N ell’agosto 2002 un’alluvione di eccezionale intensità colpisce l’area suburbana di Vicenza, causando l’esondazione del torrente Orolo. Qualche giorno dopo un uomo di 36 anni finisce in ospedale: sul corpo ha solo qualche escoriazione ma i medici riconoscono i sintomi della leptospirosi. Si tratta di una malattia infettiva di origine batterica che origina dagli animali, sia domestici che selvatici, e passa all’essere umano attraverso il contatto con le deiezioni. L’uomo, che morirà due settimane dopo, era entrato in contatto con l’urina di animali infetti trasportata dall’acqua tracimata nelle campagne.
Da tempo gli studiosi hanno mostrato che l’aumento della leptospirosi è connessa ai cambiamenti climatici, in particolare agli effetti di eventi estremi come alluvioni, tifoni e uragani. Per esempio, in India si registrano ogni anno epidemie in coincidenza con la stagione dei monsoni. Con l’aumentare degli eventi estremi, aree particolarmente a rischio come gli slum, le enormi baraccopoli alla periferia delle grandi conurbazioni dei paesi emergenti, rischiano di essere periodicamente colpite da ondate di leptospirosi.
Per mettere in luce i rischi emergenti dalla rottura del delicato equilibrio tra benessere ambientale, salute animale e salute umana, negli ultimi anni ha iniziato ad assumere popolarità il termine One Health. Se n’è cominciato a parlare con insistenza soprattutto all’indomani della pandemia di COVID, quando l’assunto di questo approccio si è rivelato drammaticamente concreto. Ma anche prima della COVID, il ritmo allarmante di epidemie nell’essere umano collegate a patogeni provenienti da animali (encefalopatia spongiforme bovina, il cosiddetto “morbo della mucca pazza”; salmonellosi; influenza aviaria; influenza suina; ebola; SARS) aveva indotto gli esperti a lanciare allarmi sulla necessità di una sorveglianza di natura “integrale”, includendo cioè gli allevamenti, la fauna selvatica e habitat particolarmente a rischio.
Per mettere in luce i rischi emergenti dalla rottura del delicato equilibrio tra benessere ambientale, salute animale e salute umana, negli ultimi anni ha iniziato ad assumere popolarità il termine One Health.
Un modo semplice per visualizzare il concetto è quello di un meme popolare nel 2020, “effetto domino”: un uomo in procinto di far cadere la prima di una serie di tessere di grandezza crescente, in una classica reazione a catena. Nel meme, in corrispondenza dell’uomo c’è la descrizione “qualcuno mangia una zuppa di pipistrello a Wuhan”, mentre in corrispondenza della tessera più grande c’è una qualsiasi delle imprevedibili conseguenze della COVID, come il lievito esaurito nei supermercati durante il lockdown. Sappiamo da tempo di vivere in un mondo sempre più interdipendente; tuttavia, prendere coscienza che una leggerezza dettata dalla nostra ignoranza di queste interdipendenze possa produrre una pandemia globale è scioccante quanto l’aver realizzato in passato che il semplice gesto di spruzzare deodorante sotto le braccia poteva far svanire la fascia di ozono esponendoci al rischio di estinzione.
Ma il concetto di One Health va molto più in là del problema delle zoonosi, come ho iniziato a rendermi conto parlandone con veterinari, zootecnici, esperti di politiche sanitarie e persino sociologi: si può arrivare a definirlo un nuovo paradigma per ripensare il concetto stesso di salute e benessere nell’Antropocene.
Le tessere del domino
Conosciamo ormai molto bene le potenziali conseguenze dei cambiamenti climatici sull’ambiente: l’aumento del livello dei mari, l’acidificazione degli oceani, l’avanzare della desertificazione, l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi e delle ondate di calore. Ma solo molto di recente abbiamo iniziato a scoprire le connessioni tra trasformazioni antropiche della biosfera e salute umana, e quel poco che sappiamo non sembra essere molto incoraggiante. Un esempio tra tanti: con l’aumentare delle temperature globali le zecche, veicoli della malattia di Lyme, prodotta da un batterio che nasce all’interno di alcuni piccoli mammiferi delle aree boschive, mostrano un’attività stagionalmente più precoce e si spostano a latitudini più elevate, aumentando così l’insorgenza di nuovi casi. La stessa cosa sta accadendo con la diffusione delle zanzare della specie Aedes (come la nota zanzara tigre) in aree sempre più a nord, diffondendo patogeni come il virus Zika.
Esiste anche un nesso, ancora non pienamente compreso, tra biodiversità e zoonosi. Da quando, nei primi mesi di lockdown, in molti hanno riscoperto Spillover di David Quammen (2012), saggio che nelle ultime pagine prevedeva il ruolo dei coronavirus come futuri protagonisti di una pandemia virale, il concetto di zoonosi è entrato a far parte di quel glossario di termini tecnici un tempo riservati agli esperti ma di cui improvvisamente si è cominciato a parlare ovunque. Quammen puntava il dito sul ruolo dell’essere umano nel favorire l’emergere di nuove zoonosi attraverso la devastazione degli habitat, la sovrappopolazione e l’enorme densità abitativa in alcune aree del mondo, gli allevamenti intensivi e in generale tutto ciò che oggi identifichiamo con il termine Antropocene, vale a dire la trasformazione della biosfera terrestre sotto gli effetti della pressione antropica.
Sappiamo che la perdita della biodiversità, attraverso la scomparsa a ritmi crescenti di specie animali e vegetali (al punto da parlare di una vera e propria estinzione di massa), si collega all’estensione degli insediamenti antropici e ai conseguenti cambiamenti ambientali. Secondo alcuni studiosi, la perdita di specie predatrici aumenta la disponibilità di animali reservoir (ospiti serbatoio) in grado di trasmettere malattie; oppure la selezione naturale favorisce le specie più resistenti e diffuse, che sono più naturalmente portate a ospitare patogeni (è il caso di topi o zanzare). Altri studiosi sostengono invece che le aree maggiormente ricche di biodiversità rappresentino il maggior serbatoio di patogeni; ma anche in questo caso, ovviamente, non dovremmo metterci a distruggere le foreste pluviali per assicurarci un riparo dalle zoonosi: piuttosto dovremmo a maggior ragione stare attenti che il contatto tra questi habitat e quelli umani avvenga con molta più cautela di quanto avviene oggi, quando per esempio aree appena disboscate di grandi foreste vengono subito convertite al pascolo.
Sappiamo che la perdita della biodiversità, attraverso la scomparsa a ritmi crescenti di specie animali e vegetali, si collega all’estensione degli insediamenti antropici e ai conseguenti cambiamenti ambientali.
Forse ancor più dei dati relativi alle concentrazioni di gas serra in atmosfera, è la spettacolare espansione dell’Impero Umano sulla biosfera a darci un’idea di cosa significhi vivere nell’Antropocene. Un dato sconcertante è quello secondo cui la massa degli esseri umani e dei loro animali domestici e da allevamento rappresenta oggi il 97% della biomassa totale dei vertebrati terrestri, mentre le altre trentamila specie selvatiche a malapena racimolano il restante 3%. Ciò è potuto accadere in conseguenza del crescente fabbisogno alimentare di una popolazione in continua crescita che ritiene segno di benessere un sempre maggiore consumo di proteine animali.
Una delle conseguenze ben note di questo modello di sviluppo è quello degli antibiotici. Circa due terzi di tutti gli antibiotici (oltre 60mila tonnellate l’anno) sono somministrati agli animali da allevamento e una parte finisce nella carne, nel latte e nelle uova che consumiamo. Questo è un problema specialmente quando alcuni batteri trasmessi attraverso il cibo animale, come la salmonella, presentano geni resistenti alla maggior parte degli antibiotici per uso umano a causa della resistenza sviluppata nell’organismo ospite. Di fronte all’allarmante diffondersi di superbatteri resistenti agli antibiotici, nel 2006 l’Unione europea ha messo al bando il cosiddetto “uso auxinico”, cioè la pratica di somministrare antibiotici per favorire la crescita ponderale dei capi. Ma l’impiego in via preventiva continua a essere lo standard. “Un agnello o un vitellino con due o tre giorni di diarrea muoiono”, spiega Nadia Musco, ricercatrice di nutrizione e alimentazione animale all’Università di Napoli Federico II. La somministrazione degli antibiotici a scopo preventivo serve proprio a evitare queste situazioni e i conseguenti danni economici per gli allevatori.
Gli sforzi della UE per contrastare questa pratica hanno dato buoni frutti, con cali significativi nell’ultimo decennio nella somministrazione agli animali di diverse classi di antibiotici impiegati anche per uso umano, tra cui in particolare polimixine e cefalosporine. Nel 2017, inoltre, la Commissione europea ha creato una Rete One Health sulla resistenza antimicrobica che riunisce esperti di tutti gli Stati membri, con l’obiettivo di ridurre le vendite di antimicrobici per animali da allevamento e in acquacoltura del 50% entro il 2030.
Siamo sulla stessa arca
Nel 1992 la National Academy of Medicina dell’Accademia nazionale delle Scienze americana identificò sei cause principali dell’emergere di nuove malattie infettive: i comportamenti umani (cultura, economia, tecnologia, commercio, trasporti); l’interazione uomo-animale attraverso l’agricoltura, la penetrazione nelle aree selvatiche e l’esposizione agli animali d’affezione; l’interazione uomo-ambiente; il comportamento animale e la perdita di biodiversità; le conseguenze del riscaldamento globale su temperatura, umidità e altri fattori climatici; l’interazione animale-ambiente, tra cui le modifiche nell’ampiezza degli habitat in altitudine e latitudine e le conseguenti dinamiche tra patogeni e organismi ospiti.
Ma non occorrevano le pandemie per comprendere lo stretto collegamento tra crescita insostenibile, squilibri dell’ecosistema terrestre e aumento delle patologie. Già nel 1972 gli estensori del rapporto sui Limiti della crescita promosso dal Club di Roma (un prestigioso think-tank fondato a Roma nel 1968 dal manager Aurelio Peccei e dedicato all’approfondimento delle grandi problematiche globali, a cui si deve tra le altre cose l’origine del concetto di “sviluppo sostenibile”) ne parlavano in termini di circolo vizioso. Al crescere della popolazione aumenta la domanda di cibo e al crescere della domanda di cibo aumenta l’estensione di coltivazioni e allevamenti; ma ciò comporta una riduzione degli stock di risorse naturali, con il risultato che oltre un certo livello la produzione alimentare non potrà che calare e, poco dopo, inizierà a calare anche la popolazione, piagata da fame e carestie.
Questi scenari maltusiani non si sono avverati solo perché – come del resto avevano previsto gli stessi autori di quel rapporto – la tecnologia sarebbe venuta in soccorso delle esigenze umane, incrementando sempre di più le rese agricole e la produzione di cibo. Ma ciò non sarebbe avvenuto senza conseguenze, come mostrava proprio il modello informatico World3 fondato sulla nascente scienza della systems dynamics impiegato dagli esperti del Club di Roma per simulare le conseguenze di questi trend. Il mondo, dopotutto, è un sistema termodinamicamente chiuso, in cui la crescita perpetua è fisicamente impossibile; aumentare la produzione alimentare implica aumentare la produzione di fertilizzanti, che finiscono nell’ambiente danneggiando terra e mare, e di gas serra, che finiscono in atmosfera. E poi abbiamo bisogno di estendere le coltivazioni di mais e soia, che costituiscono la base principale dei mangimi del bestiame; ma l’espansione delle coltivazioni e degli allevamenti in nuovi habitat può esporli a nuovi, sconosciuti reservoir di malattie. Entrando a contatto con animali selvatici al cui interno, nel corso dei secoli, si sono evoluti agenti patogeni a noi conosciuti, gli animali da allevamento possono iniziare quel drammatico processo di “salto di specie” che oggi conosciamo fin troppo bene.
Non occorrevano le pandemie per comprendere lo stretto collegamento tra crescita insostenibile, squilibri dell’ecosistema terrestre e aumento delle patologie.
Un riconosciuto pioniere dell’approccio One Health fu Rudolf Virchow, celebre patologo tedesco a cui si devono le prime descrizioni dei meccanismi della leucemia e della trombosi, e che contribuì in modo determinante, nella metà del XIX secolo, a migliorare l’igiene pubblica di Berlino con la costruzione di moderni impianti fognari e di smaltimento dei liquami. A lui si deve l’origine del termine “zoonosi” e la famosa affermazione secondo cui non esistono né dovrebbero esistere linee divisorie tra medicina umana e animale.
Ma si dovette attendere almeno un secolo prima che queste idee iniziassero a diffondersi. Nel 1947 James Steele fondò un’unità di salute pubblica veterinaria all’interno dell’attuale CDC (Centers for Disease Control and Prevention), la più importante autorità di controllo sulla salute pubblica negli Stati Uniti, mentre nel 1964 sempre in America Calvin Schwabe pubblicò il primo libro di testo su medicina veterinaria e salute umana. Negli anni Settanta Schwabe si recò in Sud Sudan per studiare e migliorare le pratiche veterinarie dei Dinka, una popolazione semi-nomade dedita alla pastorizia. Schwabe osservò la stretta affinità tra le pratiche mediche indirizzate alle persone e quelle impiegate per il bestiame, in considerazione dell’elevata importanza che gli animali rivestono nell’economia e nella cultura Dinka. Suggerì pertanto di non introdurre in quella popolazione l’approccio occidentale che distingue nettamente tra medicina umana e veterinaria, ma di integrare le moderne scoperte della medicina all’interno del loro contesto tradizionale, formando i “guaritori” locali sul posto. Per definire questo approccio integrale tra salute umana e animale Schwabe coniò il termine one medicine, destinato a una certa fortuna. Alla base di questo paradigma c’è anche l’attenzione verso forme tradizionali di medicina, come dimostra l’istituzione in seno all’Organizzazione Mondiale della Sanità di una commissione di esperti sulla medicina tradizionale africana nel 1976.
L’attenzione crescente ai temi ambientali nel corso degli anni Settanta e Ottanta – enfatizzata dai rapporti del Club di Roma, dall’istituzione della Giornata della Terra nel 1970, e prima ancora dall’enorme influenza del saggio di Rachel Carson Primavera silenziosa (1962), che per la prima volta dimostrava lo stretto legame tra devastazione antropica dell’ambiente dovuta al crescente fabbisogno alimentare (in particolare tramite l’uso del DDT) e perdita di biodiversità – spinse ad ampliare ulteriormente il concetto di one medicine, considerato troppo legato al solo aspetto medicale, sostituendolo con quello più generale di One Health. Nel settembre 2004 rappresentanti delle principali organizzazioni internazionali in ambito sanitario e ambientale si riunirono alla Rockefeller University a New York per un simposio organizzato dalla Wildlife Conservation Society dedicato ai preoccupanti segnali dell’emergere di nuove zoonosi. L’evento fu intitolato “One World, One Health” e al termine vennero adottate dodici raccomandazioni, i cosiddetti Principi di Manhattan.
Al primo posto figurava il riconoscimento “dello stretto legame tra salute umana e animale, sia degli animali domestici che selvatici, e la minaccia che le malattie rappresentano per le persone, le loro riserve alimentari e le economie, nonché l’importanza della biodiversità per mantenere gli ambienti sani e gli ecosistemi funzionanti di cui abbiamo bisogno”. Tra le altre raccomandazioni figuravano l’inclusione della ricerca medica sulla fauna selvatica all’interno dei programmi globali di prevenzione delle epidemie e l’adozione di approcci olistici per la mitigazione dell’emergere di nuove patologie legate all’interconnessione tra specie. Tali raccomandazioni furono poi adottate nel 2008 da FAO, OMS, UNICEF, Organizzazione mondiale per la salute animale e Banca mondiale in un quadro strategico d’azione One Health all’indomani degli allarmi sui rischi di nuove zoonosi lanciati alla Conferenza ministeriale internazionale di Nuova Delhi dedicata alla pandemia di influenza aviaria nel dicembre 2007.
Un’utopia concreta?
Oggi l’approccio One Health è riconosciuto dall’OMS, dai CDC americani, dalla Commissione europea e, in Italia, dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute. Come nel caso del paradigma one medicine, prevede anche una certa attenzione alla medicina tradizionale: è il caso dell’inserimento di un capitolo sulla medicina tradizionale cinese nella recente classificazione delle malattie dell’OMS, che dovrebbe portare nel 2022 all’approvazione ufficiale di queste pratiche da parte della principale organizzazione sanitaria mondiale. Scelta che ha provocato una levata di scudi nella comunità scientifica, con editoriali di fuoco su riviste come Nature e Scientific American, e accuse – ulteriormente acuitesi durante la pandemia – di un’eccessiva subordinazione dell’OMS all’influenza di Pechino. Ma anche il Master One Health dell’Università di Napoli Federico II include, oltre a lezioni di fisiologia della nutrizione umana e animale, patologia veterinaria, benessere animale e neurofisiologia, anche approfondimenti sulla fitoterapia negli animali domestici (un settore in crescita soprattutto in considerazione dell’obiettivo di ridurre l’uso di antibiotici negli animali) e persino sull’agopuntura veterinaria, che gode oggi di vasta applicazione tanto negli ambulatori privati quanto negli ospedali veterinaria universitari.
All’apertura alla medicina tradizionale si aggiunge un uso forse troppo disinvolto dell’aggettivo “olistico” per definire l’approccio integrato del paradigma One Health: il richiamo a una “scienza olistica”, ossia non divisa in comportamenti stagni ma aperta all’integrazione tra discipline, è stato infatti spesso associato a pratiche al confine della scientificità, come nel caso di molte terapie alternative apertamente pseudoscientifiche spacciate per “medicina olistica” per giustificarne la distanza dalla cosiddetta “medicina ufficiale”. Ma è pur vero che il paradigma One Health si caratterizza proprio per la sua portata interdisciplinare, che include ambientalisti, economisti, sociologi, persino teologi. Cos’è, dopotutto, il richiamo all’ecologia integrale proposto dall’enciclica Laudato si’ firmata nel 2015 da papa Francesco, se non una sua variante? Si legge nell’enciclica:
Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere. Per tale ragione, le conoscenze frammentarie e isolate possono diventare una forma d’ignoranza se fanno resistenza ad integrarsi in una visione più ampia della realtà.
Per Anna Rosa Favretto, docente di Sociologia della salute all’Università di Torino, e Giacomo Balduzzi, che insegna Progettazione partecipata in ambito sociale e sanitario all’Università del Piemonte, il concetto di One Health rientra tra le real utopias, le “utopie concrete” proposte da Erik Olin Wright, che mettono in discussione l’ordine esistente dimostrando l’esistenza di alternative percorribili. I due ricercatori hanno studiato l’applicazione dell’approccio One Health alla rete di sorveglianza per il contenimento della diffusione del virus del Nilo occidentale (West Nile) nel Nord Italia, un virus trasmesso dalle zanzare che colpisce sia gli animali (nello specifico i cavalli) che gli esseri umani. “La collaborazione interdisciplinare tra scienze sociali e scienza della vita è sempre più stretta negli ultimi anni e la One Health è uno dei temi di incontro più stimolanti”, osserva Giacomo Balduzzi. “Questo perché all’approccio one medicine aggiunge la caratteristica fondamentale di allargare la prospettiva non soltanto all’integrazione tra medicina umana e animale ma all’inclusione dell’ambiente, di tutte le specie viventi e a tutte quelle dimensioni che impattano sulla salute che sono al di fuori del campo della medicina, per esempio le dimensioni relative alla vita sociale, all’economia, alla psicologia, alle abitudini culturali”.
Oltre al lavoro sulla sorveglianza del virus del Nilo occidentale in chiave di politiche pubbliche e valutazione dell’efficacia degli interventi, Favretto e Balduzzi lavorano sul settore del benessere animale non solo in chiave prettamente medico-sanitaria, ma coinvolgendo una molteplicità di attori affinché il complessivo miglioramento del benessere animale comporti anche benefici sul benessere umano e ambientale: “Per esempio orientando diversamente le scelte dei consumatori, in una chiave di scelta collettiva”, spiega Balduzzi. Un esempio è quello studiato e promosso dal Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell’Università di Napoli Federico II con il progetto sul cosiddetto latte nobile, un marchio regolamentato da un particolare disciplinare adottato dai produttori che si impegnano a vendere esclusivamente latte da animali alimentati per almeno il 70 per cento da colture foraggere locali polifite, ossia prati composti da due o più specie foraggere. “È quello che i ruminanti normalmente dovrebbero mangiare, ma negli allevamenti intensivi la componente foraggera si riduce al 30-40 per cento al massimo, il resto sono concentrati o insilati”, spiega Nadia Musco. L’alimentazione con concentrati serve a produrre di più, con il risultato che negli allevamenti intensivi, quelli in cui viene prodotto il latte che generalmente si trova al supermercato, un animale produce mediamente 40 litri di latte, ossia il doppio di quanto normalmente produca un animale al pascolo. I ricercatori della Federico II non hanno solo analizzato il maggiore contenuto di omega 3 nel latte nobile, ma confrontato anche le sue proprietà rispetto a quello standard studiandone gli effetti su cavie in laboratorio. “Nei ratti abbiamo osservato proprietà antiossidanti che proteggevano sia il muscolo che il cuore dal punto di vista circolatorio”, afferma Pietro Lombardi, professore associato di fisiologia veterinaria alla Federico II, dove è anche direttore del Master One Health, il primo di questo tipo in Italia.
Ma gli effetti benefici sull’essere umano sono solo un aspetto. L’altro riguarda proprio il benessere dell’animale. “Mentre negli allevamenti intesivi l’animale viene mandato al macello dopo massimo tre lattazioni, perché poi non è più in grado di produrre le quantità necessarie, i capi che producono latte nobile riescono a fare sette, otto, fino a dieci lattazioni”, spiega Musco. “E questo perché è un animale che sta bene, che non è sfruttato, e quindi è più longevo”. Sul piano economico e delle scelte del consumatore, di cui parlava Balduzzi, ciò si traduce ovviamente in un costo maggiore: rispetto all’euro al litro del latte standard, il latte nobile ne costa due e mezzo. Ed è necessario anche incoraggiare economicamente gli allevatori a scelte che rischiano di rendere meno. Per questo, il disciplinare del latte nobile prevede un compenso per litro pari al 50% in più rispetto a quanto viene corrisposto all’allevatore tradizionale, così da compensare la minore produzione e garantire un uguale ritorno economico.
Il paradigma One Health si caratterizza proprio per la sua portata interdisciplinare, che include ambientalisti, economisti, sociologi, persino teologi.
I ricercatori della Federico II stanno provando a estendere l’approccio One Health anche all’aspetto ambientale dell’alimentazione animale. A San Giorgio La Molara, in provincia di Benevento, hanno sperimentato l’uso del favino e del pisello come fonte proteica al posto della soia. “Sono colture locali, mentre l’Italia oggi importa il 70 per cento del suo fabbisogno di soia e oltre metà del mais”, ricorda Musco. “Non solo: il mais richiede otto volte più acqua del sorgo, che dal punto di vista nutrizionale è pressoché equivalente. Per avere un chilo di insilato di mais [tipicamente usato come mangime, N.d.A.] occorrono 250 litri di acqua”. Altre sperimentazioni prevedono di sostituire il sorgo al mais, in piccoli allevamenti di capre nel Cilento e in Irpinia o di bufale da latte nel Frusinate. “Le sperimentazioni hanno dato tutti buoni risultati, anche dal punto di vista economico, perché questi prodotti non costano di più. Ma le case mangimistiche non hanno vantaggio, perché devono puntare su grandi quantità”. Analogo problema affligge la replicabilità su scala commerciale delle sperimentazioni per la riduzione delle emissioni di metano degli allevamenti. Tutti gli studi fatti nel corso degli anni mostrano che in realtà l’alimentazione naturale a base di foraggio produce più emissioni di metano rispetto al mangime a base di concentrato, a meno che il foraggio non sia di buona qualità: allora le emissioni prodotte dai bovini nella fase di ruminazione si riducono drasticamente. Ma i foraggi di alta qualità costano, così come l’introduzione nelle diete di olii essenziali, aglio o origano, di cui sono in corso sperimentazioni in vitro e in vivo per verificarne l’efficacia in termini di riduzione delle emissioni.
Il benessere del mondo non-umano
Mi ritrovo a seguire i ricercatori del gruppo di veterinari e zootecnici della Federico II per vederli in azione e ciò che mi colpisce delle loro ricerche, e che forse rappresenta l’aspetto più rivoluzionario del paradigma One Health, è la crescente attenzione al benessere animale sic et simpliciter, senza chiamare necessariamente in causa ritorni economici, miglioramenti per la salute umana o vantaggi per l’ambiente, che ricadono ancora all’interno di una cornice antropocentrica.
Raggiungiamo un allevamento biologico a Roccabascerana, in provincia di Avellino, dove sono in corso due sperimentazioni (al momento dell’uscita di questo articolo le sperimentazioni si sono completate con alcune pubblicazioni su riviste scientifiche). La prima riguarda l’alimentazione di galline ovaiole all’aperto e prevede di somministrare a un primo gruppo un’alimentazione standard a base di mais e soia, anche se – mi viene spiegato – di maggior costo e qualità della media perché, trattandosi di un allevamento biologico, non è consentito l’uso di OGM, mentre il secondo gruppo è alimentato con una miscela di sottoprodotti di grani antichi preparata da Slow Food. “Nei piccoli mulini del Beneventano e dell’Avellinese si producono molti grani antichi per produrre pane e farine”, mi spiega Musco. “La molitura del cereale per ottenere la farina che si usa in alimentazione umana residua sottoprodotti impiegabili in alimentazione animale”. Quando si vanno a raccogliere le uova, si scopre che il gruppo alimentato con la miscela di grani antichi depone un po’ meno dell’altro gruppo, anche se l’analisi mostra che le uova sono di qualità migliore. Ma ciò che colpisce, osserva Lombardi, è che “gli animali alimentati con mangime standard presentano fegato steatosico, ossia fegato grasso, mentre l’altro gruppo presenta fegati perfettamente in salute”.
One Health significa anche allargare lo sguardo al benessere dell’ambiente e degli animali in una prospettiva non antropocentrica.
La seconda sperimentazione è ancora più curiosa. I ricercatori dividono alcuni conigli dell’allevamento all’interno di tre recinti all’aria aperta, in ciascuno dei quali sono ulteriormente separati da divisori in gruppi di tre. Nel primo gruppo gli esemplari possono vedersi tra loro e avere anche un contatto olfattivo attraverso i divisori; nel secondo ciascun sottogruppo di tre esemplari è isolato dagli altri; stessa cosa nel terzo, ma con la differenza che i divisori sono rivestiti di specchi. “L’obiettivo è valutare come l’arricchimento ambientale può arricchire il repertorio comportamentale degli animali”, spiega Lombardi. “Quando gli animali hanno poco spazio sono stressati, ma non sempre è possibile fornirglielo. Abbiamo cercato di verificare se gli specchi possono stimolarli”. Una volta a settimana per quattro volte in un mese i recinti vengono ripresi per ventiquattr’ore e, attraverso un paziente lavoro di catalogazione dei comportamenti rivedendo le registrazioni, gli etologi del gruppo hanno cercato di valutare delle variazioni: per esempio quanti minuti passano a fare grooming tra di loro (il grooming è l’abitudine a leccarsi il mantello), a mordicchiare gli oggetti o se si verificano atti di autolesionismo. Oltre a osservare che i conigli nel recinto con gli specchi mostravano comportamenti comparabili con quelli dei conigli più liberi di interagire nel primo gruppo, al termine della sperimentazione i ricercatori hanno confronto anche parametri fisiologici, osservando che i conigli del secondo gruppo (quello in cui i diversi sottogruppi non potevano interagire tra loro) mostravano tassi di crescita ponderale più bassi e valori ematici alterati, associati a più alti livelli di cortisolo – dunque a maggiore stress – rispetto agli esemplari del gruppo aperto. Queste variazioni non sono state rilevate nel gruppo degli specchi, che quindi sembrano aver tratto giovamento da un ambiente più stimolante.
A una prima impressione si può pensare che tutto ciò non abbia nulla a che fare con il problema della prevenzione delle zoonosi, che è l’obiettivo primario della One Health. Ma in realtà sembra di scorgere un cambio di paradigma, come scrive anche la virologa Ilaria Capua, oggi direttrice dell’One Health Center of Excellence all’Università della Florida, nel suo libro Salute circolare. Una rivoluzione necessaria (2019):
Il messaggio che vorrei dare è che non possiamo più andare avanti pensando alla salute [di] Homo sapiens come nostro unico obiettivo prioritario, né come individui né come specie.
Questo significa allargare lo sguardo al benessere dell’ambiente e degli animali in una prospettiva non antropocentrica, dove cioè non ci preoccupiamo dell’integrità dell’Amazzonia esclusivamente per preservare una riserva di ossigeno per la nostra sopravvivenza, né di far stare bene gli animali per evitare che ci infettino con i loro batteri e virus. Una prospettiva dove gli altri due anelli della catena – animale e ambiente – non sono più considerati solo in chiave utilitaristica, ma riconoscendo un loro diritto all’esistenza e al benessere indipendentemente dall’essere umano.
Nel suo libro Metà della Terra. Salvare il futuro della vita (2016) l’influente biologo Edward O. Wilson propose di riservare metà della superficie terrestre a beneficio delle decine milioni di specie con cui condividiamo il pianeta, per salvaguardarle da una nuova estinzione di massa. Proposta coraggiosa e ambiziosa, ma nemmeno sufficiente. Per garantire il diritto alla sopravvivenza del mondo non-umano occorrerà necessariamente spezzare i cicli di retroazione positiva che alimentano l’Antropocene, a partire da quelli di natura economico-sociale. Una popolazione umana che considera naturale aumentare il proprio consumo di proteine all’aumentare del proprio reddito, da un lato; dall’altro, un mercato che considera naturale produrre di più con meno e spingere di conseguenza i consumatori a prediligere i prodotti più economici nonostante gli evidenti danni che apportano all’ambiente e al benessere sia umano che animale.
Di fronte a un simile compito, definire l’approccio One Health una “utopia concreta” è forse un eufemismo. Ma la pandemia che stiamo vivendo può rappresentare uno stimolo importante al cambiamento: come mi ricorda Balduzzi, il sociologo Ulrich Beck ci diceva già negli anni Ottanta che il rischio, inteso come evento di cui avvertiamo il pericolo nel presente e che dobbiamo impedire che avvenga nel futuro, può essere di stimolo all’azione trasformativa per evitare che il pericolo si realizzi. “Le ricerche mostrano oggi che le paure alimentano anche le false credenze”, mi spiega, “la paura di fronte al pericolo non è di aiuto, ci spinge a comportarci in modo contrario rispetto alla soluzione razionale. Il rischio, nel senso di Beck, può invece aiutare sia i cittadini che gli scienziati a lavorare insieme per scongiurare il peggio, trovando nuove soluzioni: può essere un motore di innovazione sociale”. La One Health ci spinge proprio in questa direzione: “capire l’interdipendenza tra diversi ambiti per comprendere la salute come interrelazione tra sistemi viventi diversi proprio per agire in maniera integrata a beneficio degli uomini, degli animali e del pianeta. One Health non è solo un paradigma di ricerca, ma di azione”.