I l programma, in realtà, era un altro. Desideravo passare la notte di capodanno da qualche parte nel quartiere della Barona, periferia sud di Milano. Ho contattato quattro hotel per verificare la possibilità di una camera. Ho spiegato che avevo in programma di scrivere un lungo articolo a proposito di un’architettura unica, di una chiesa a forma di piramide che si trova da quelle parti, e che mi sarebbe piaciuto descrivere il percorso di avvicinamento, le strade, gli incroci semaforici, gli edifici nei dintorni, i bar dove fare colazione, oltre che tentare di esprimere la ragione che mi portava a desiderare l’incontro con la piramide, e ho aggiunto che in cambio dell’ospitalità avrei senz’altro dedicato un paragrafetto alla loro struttura. Purtroppo ho ottenuto un poker di cortesi rifiuti, forse perché non sono un influencer e di conseguenza gli albergatori non erano interessati alla mia offerta, forse perché il testo scritto raggiunge meno persone di una story di Instagram o di un video, forse perché comprensibilmente gli hotel a cui ho spedito una email e telefonato non prevedevano formule e scambi di questo genere o forse perché, più semplicemente, le stanze erano tutte prenotate. Fallire l’obiettivo di addormentarmi alla Barona, come in una favola, mi ha lasciato l’amaro in bocca, ma non per questo ho pensato di venire meno al primo obiettivo del mio viaggio. Il mattino di domenica due gennaio mi sono alzato presto, sono uscito di casa, sono entrato nella metropolitana immacolata e mi sono diretto verso la chiesa di San Giovanni Bono, non per sedermi su una panca e assistere alla messa, ma per ammirare, il secondo giorno dell’anno, l’edificio che in tutta la provincia di Milano è tra i meno considerati, ma resta per me il più attuale, il più guerriero e anche il più riservato, accogliente e puro nel sorriso.
La chiesa piramidale di San Giovanni Bono è stata inaugurata nel 1968. Nel 1981 è stata danneggiata da un incendio che ha distrutto il manto di copertura del tetto. Tra il 2010 e il 2012, invece, è stato richiesto un intervento di ristrutturazione in seguito a un ammaloramento della facciata in cemento armato. Il progetto appartiene a un architetto e dirigente comunale. Il nome e cognome sembrano quelli allitteranti di un personaggio di Topolino: Arrigo Arrighetti. Dal 1941 Arrighetti è un dipendente del Comune di Milano. Si laurea dopo la guerra, nel 1947. Dal 1956 al 1961 è dirigente dell’Ufficio Tecnico e dal 1961 al 1970 è direttore dell’Ufficio Urbanistico. Lavora all’interno di un distaccamento, l’Ufficio Studi e Progetti Edilizi, dove svolge la sua attività accanto ad architetti, geometri, disegnatori, computisti, impiantisti e ingegneri strutturisti. Oltre al progetto della chiesa piramidale, firma diversi altri progetti, tra cui l’edificio circolare della piscina di Parco Solari, l’Istituto Vaccinogeno Antitubercolare, la copertura della stazione della metropolitana di Amendola e le scuole materne di via Piero Capponi e via Santa Croce. Di Arrighetti in rete non si trova neppure una foto. Il suo nome qualche anno fa è comparso in “Architecture by Civil Servants”, una mostra curata da OMA – lo studio del teorico, architetto e urbanista Rem Koolhaas – dedicata alla “welfare architecture” e allestita a Venezia all’interno della Biennale di architettura.
Nei venti minuti di viaggio in metropolitana, tragitto Garibaldi-Famagosta, ho letto qualche pagina di un vecchio Mille Lire di Stampa Alternativa: 144. Confessioni di una centralinista erotica: “[…] lavoro in un telefono erotico e sono anch’io una sex worker, anche se mi occupo di una forma di sesso virtuale basato sulla capacità dell’immaginazione, che i miei amici francesi chiamano masturbation sophistiquée”. Anche i bolli in rilievo della pavimentazione in gomma nerofumo, che calpesto uscendo dal vagone della metropolitana, prima di venire prodotti dalla Pirelli, sono stati progettati nell’ufficio dove ha lavorato Arrighetti. Per raggiungere la chiesa occorre scendere alla fermata Famagosta, quindi uscire sul lato sinistro, dove si trovano un supermercato Esselunga e un bar, l’Atlantic (della omonima catena, partner di Esselunga), fornito di una vetrata panoramica. Da lì si apre la vista sulle quattro corsie di viale Famagosta, sull’ampia aiuola spartitraffico e, al di là del viale, sull’imponente facciata déco futuribile di un palazzo direzionale, spezzata da vistose lesene che scendono lungo tutta l’estensione dell’edificio.
Fedele al mio programma – osservazione del paesaggio, racconto del mio avvicinamento alla piramide e restituzione di qualche impressione sparsa sul conto di bar ed eventuali locali nei dintorni – alle dieci e trenta in punto mi sono accostato al bancone dell’Atlantic per ordinare un caffè. Un cliente ha mostrato alla barista un bigliettino. Forse si trattava di una specie di carta fedeltà, ma di quel bigliettino, stretto tra indice e pollice, mi hanno colpito il dettaglio inconsueto della piega, la tinta di un caldo e morbido nocciola, e poi la carta, spessa e ruvida, troppo preziosa per una comune carta fedeltà. Che l’Atlantic abbia voluto dedicare un’attenzione speciale al disegno e alla confezione delle carte con i punti fedeltà, per meglio promuovere la propria immagine, appropriandosi di un universo di memorie estraneo alla Barona e al contesto di viale Famagosta, e più vicino, invece, all’ambiente di un ottocentesco caffè torinese, tutto cioccolatini da scartare, tappezzerie e piattini di porcellana? Quando ho ordinato il caffè, la barista mi ha guardato da sopra la mascherina FFP2, con i suoi occhi vispi e azzurri, e mi ha domandato se avessi già fatto lo scontrino. Le ho risposto di no e lei mi si è rivolta con durezza: “ma lei non lo sa che prima bisogna fare lo scontrino?”.
Mi rendo conto che, nonostante la pandemia e la cronica incertezza economica, ogni giorno mi sveglio in mezzo a una cornucopia di contenuti e stimoli, che a volte m’illude e fa del mondo in cui abito un paradiso realizzato.
Carlo Emilio Gadda, lo scrittore, definiva “sbrigativa rozzezza” certi modi bruschi dei lombardi. Il rimprovero della barista mi ha addolorato. Mi sono chiesto quale fosse il motivo della sua insofferenza, per di più alle dieci di mattina del due di gennaio, cioè in una parentesi di quiete e sospensione che in quei minuti io sentivo contenere come in una boccia di vetro tutta la città, ma poi ho pensato che di fronte a decine, forse centinaia di clienti che ogni giorno chiedono un caffè senza aver fatto prima lo scontrino, magari questa persona, questa lavoratrice di Milano sud, esasperata, si è data un obiettivo e un metodo, che consiste nel provare a rieducare e organizzare le abitudini della clientela, ricorrendo a qualche sollecitazione comunicata in modo un po’ tagliente. È anche in questa rudezza e sfrontatezza, mi sono chiesto, che si cela un po’ del segreto di quella determinazione generale allo scopo e al risultato, che è all’origine del primato economico della Lombardia? (In ogni caso, il due di gennaio della barista non era il mio due di gennaio: lei era dietro al banco a lavorare, io no). Prendo piattino e tazzina e me ne vado a sedere di fronte alla vetrata che affaccia sulle auto in corsa lungo il rettilineo di viale Famagosta. Approfitto della pausa per fare scroll sul feed di Instagram. Il tavolinetto da due è diviso a metà da una barriera parafiato in plexiglass. Ritrovo una foto scattata il giorno di Natale a mia nipote. Finisco il caffè, metto un paio di cuori e me ne vado.
Per raggiungere la piramide di San Giovanni Bono occorre lasciarsi alle spalle il centro, al primo semaforo girare a sinistra e poi proseguire per via San Vigilio. È un po’ che non ricapito da queste parti. Non vedo l’ora d’incontrare la piramide e lasciare che le ansie e le paure vengano liquidate in quell’assenza e magnifica calma da dopo bomba che ogni volta sembra avanzare dal sagrato. Quando il mattino di Natale ho scattato la foto a mia nipote, ricordo che lei si era messa in posa, sprizzante di gioia e felice di lasciarsi inquadrare dall’obbiettivo della fotocamera, e allora in quel momento, non so perché, ho intuito che chi verrà dopo di me saprà usare lo smartphone con una fiducia e una serenità di cui io non sono capace. A destra sfilano le cancellate del Collegio di Milano, istituzione per studenti italiani e stranieri meritevoli. Nel pratino di fronte noto che è sistemato lo scarto di un grande evento, una statua di oltre tre metri di altezza, ideata per Expo 2015 dallo scenografo Dante Ferretti, e poi, immagino, a esposizione universale conclusa, trasportata in questo anfratto alla Barona. È la figura di un fornaio, con una pala in mano e un mattarello legato alla cintura, ispirata allo stile burlesco del pittore milanese Arcimboldo.
Tra il marciapiede e le aiuole sono sparsi i resti dei petardi esplosi a capodanno. È freddo. L’ultimo piano dell’ospedale San Paolo sfuma nella caligine grigiazzurra. Come facevano i contadini lombardi del XVII secolo, privi di un sistema di riscaldamento e senza la giacca imbottita di soffice pelo bianco e le calze di lana a rombi grigi e bordeaux che ho il privilegio d’indossare, a sopportare questo gelo e a proteggersi dal vapore che si sprigiona dalla terra ed entra nelle ossa? Come facevano a pensare liberamente, cioè a divagare e a sprecare, queste persone vissute prima di me, se ripararsi dal freddo e procurarsi del cibo è stata la loro principale occupazione, inverno dopo inverno, nel corso di esistenze mediamente più brevi della mia? Me lo chiedo mentre cammino lungo via San Vigilio, fornito di un paio di cuffie e uno smartphone, così sfacciatamente libero da esercitarmi in un compito spudoratamente piacevole, cerebrale e superfluo: il confronto tra due versioni di un vecchio brano degli anni Ottanta del Novecento (The Paris Match, nella versione con la voce di Paul Weller e in quella con la voce di Tracey Thorn). Mi rendo conto che, nonostante la pandemia e la cronica incertezza economica della mia vita, ogni giorno mi sveglio in mezzo a una cornucopia di contenuti e stimoli, che a volte m’illude e fa del mondo in cui abito un paradiso realizzato.
Ecco finalmente, attraversate le strisce pedonali, un primo ed elusivo apparire della piramide, come un sole cereo all’alba, incorniciata tra i rami spogli degli alberi di un parchetto. Di fronte, una vasca romboidale colma d’acqua e a sinistra i quattro blocchi residenziali del quartiere Sant’Ambrogio, costruiti insieme a San Giovanni Bono negli anni Sessanta, e, come la chiesa, progettati da Arrigo Arrighetti. “All’andamento a nastro degli interminabili edifici civili, sopraelevati su portici aperti, si contrappone la verticalità e l’andamento centripeto dell’imponente tempio cuspidato” (Le nuove chiese della diocesi di Milano. 1945-1993, a cura di Cecilia De Carli, Vita e Pensiero, 1994). La piramide è un triangolo isoscele, bucato come una fortezza da sottili feritoie verticali, con la differenza che le feritoie della chiesa sono coperte da lastre di vetro colorato. La facciata è alta trentacinque metri e larga ventuno.
Sono le undici e la messa è appena iniziata. Abituato all’immagine delle chiese deserte, mi stupisco nel vedere tante persone, per di più dall’aria partecipe e attenta. Scatto qualche foto mentre i fedeli seguono l’omelia, in piedi, seduti e poi di nuovo in piedi. Per evitare il contatto delle mani, il segno di pace viene scambiato con un semplice sguardo e una breve torsione riverente del busto. Mi sistemo su una delle graziose e severe seggioline di fòrmica (niente panche) disposte lungo la navata centrale. Vedo dall’altra parte della navata una specie di apparizione: un bambino, tutto vestito di chiaro come un cresimando, con un piumino color ghiaccio, un paio di pantaloncini corti da calcio bianchi e un pallone di cuoio sottobraccio a esagoni bianchi e neri.
Ecco l’attualità di un’architettura della periferia milanese che sembra progettata sulle rovine della storia, già posteriore alla catastrofe ecologica e alla scomparsa dell’uomo sul pianeta.
In una nicchia è collocata una statuina in legno di San Giovanni Bono, vescovo di Milano nel VI d.C. L’autore della scultura, delle vetrate e del commovente tabernacolo, cerchiato nella penombra da un occhio di bue, è un sacerdote francescano, padre Costantino Ruggeri, pittore e scultore di arte sacra, nato in provincia di Brescia, studente all’Accademia di Brera, amico di Lucio Fontana e Mario Sironi, per tutta la vita stanziato nella mansarda di un convento a Pavia, tra maschere africane, libri e maquette di chiese. Sospetto sia grazie alla cura e alla sottigliezza di Ruggeri che su una lastra accanto alla statuina è stato inciso questo passaggio della lettera ai corinzi: “[…] come un saggio architetto, io ho posto il fondamento, poi un altro vi costruisce sopra […]”.
Le formelle della via crucis alle pareti, il confessionale, il fonte battesimale, le finestrelle colorate e il resto degli arredi sono ispirati a uno stile di eleganza e minimalismo quasi sartoriali. Ogni dettaglio sorride nella semioscurità con innocenza. Se la velocità ascensionale della facciata produce in me uno sbalzo e innesca la trazione verso l’alto tipica del gotico, la particolare forma della pianta della navata, invece, trascina me e gli altri presenti in una storia, in un movimento escatologico verso un punto di fuga, oltre l’altare, come se fossimo tutti trasportati a bordo di una nave rompighiaccio o di un’astronave con la prua puntata verso un destino oltreumano. Ecco l’attualità di un’architettura della periferia milanese, che sembra progettata sulle rovine della storia e già posteriore alla catastrofe ecologica e alla scomparsa dell’uomo sul pianeta.
Mentre i fedeli si alzano dalle seggioline e si mettono in fila di fronte al parroco per ricevere l’ostia, un’immagine incongrua fa capolino nella mente. Risale al viaggio di poco prima in metropolitana. Non si tratta di quel che ho letto seduto nel vagone semivuoto, sfogliando le pagine di 144. Confessioni di una centralinista erotica, ma della vista di un piccione che zampettava, a suo rischio e pericolo, tra i binari della galleria. Il piccione svolazzava qua e là, in cerca di qualche avanzo di cibo o forse intontito, disorientato, non sapendo neppure lui come ci fosse finito laggiù in fondo. Non avevo mai visto un piccione infilarsi dentro la metropolitana, tantomeno spingersi così tanto in profondità, imboccando rampe su rampe di scale, fino a raggiungere la banchina illuminata dai neon dove i passeggeri entrano ed escono dai treni. Ero curioso di vedere che cosa sarebbe successo e se il treno in arrivo avrebbe travolto e trucidato il corpo del piccione. Ho aspettato qualche minuto, l’animale continuava a saltellare tra un binario e l’altro. Ho guardato il piccione con quella disistima che gli esseri umani di solito provano verso i piccioni. Alla fine il treno è arrivato, ma il piccione ha aperto le ali e per un pelo si è salvato.
Foto di Ivan Carozzi.