P rima di iniziare a insegnare in un Istituto professionale lo scorso settembre, ero convinta che mi sarei trovata di fronte ad adolescenti assuefatti alle serie tv, soprattutto dopo tutti questi lunghi periodi di isolamento causati dalla pandemia. Avevo proiettato sulle studentesse e gli studenti un’ossessione che caratterizza più la mia generazione: nei miei sondaggi informali ho scoperto che, su circa 120 spettatori di quarta e quinta superiore, il solo prodotto televisivo consumato da percentuali oltre il 70% in tutte le classi è Too Hot to Handle, il reality dating game show di punta di Netflix. Anche se non può essere confrontato con nessun dato ufficiale, causa la nota riservatezza della piattaforma, il campione che ho sondato mi sembra essere ragionevolmente rappresentativo della composizione del pubblico che ha garantito allo show di rimanere per settimane e settimane tra i primi posti della Top 10 di Netflix Italia.
Analizzare un prodotto soap-trash come Too Hot to Handle è un’ottima occasione sia per applicare la teoria a qualcosa di frivolo sia per interrogarsi sul modo in cui si stanno costruendo gli immaginari delle nuove generazioni attorno al tema del sesso, oltre e fuori dalla narrazione divertente ma responsabile e progressista di serie come Big Mouth o Sex Education. Come vedremo, infatti, Too Hot to Handle sfugge alla norma dell’inclusività che segna la linea editoriale di Netflix, ma lo fa con un tono talmente smorfioso e scanzonato da indurci a credere che si tratti di un sottoprodotto che mette in imbarazzo persino le sue creatrici e i suoi creatori, ispirati (non a caso) da una delle sitcom più esemplificative dell’ironia televisiva postmoderna di fine millennio, ovvero Seinfeld. Too Hot to Handle, infatti, si autoproclama eccessivo e ridicolo fin dai suoi paratesti (sigle e anticipazioni) e nel farlo sembra volersi ricavare uno spazio marginale, umile e, soprattutto, protetto, cioè al riparo dalle critiche. I cosiddetti critici, in fondo, non farebbero meglio a occuparsi di altro, di cose pop, ma più serie? Eppure, come pare abbia detto Aby Warburg, “il diavolo si nasconde nei dettagli” e cercare il diavolo dovrebbe essere uno degli scopi più intriganti ed eticamente più impellenti per gli studiosi dei mass media, specie in questa epoca di trasformazioni rapide e di trionfalismi fin troppo ingenui e sempre pronti celebrare la svolta inclusiva intrapresa da una parte cospicua dell’industria culturale globale.
Too Hot to Handle segue una logica in apparenza banale: cinque femmine e cinque maschi fisicamente prestanti, superficiali e, almeno in linea teorica, ossessionati dal sesso vengono trasportati in un’isola tropicale in cui per circa un mese dovranno condividere un resort dotato di svariati comfort, ma di una sola camerata notte con sei letti a una piazza e mezza addossati lungo le pareti. Nella prima puntata delle due edizioni in lingua inglese e degli adattamenti del format per il mercato brasiliano e latino-americano, i partecipanti vengono catapultati in questo ambiente ricolmo di agi, corpi desiderabili e fiumi di alcol senza conoscere lo scopo del gioco. In tutti e quattro i casi, l’esordio è una specie di corsa all’accoppiamento disseminata di flirt piuttosto rozzi, palpeggiamenti e, in alcuni casi, preliminari o performance sessuali consumati frettolosamente nella camerata sovrappopolata e sotto l’occhio a infrarossi delle telecamere.
In fondo, quale ventenne o trentenne con uno stipendio di millecinquecento euro al mese, spenderebbe tremila euro per un bacio focoso con uno/a semi-sconosciuto/a?
Curiosamente, l’incipit è anche l’acme precoce della rappresentazione del sesso all’interno di tutto il format. Subito dopo che i giocatori hanno pregustato, con più o meno soddisfazione, le gioie del sesso fa, infatti, il suo ingresso in scena il Deus ex machina di Too Hot to Handle: Lana, un’assistente personale intelligente sul modello di Alexa con un design che ricorda un diffusore di essenze con funzionalità cromoterapiche. Il primo compito di Lana è quello di mettere i concorrenti a conoscenza delle vere regole del gioco: i partecipanti dovranno rimanere “casti” per l’intera durata dell’esperimento, meglio dovranno evitare qualsiasi forma di contatto “improprio” con gli altri (baci, petting e sesso) e con se stessi (autoerotismo). Ogni infrazione a questa regola comporterà una decurtazione del montepremi finale proporzionato alla gravità della trasgressione. Va detto che né il pubblico né i concorrenti sono a conoscenza di quale sarà la modalità di spartizione del bottino, che si aggira intorno ai centomila euro. Ci sarà una divisione equa tra tutti i partecipanti? I più casti vinceranno più soldi? Sono previste delle espulsioni? Nelle prime puntate, il pubblico non ha accesso a queste informazioni che verranno rivelate in modo chiaro solo durante l’episodio finale. A causa di questa ambiguità, la mia esperienza spettatoriale con Too Hot to Handle assomiglia a quella che potrei fare di fronte a una partita di football americano o di cricket: riesco a crearmi un’idea di insieme dell’andamento della competizione, ma non comprendo appieno le singole fasi del gioco né il significato di una parte delle azioni dei partecipanti.
Agli autori del game dating show deve essere sembrato superfluo chiarire le regole del gioco e, considerato il successo di pubblico del programma, hanno avuto ragione a mantenere questa ambiguità. Ciò che importa al fine di agganciare lo spettatore è l’inserimento di un meccanismo punitivo netto: la sanzione pecuniaria. Introducendo nell’esperimento un rinforzo negativo legato a somme di denaro considerevoli agli occhi della maggioranza del pubblico, il format spinge lo spettatore medio a condannare l’impulsività dei giocatori, pronti a sperperare migliaia di euro in avvinghiamenti consumati nell’arco di pochi secondi o minuti. In fondo, quale ventenne o trentenne con uno stipendio di millecinquecento euro al mese, spenderebbe tremila euro per un bacio focoso con uno/a semi-sconosciuto/a? A enfatizzare questo scollamento tra i criteri di giudizio razionali dello spettatore e quelli irrazionali che, almeno in apparenza, guidano i giocatori, c’è l’onnipresente voiceover che conduce lo show in un rapporto di interazione continua e virtuale con Lana, il fulcro panottico dell’esperimento, e le cavie, sottoposte a una ridicolizzazione dai toni scanzonati e dal ritmo martellante. D’altra parte, lo spettatore deve trovare illogici i comportamenti dei concorrenti presentati come un branco di “sessuomani” per evitare di confrontarsi con un’ipotesi che farebbe crollare l’impalcatura finzionale: e se i bellocci senza cervello fossero, in realtà, dei freddi calcolatori, dei maestri nella capitalizzazione delle loro maschere pubbliche? Se i giocatori fossero più furbi del pubblico che li giudica? Le cavie di Too Hot to Handle potrebbero, in fondo, perseguire il proprio interesse personale anche, e forse soprattutto, mettendo a rischio poche migliaia di euro per ottenere in cambio una visibilità ben più remunerativa sul lungo periodo.
Lana, che condivide con i personaggi acusmatici del cinema l’onnipresenza e l’onnipotenza, non si limita solo a sorvegliare e punire i concorrenti, ma predispone per loro anche un percorso rieducativo che punta a renderli capaci di sviluppare “rapporti profondi e significativi con gli altri”. Per riformare l’edonismo antisociale dei partecipanti, Lana propone, nel corso delle otto puntate, una serie di workshop che oscillano tra le attività ludico-formative dei team building in azienda e i corsi di mindfulness e self-empowerment che hanno al centro i nuovi guru-influencer. L’addomesticamento della sessualità “esagerata” dei giocatori passa, dunque, attraverso una sanzione afflittiva e, allo stesso tempo, un progetto rieducativo volto all’autoconoscenza e al controllo degli istinti. I partecipanti seguono laboratori in cui imparano a prendere contatto con le proprie emozioni irriflesse, esternando nei riti terapeutici calendarizzati da Lana la propria vulnerabilità. I corsi si dividono in due macro-categorie. Da una parte, i corsi seguiti dal gruppo nella sua interezza. In questo caso i maschi e le femmine, solitamente sotto la guida di un esperto tantrico, esplorano reciprocamente i propri corpi per sperimentare una connessione fisica con l’altro decentrata dall’area genitale, più “lenta” e “profonda”. Dall’altra, invece, i workshop in cui i due generi vengono separati e istruiti a decostruire e poi ricostruire le proprie idee di mascolinità (per i maschi) e di femminilità (per le femmine) – in uno dei momenti per me più incredibili e rivelatori di Too Hot to Handle alcuni dei protagonisti chiedono perdono ai propri genitali tra le lacrime.
Il binarismo dei generi è chiaramente uno dei cardini del format che nelle due stagioni in lingua inglese propone un altro pattern molto rigido: in entrambi i casi, le due coppie finaliste sono formate da un giovane uomo bianco e da una donna bianca di qualche anno più adulta e da un uomo e una donna neri. Attraverso la logica “tentazione-punizione-ricompensa” il gioco costruisce due modelli di coppia eterosessuale monogamica evidentemente omogenei alle fantasie e agli immaginari del proprio pubblico. L’esito altamente standardizzato del gioco-esperimento non è né casuale né banale, tanto più se lo si pone in relazione alla linea editoriale delle produzioni Netflix e alla sua cifra distintiva: l’inclusività. Mentre le coppie miste o queer dilagano nelle serie tv, nel reality di maggior successo della piattaforma la deviazione dalla norma è esclusa o, al massimo, schivata. La bisessualità dichiarata da alcune delle protagoniste (l’eterosessualità dei maschi, com’è prevedibile in questo contesto, non è mai messa in discussione) può essere, al massimo, lo spunto per una pomiciata scherzosa in una delle serate a tema, così come i flirt tra i giocatori bianchi e quelli neri non rappresentano mai una minaccia autentica al percorso preordinato di formazione delle coppie intrarazziali.
In uno dei momenti per me più incredibili e rivelatori di Too Hot to Handle alcuni dei protagonisti chiedono perdono ai propri genitali tra le lacrime.
In Studying Sexualities (2013), Niall Richardson, Clarissa Smith e Angela Werndly mettono a fuoco, con una semplicità rara nel mondo accademico, i significati culturali e politici sottesi al discorso pubblico sul sesso, scisso tra ossessione e censura. La sessualità è “a site of regulation, improvement and social engineering as well as a source of considerable angst and entertainment” ed è proprio nell’oscillazione costante tra regolazione e divertimento che agisce il fascino discreto di Too Hot to Handle nell’immaginario adolescenziale. Alla ricerca di una rappresentazione del sesso esplicita ma non pornografica, il pubblico teen viene trascinato in un vero e proprio programma di addomesticamento degli impulsi erotici con esiti insidiosamente reazionari. Lana premia le coppie che imparano a contenere il desiderio, a calibrarlo in funzione della norma esteriore e degli scopi del gruppo di appartenenza. È utile interrogarsi sui modi di costruzione dell’immaginario sessuale popolare, tanto più in questi tempi di lockdown e distanziamenti. Mentre i politici proclamano la pericolosità (a destra) o l’inesistenza (a sinistra) della teoria gender, il mercato vende alle nuove generazioni racconti, divertenti e patinati, di omologazione e regolazione della sfera sessuale. A differenza di altri dating show di enorme successo tra la fascia di pubblico giovanile come, ad esempio, Temptation Island, Too Hot to Handle viene consumato lontano dallo sguardo degli adulti perché, a detta dei ragazzi e delle ragazze con cui ho parlato, il format ha un contenuto sessualmente esplicito che li metterebbe “in imbarazzo” con i genitori. Basta avere memoria dell’adolescente che siamo stati per comprendere che queste censure private amplificano il potere della rappresentazione, dando all’idea di sessualità veicolata da Too Hot to Handle un valore trasgressivo che non ha nulla a che fare con le vere logiche e gli obiettivi della messa in scena. I genitori spaventati dalla corruzione morale e sessuale dei propri figli a opera dei media, dell’ideologia gender e, persino, del PD dovrebbero essere i primi fan di Too Hot to Handle; se le nuove generazioni non si ribelleranno ai loro padri e alle loro madri è anche e forse soprattutto a causa di un immaginario che ha colonizzato e depotenziato la loro fantasia, cioè la loro capacità di immaginare se stessi e gli altri in maniera diversa, come scrive Judith Butler in Fare e disfare il genere “di sfidare i limiti contingenti di ciò che verrà, o meno, chiamato realtà.”