N el 2021 ci siamo ritrovati in una condizione di caos forse inedita. Passando da oggetto di terrore a quotidianità, la pandemia ci ha messo di fronte alla distopia realizzata. Tutto quello che prima potevamo immaginare o leggere in qualche romanzo o film di fantascienza, si dispiegava in potenza davanti a noi: la reazione da quel momento ondeggia tra abbracciarla delirando di complotti e manipolazioni virtuali oppure negarla guardando già oltre, in una proiezione attiva che è tipica quando si attende l’esaurimento di certe polveriere (non a caso, dopo la seconda guerra mondiale la gente pensava alla vita, mentre all’inizio del conflitto c’era in linea di massima fame di interventismo). In questa situazione è logico rimettere mano a certi scritti che hanno modellato in qualche maniera la nostra idea di distopia, avanzando previsioni fantapolitiche e fantasociali che risultano sempre in equilibrio sul reale e sul punto di essere attuate: ad esempio, 1984 di George Orwell.
Se è vero che si dibatte da un po’ sull’attualità di un’opera che ha ormai ottant’anni, 1984 ha ispirato e ancora ispira il mondo della musica moderna, che nella trama del libro assorbiva tutti i rischi di un avvenire ancora da decifrare e lontano da essere la prassi che è oggi, tanto che oramai immaginiamo il futuro come un sequencer step by step che ti avvinghia in silenzio. Diceva Battiato per bocca di Milva: “i campi di sterminio che questa civiltà produce / senza tregua né pudore / mentre la gente dorme”, ed era non a caso il 1982. Ed è proprio attraverso le arti che questa mutazione avviene, e nel romanzo il ruolo della musica è fondamentale: per Orwell è uno strumento di controllo politico. Ora, uno come Mark Fisher diceva che “Orwell aveva torto su tutto, e soprattutto sul 1984”, ma purtroppo per la buonanima di Fisher dobbiamo invece dire che su molte cose aveva ragione, per l’appunto a proposito della musica. Ecco un passo cruciale che lo dimostra.
La melodia perseguitava Londra da settimane. Era una delle innumerevoli canzoni simili pubblicate a beneficio dei proletari da una sottosezione del Dipartimento di Musica. Le parole di queste canzoni sono state composte senza alcun intervento umano su uno strumento noto come versificatore. Ma la donna cantava così melodiosamente da trasformare l’orrenda spazzatura in un suono quasi piacevole.
È una delle epifanie del protagonista, Winston, che mosso dalla musica prende coscienza di sé e di quello che vuole nella vita, cioè la libertà che non può certo dargli il Partito. Ma a parte ciò, il pop di oggi è esattamente questo: quasi tutto uguale nelle tematiche, nei suoni, nei testi. Inutile dire che la musica leggera e la trap per anni hanno detto e ripetuto concetti seriali fino alla nausea (droga, nigga, bitches, depressioni adolescenziali e via dicendo), con pochissime eccezioni. Poter scrivere una canzone automatica nel pop è possibile, basta una app sul telefonino o semplicemente reiterare quei tre quattro accordi che funzionano in quel dato periodo storico, fino ad esaurimento e via, ricominciando con un altro standard che – senza ombra di dubbio – calmerà i bollenti spiriti degli ascoltatori portandoli su una confort zone che non è dissimile da quella prodotta nella musica che il Partito rifila a tutti in 1984. La musica, nel romanzo, è artificiale, prodotta appositamente per i prolet in modo da tranquillizzarli: unica eccezione è la Hate Song, che è la composizione più semplice nella struttura ed è quella che dovrebbe fomentare ad un’emozione forte come l’odio, da riversare ovviamente sugli oppositori, e quindi cantata col contagocce altrimenti potrebbe diventare un boomerang (nel libro infatti è la canzone meno popolare tra i prolet rispetto al resto della produzione di massa). È indubbio, quindi, che Orwell avesse bene il polso della situazione in fatto di propaganda: la quale ovviamente occupa militarmente le espressioni popolari edulcorandole e rendendole spazzatura a proprio uso e consumo. Spacciandole, ovviamente, per capolavori.
Qualcuno potrebbe obiettare che sì: Orwell ha predetto gli anni Duemila in questo senso, e invece nel 1984 – anno in cui la cultura si è posta in blocco il problema dell’eredità di 1984, che era uscito nel 1948 – la situazione musicale era contraddittoria: c’era ancora – anche nel synth pop e affini – un artigianato musicale diretto parente del rock n roll, che ovviamente veniva dal blues. Ancora si suonava con le mani, e il fattore umano la faceva ancora da padrone. Se da una parte è esatto, è vero anche che il rock n roll e il blues sono stati subito risucchiati nel buco nero del mercato musicale, creando idoli, miti, modi di pensare indotti: gli artisti però erano vivi e vegeti e potevano chiaramente decidere da che parte stare, fino addirittura a suicidarsi in un eccesso di libero arbitrio (Ian Curtis docet), mentre oggi si va sempre più verso veri e propri avatar e ologrammi (Hatsune Miku, ma anche i recenti Abba).
Nel 1984, con l’avvento di MTV in Europa e con lo sviluppo di un pop easy listening che per la prima volta forse decide di fare propri i suoni “alternativi” ed elettronici della new wave per fare cassa, le resistenze cedono. Gli strumenti digitali cominciano ad essere usati quasi in ogni album mainstream: l’avvento dei primi campionatori come il Fairlight e il Synclavier rendono il più delle volte inutile la presenza di un esecutore, i suoni si standardizzano sempre di più di produzione in produzione. Un disco di Madonna suona quasi come quello di David Bowie, o poco ci manca perché alla console sono sempre gli stessi. Le batterie elettroniche sono la prassi, i preset dei synth di nuova generazione producono suoni che funzionano nell’immediato, il più delle volte nessuno degli artisti si prende la briga di programmarli in maniera inedita: troppa fatica e poi il tempo è denaro. Senza dubbio il 1984 è l’anno in cui questo modo di approcciarsi alla musica pop diventa lo “stato delle cose” per affermare un predominio: quello del capitalismo sulle sette note.
In questo scenario, nell’anno in questione non ci furono dirette citazioni dell’opera di Orwell in risposta critica a questo standard. C’è solo il lavoro degli Eurythmics, che ebbero la grande opportunità di curare la colonna sonora del film di Michael Radford tratto dalla distopia orwelliana, che appunto esce nel 1984. La Virgin impose al regista lo score del duo inglese, trentanove minuti di musica. Ma Radford si rifiutò di usarla, voleva un commento più classico e fu quindi necessario un rimpasto che portò a un mix di temi musicali condivisi con il compositore Dominic Muldowney, soluzione che alla fine scontentò tutti. Guarda caso, quello che doveva essere un film sui rischi del potere, diventa un caso di poteri che si manipolano a vicenda; la Virgin sul regista e il regista sulla malcapitata coppia di musicisti. Ed è un segno dei tempi, come lo fu la O.S.T. degli Eurythmics: musica pop sintetica ai minimi termini, uso di campionatori senza ritegno con grande utilizzo di voci auto campionate, e appunto quel senso tanto “multimediale” alla MTV, musica che senza lo schermo non regge, proprio come la propaganda del Ministero della Verità non regge la realtà. Ma c’è un altro aspetto importante ed è il contrasto distopia/dramma e la spensieratezza di alcuni brani, che è coerente con la musica come concepita nello scritto di Orwell. Ad esempio, “Sexcrime” non ha un andazzo minaccioso, ma sembra anzi un brano pop prevalentemente in maggiore molto orecchiabile: sarebbe stata perfetta come brano automatico scritto dal Partito. In realtà però il disco degli Eurythmics oscilla volutamente in questo modo forse ispirandosi ad altre due opere musicali dedicate a 1984. E unite da un insolito destino.
Nel 1984 un disco di Madonna suona quasi come quello di David Bowie, o poco ci manca, perché alla console sono sempre gli stessi.
Il destino è quello di uscire casualmente nello stesso anno, il 1981. Prima di occuparcene, va ricordato che nel 1972 il jazzista Hugh Hopper pubblica 1984, un disco proprio dedicato al romanzo orwelliano, un capolavoro che racconta come sarebbe potuta essere la musica elettromeccanica descritta nel libro. Sicuramente ultradrammatica e – nella struttura jazz di Hopper – meno elettronica, anche se brani come “Miniplenty”, con i suoi synth impazziti, sono sensazionali. Oggi sembra il più saggio di tutti, ad aver fatto un disco del genere così lontano nel tempo: come possono essere credibili dei dischi su una distopia prevista nel 1984 se escono nel 1981, con uno scarto di soli tre anni? Eppure i due pazzi che decidono contemporaneamente di illustrare quello che a breve sarà un futuro dispotico, più che distopico, sono Anthony Philips e Rick Wakeman.
Rick Wakeman è stato il tastierista degli Yes per i primi cinque anni del gruppo, per poi proseguire la carriera da solista barcamenandosi tra classico e moderno, cercando in qualche modo di stare al passo degli ex colleghi. Anthony Philips è invece il primo chitarrista dei Genesis: lo vediamo in azione nei loro primi due lavori e anche lui da solista porta avanti una ricerca da guitar hero orientato a gusti folk-sinfonico eccetera. Bene, per quanto assurdo, questi due “dinosauri” della musica, ancora attaccati a un concetto “rock progressive” delle cose, sono stati quelli che si sono buttati a capofitto in un discorso futuribile senza fare una piega. Fino a quel momento solo Bowie aveva provato con Diamond Dogs del 1974 a portare avanti un discorso interno al romanzo di Orwell, più che un commento musicale esterno (come alla fine era il disco di Hopper), non riuscendo poi a quagliare se non con qualche brano. Forse perché motivati proprio dalla necessità di cambiare pelle, i due artisti trovano nel romanzo di Orwell un modo per rinnovarsi e forse per interpretare i tempi in modo critico e senza età, confidando nell’attualità di un libro uscito però nel 1948, quindi in un’era “antica”. Dico forse perché poi le cose non stanno proprio così, o meglio non del tutto.
Nel caso di Philips per la prima volta (e anche l’ultima) in un suo album si opta per un ensemble completamente elettronico con tanto di vocoder, rendendo il disco un passo estremamente coraggioso che, stranamente, nonostante il suo contenuto non certo per tutti viene applaudito dalla casa discografica che ne annusa tanto la contemporaneità quanto un possibile quid avvenirista che potrebbe vendere bene: in copertina per la prima volta si opta per un bianco e nero – facendo a meno di Peter Cross, il grafico ufficiale di Philips – con illustrata la terribile gabbia che verrà imposta sul viso di Winston nella Room 101, cioè la sala delle torture per chi disobbedisce ai dettami del ministero dell’amore. Nonostante questa immagine plumbea, la musica della prima traccia è estremamente cosmica, krauta, in maggiore; gran parte delle tracce viaggiano su questo dialogare di sintetizzatori chitarre synth e una batteria elettronica incessante che Philips chiede in prestito a Phil Collins (è la stessa di “In the air tonight”), con alcune inserzioni non tanto pesanti quanto interlocutorie. Il fatto è che durante la composizione Philips non aveva la minima idea di cosa stesse facendo, tanto che l’idea di intitolare il tutto 1984 arrivò solo molto dopo: non era quindi musica pensata per accompagnare il libro. Questo però rende l’operazione di Philips ancora più credibile: la distopia si attua in tutto e per tutto, la musica sembra veramente creata da un’ intelligenza artificiale per essere completamente dissociata dalla realtà dei fatti. Se nel romanzo la musica serve per ottundere le menti e distrarle dalla repressione dello stato, qui si fa allo stesso modo e probabilmente rappresenta la resa migliore di tutte, proprio perché il trick di partenza è assolutamente contraddittorio, parla di tutt’altro, è altrove.
Rick Wakeman invece arriva a gamba tesa con un’opera rock che nel 1981 pochi potevano ancora permettersi: e già da questo punto di vista sembra il più lontano possibile da un minimo criterio futuribile. Invece, il concetto di Wakeman nasce probabilmente dal fatto che il punk è arrivato a fare piazza pulita degli orpelli e ne ha minato la ragion d’essere: per cui la sua risposta è evocare il rischio di uno stato totalitario che riscrive la storia, tramite l’architettura pomposa ed eccessiva delle varie suite che compongono l’opera (d’altronde il punk come genere coccolato dal giornalismo musicale era oramai diventato hype e quindi volente o nolente parte del sistema). Ai testi viene reclutato Tim Rice, ovvero quello che scrisse alcune “cosucce” come Jesus Christ Superstar, e vari ospiti a caratterizzare le tracce: Chaka Khan, Jon Anderson esule dagli Yes, Steve Harley dei Cockney Rebel… Le tracce, nonostante la tematica di base, se non suonano come un’operazione di “proto hauntology” poco ci manca: Winston, il protagonista di 1984 è infatti affascinato dal passato, poiché lì il Partito non esisteva, e lo percepisce come una specie di giardino dell’Eden perduto (tanto per ribadire che Orwell ci ha visto lungo anche quando era apparentemente miope).
La propaganda occupa militarmente le espressioni popolari edulcorandole e rendendole spazzatura a proprio uso e consumo. Spacciandole, ovviamente, per capolavori.
Per esempio ritorna nel romanzo più volte la filastrocca del diciottesimo secolo “Orange And Lemons”, nella quale Winston vede i valori e tutto un mondo affettivo perduto prima dell’avvento del grande fratello e del Partito, a lui ovviamente sconosciuto (e infatti non sa che, per le sue valenza di gioco per bambini piuttosto “teso”, vi saranno insite le previsioni del suo tristo futuro). Nonostante questo stratagemma probabilmente voluto, e nonostante il fatto che il disco non andrà male e da molti è considerato anche uno dei suoi migliori e forse l’ultimo degno di nota – il 1984 del tastierista inglese suona troppo di muffa: Wakeman imputerà questo problema alla Korg, rea di non avergli inviato in tempo strumenti appena usciti che aveva ordinato e comperato seduta stante e in ragguardevole numero. Non possiamo sapere quindi se la presenza di questa tecnologia avrebbe migliorato o no le sorti di questo disco. Ma a tutti gli effetti il successivo di Wakeman, ovvero The prophet of rock n roll, sarà una roba new wave elettronica che si prendeva gioco dei Buggles, i quali – beffa delle beffe – nell’81 erano appena entrati a far parte integrante degli Yes e nel giro di un anno li avevano lasciati. Ma in quel caso, la musica era pensata come parte del presente e quindi non sufficientemente “strana” per rivolgersi ad un futuro sicuramente confuso e dalle tinte fosche.
Dopo questa doppietta, lo spettro del Grande fratello colpirà ancora il mondo della musica pop. Con gli Alan Parson Project e il loro “Eye in the sky”, che appunto gli si ispira; i Police con “Every breath you take”, che in pratica si rifà allo stesso discorso dietro l’apparente canzone d’amore – I’ll be watching you; e a seguire, in ere più recenti, ancora citazioni, da Marylin Manson ai Muse per non parlare di una schiera di gruppi punk tra i quali i Dead Kennedys. Ma si tratta di cose circoscritte. Nell’era Trumpiana, caratterizzata da tendenze alla neolingua e all’“ocaparlare” più sfrenato dei suoi elettori, probabilmente abbiamo avuto la conferma che la visione musicale di Philips e Wakeman messa insieme rappresenta, con buona pace degli Eurythmics, l’eredità musicale che ci portiamo oggi del romanzo di Orwell: basti pensare a uno come Kanye West. Pomposità, artificialità, testi da “versificatore” e chiaramente un collante tra melodia pop da pasticceria (Philips) e rnb che anela alla candeggina (Wakeman).
Oggi l’elettronica pervade tutto, nessuno suona più uno strumento, si programma tramite effetti e processori di suono che riescono in un clic a trasformare una ritmica banale in una serie di sbarattolate che balzano alle orecchie; e ovviamente di base questo non è un problema, fino a che tutto ciò non si ferma alla forma a scapito della sostanza. Con l’utilizzo massiccio della pitch correction e dell’autotune anche un parlato può trasformarsi in melodia, col risultato che quasi tutti i prodotti fatti in questo modo suonano simili tra loro. Il rock è un ricordo di un passato che sembra liberato da certe tensioni, ma non sanno più suonarlo. Nel frattempo, la memoria dei dischi di Philips e Wakeman è sparita dalla storia, riscritta ad uso e consumo di nuove generazioni elettroniche da spennare con generi, mode, e una musica fatta per compiacere più che smuovere le coscienze: è il Ministero della Verità e, forse, stavolta non si tratta di finzione.