare questo punto comporta un rischio di sopraffazione da parte dello storico, analoga a quella sopra ricordata a proposito dei processi inquisitoriali, e un conseguente appiattimento del passato sul presente (come avviene, per esempio, nell’attualismo di Giovanni Gentile). A questo rischio Ginzburg contrappone l’esigenza di difendere la prospettiva storica con la sua ricerca di verità. In ciò sta un aspetto filosofico della storiografia di Ginzburg, che si riscontra nel confronto con figure come Agostino, Hobbes, Spinoza, Vico, Hegel, Freud, Benjamin, e che porta a una conclusione di grande importanza. Dal punto di vista di Ginzburg bisogna rifiutare due alternative: l’“empatia”, che pretende una completa trasparenza degli altri, e il “ventiloquismo”, che consiste nell’attribuire agli altri il nostro pensiero. Due “trappole” – oggi molto diffuse – che tendono a coincidere, poiché liquidando la complessità irriducibile dell’interpretazione in nome dell’empatia si rischia sempre di far parlare gli altri con la propria voce. Di fronte a questo rischio, non bisogna rinunciare alla possibilità di capire, o denunciare qualsiasi sapere come una forma di prevaricazione del Potere a spese di un ineffabile individuo (come Ginzburg rimproverava efficacemente a Michel Foucault nella prefazione a Il formaggio e i vermi); bisogna invece cercare di capire meglio ripartendo dai documenti: la lettera, appunto.
Bisogna concludere che ‘ogni storia è storia comparata’, fondata cioè su un confronto di punti di vista e linguaggi appartenenti a contesti diversi.
Ma il punto d’origine della questione, da cui proviene il titolo di questo volume, è l’esegesi biblica. Come ricorda lo stesso Ginzburg, un suo saggio precedente aveva portato all’ipotesi che la nostra idea di prospettiva storica su un testo, cioè di interpretazione della lettera del testo alla luce di un contesto passato, nascerebbe con Agostino e col problema cristiano di trovare un senso più profondo rispetto alla lettera del testo ebraico della Bibbia, di presentare quindi il cristianesimo come “vero Israele”. Il tema è ripreso qui a proposito del termine paolino “rivelazione”, “svelamento”: per Paolo si tratta appunto di sostenere che il cristianesimo permette di vedere un senso ancora inaccessibile agli Ebrei e quindi di superarne il punto di vista (come si esprimerà Hegel), secondo la massima per cui “la lettera uccide, lo Spirito dà vita”. Ma Ginzburg riparte da Lorenzo Valla, che dal metodo storico-filologico ricavava la falsificazione di un documento come la donazione di Costantino; e da Baruch Spinoza, che intende la rivelazione tramandata dai profeti come elemento di un testo che deve essere interpretato nella sua dimensione storico-linguistica. A partire da questi esempi, Ginzburg risale per una lunga tradizione di origine ebraica dedicata all’interpretazione del testo biblico secondo il principio dell’“accomodamento” a un contesto storico perduto, su cui già si era soffermato Amos Funkenstein in un libro fondamentale, Teologia e immaginazione scientifica. L’ipotesi di Ginzburg, al termine dei suoi percorsi nella storia dell’esegesi, è che la prospettiva storica sia “una versione secolarizzata dalla rivelazione”. In questa prospettiva la coscienza storica del presente si fa carico di una complessità e di una mai completa padronanza del senso, che l’escatologia cerca invece di superare una volta per tutte.
È un riconoscimento storiografico che vale anche in senso psicoanalitico, com’è chiarito esplicitamente nel saggio “Testimonianze involontarie”, poiché si tratta spesso di cogliere un senso che l’autore del testo non ha inteso trasmettere consapevolmente. L’indagine storica, inoltre, comporta un confronto consapevole con il ruolo del caso, tematizzato in “Conversazioni con Orion”: spesso la scoperta di testi ignoti e accostamenti apparentemente superficiali, che può avvenire con l’uso accorto di archivi e motori di ricerca, può fornire risposte (o domande) che il ricercatore non aveva previsto. Si tratta di affinamenti di metodo a cui Ginzburg si richiama, in rapide battute, in difesa di un modello di conoscenza fondato sulla ricerca indiziaria della prova e della verità condivisa, che da molti anni vede minacciato dal relativismo postmoderno e dall’annessa rivalutazione dell’“identità” come principio di validazione delle credenze: “una parola di moda, del tutto fuorviante”.
Ginzburg si richiama, in rapide battute, in difesa di un modello di conoscenza fondato sulla ricerca indiziaria della prova e della verità condivisa.
Rapporti di forza e complessità di senso si ritrovano negli studi di argomento coloniale, come il lungo saggio “La latitudine, gli schiavi, la Bibbia”. Analizzando gli opuscoli di Jean-Pierre Purry, un calvinista svizzero che all’inizio del Settecento lavorò per la Compagnia olandese delle Indie Orientali e fondò una colonia nella Carolina britannica, Ginzburg mostra come la sua giustificazione del colonialismo fosse il frutto di una lettura della Bibbia, verosimilmente sovrapposta a quella di Locke: ne ricavava argomenti sul diritto di proprietà acquistato con il lavoro della terra e non dal semplice fatto di aver abitato a lungo una regione. Da questo caso Ginzburg ricava una riconsiderazione della celebre tesi di Max Weber sulle origini religiose dell’etica protestante, che andrebbe però corretta tenendo conto dell’aspetto economico del processo coloniale individuato da Marx. Nelle parole di una figura individuale, insomma, si concentra e si svela una complessità che i modelli storiografici generali non catturano. La vicenda e le conclusioni di Ginzburg sono interessanti per comprendere il colonialismo del passato, ma implicano ancora una volta un orizzonte attuale, suggerendo considerazioni sul riproporsi del conflitto ideologico e materiale tra (ex-)colonizzatori e colonizzati, per esempio nel Brasile di oggi.
Il tema coloniale è associato a quello del metodo: come si vede nel saggio “Etnofilologia”, dedicato al lavoro sulla traduzione della lingua quechua di uno storico meticcio come Garcilaso de la Vega, la rivendicazione della specificità linguistica e culturale dei nativi fa uso di categorie e saperi dei colonizzatori, come appunto la filologia. Si ripropone allora un “intreccio inquietante” simile a quello che Ginzburg trovava nel caso di Agostino “inventore” della prospettiva storica: la flessibilità e la disponibilità al compromesso del cristianesimo, agevolate dalle scienze linguistiche e filologiche, sono state un’arma potentissima del colonialismo, ma nello stesso tempo costituiscono un patrimonio scientifico irrinunciabile, di cui fa uso anche chi voglia ridare voce al punto di vista indigeno e alle vittime della violenza coloniale.
È una lezione che Ginzburg ritrovava già nell’“etnocentrismo critico” di Ernesto de Martino, storico e pensatore a cui ha sempre fatto riferimento, presente anche in questo libro in un saggio dedicato al progetto de La fine del mondo. Questo richiamo è testimonianza del fatto che la ricerca di Ginzburg mantiene aperta una linea di ricerca di origine novecentesca sulla crisi della società e della razionalità occidentali, che non si risolve in una “abdicazione” ma in un approfondimento critico e in un allargamento continuo di orizzonte.
Così, contro ogni sicura teleologia storica e partigianeria ideologica, Ginzburg continua a svelare episodi poco noti e spiazzanti, mostrando come ogni tradizione abbia la sua ambivalenza. Ne sono altri esempi, ne La lettera uccide, l’individuazione dei prodromi dell’Illuminismo nell’opera dei gesuiti in Cina (nel saggio “Ancora sui riti cinesi”), o delle radici ebraiche dello scetticismo irreligioso di Montaigne (nel saggio “Il segreto di Montaigne”). Non si tratta, di nuovo, di mera erudizione al servizio della correttezza filologica. L’invito esplicito è a recuperare una capacità di leggere la complessità del passato e del presente in un’epoca di pericolose e deleterie manipolazioni di notizie e falsificazioni di complotti (tema su cui Ginzburg sta lavorando da anni): “In un mondo come il nostro, inondato dalle fake news, l’invito a leggere le testimonianze tra le righe, per coglierne le ‘rivelazioni involontarie’, è più che mai attuale: insegna a riconoscere la forza dei miti e delle menzogne, e a smascherare gli uni e le altre”.