I l petrolio è un paese a parte, una nazione con confini mobili. Le sue frontiere vengono continuamente sospinte indietro, verso territori sempre più ostili. Sono finiti i tempi delle conquiste facili. Ogni nuova opportunità presenta dei problemi, ogni guadagno inatteso ha le sue condizioni. Questioni di clima, geologia, collocazione, regime. Mancanza di infrastrutture, conflitti interetnici, dispute politiche sugli oleodotti. Prese di ostaggi in Libia, pirateria nell’Africa occidentale, insorti in Iraq, banchi di ghiaccio nella Russia artica.
Nel Mare del Nord il clima invernale è rigido, il fondale marino è un impenetrabile miscuglio di scisto e argilla. In Brasile il petrolio è bloccato sotto spessi strati di sale. L’Asia centrale riesce in qualche modo a combinare gli elementi peggiori di tutti gli altri petrolstati: gas tossici; insurrezioni; banditismo; petrolio sepolto in profondità ad alta pressione; mari ghiacciati in inverno, caldo desertico in estate, intrighi di governo per tutto l’anno. In paesi politicamente stabili gli spostamenti sono rischi calcolati, ma molti degli incidenti sul lavoro sono limitati alle piattaforme: esplosioni, incendi, condense, ustioni da prodotti chimici, macchinari pesanti, carichi in movimento. Nelle regioni più instabili i dipendenti devono vedersela con rapimenti, rivolte e terrorismo, ancor prima di poter arrivare al lavoro.
Estrarre petrolio è un lavoro sporco, pericoloso. È una battaglia campale tra ingegno umano, terreni inospitali e materiali altamente combustibili. I rischi sono aggravati dal fatto che si tratta di luoghi isolati. Le piattaforme immagazzinano grandi quantità di petrolio e gas, quindi il pericolo di esplosione è costante. È possibile, e accade, che le piattaforme affondino, come è successo nel 1982 quando la Ocean Ranger si inabissò nelle acque del Canada, e nel 2001, quando la Petrobras 36, che era allora la più grande delle piattaforme semisommergibili, si inclinò per poi affondare al largo delle coste del Brasile. Nel 2010, undici vite andarono perdute sulla Deepwater Horizon in quello che divenne il più grande sversamento in mare di petrolio della storia. Disastri di queste dimensioni, per quanto rari, servono a ricordarci quanto sia limitato il nostro controllo. In seguito all’incidente della Deepwater Horizon, il greggio continuò a riversarsi nel Golfo del Messico per tre mesi. Quando il Pozzo 37 della Tengiz esplose, continuò a bruciare per un anno. Red Adair (leggendario vigile del fuoco americano, specializzato in disastri petroliferi, ndt) ci mise tre settimane a spegnere l’incendio della Piper Alpha.
È una battaglia campale tra ingegno umano, terreni inospitali e materiali altamente combustibili. I rischi sono aggravati dal fatto che si tratta di luoghi isolati. Le piattaforme immagazzinano grandi quantità di petrolio e gas, quindi il pericolo di esplosione è costante.
Non esiste parabola più tetra di quella della Piper Alpha nella storia delle esplorazioni offshore. Nota come “il Mostro”, un tempo era stata la più grande piattaforma di produzione di petrolio al mondo. Nel 1988 i suoi giorni migliori si erano però esauriti. Tra i lavoratori del Mare del Nord, la Piper Alpha era diventata nota come il posto dove accadevano gli incidenti. Su di essa, l’anno prima era morto un operaio. Il 6 luglio erano in corso operazioni di manutenzione essenziale. La proprietà, la compagnia Occidental, ipotizzò di fermare la produzione mentre erano in corso i lavori, ma poi decise che sarebbe stato troppo costoso.
Ciò che ne seguì fu una tempesta perfetta di lassismo e avversità. La chiamano la “teoria del formaggio svizzero”. Un’organizzazione può stratificare le sue difese, ma ogni strato avrà un punto debole, come il buco in una fetta di Emmental. Quando questi buchi si allineano, i guai trovano via libera.
Quel giorno, una valvola di sfogo venne rimossa da un tubo di scarico della condensa e rimpiazzata con un raccordo cieco. C’erano dei problemi con il sistema di autorizzazioni al lavoro della Occidental e gli operai non avevano ricevuto una formazione adeguata. Quando la squadra notturna andò per attivare il tubo sostitutivo, non sapevano che le valvole erano state sostituite. Il raccordo cieco cedette e la fuga di gas provocò un’esplosione. La piattaforma era stata costruita per immagazzinare petrolio, non gas, e quindi le pareti potevano resistere al fuoco ma crollarono dopo la prima esplosione. Il sistema automatico di allagamento era stato impostato sul controllo manuale perché i palombari stavano lavorando in acqua vicino alle pompe e c’era il rischio che venissero risucchiati dai bocchettoni. Il petrolio delle piattaforme vicine Tartan e Claymore cominciò a scorrere nelle tubature, andando ad alimentare l’incendio, mentre gli uomini abbandonavano la piattaforma. Non si riuscì a trovare nessuno che autorizzasse il blocco della produzione.
Quando fu chiaro che non sarebbe arrivato nessuno (nel giro di un minuto dalla prima esplosione il fumo aveva avvolto l’eliporto e gli elicotteri non avrebbero potuto avvicinarsi), dovettero salvarsi da soli saltando in acqua da un’altezza di cinquanta metri.
Presto la Piper Alpha fu avvolta da fiamme visibili a oltre cento chilometri di distanza. Centosessantasette uomini morirono quella notte. Alcuni seguirono le procedure di esercitazione e si ritirarono nelle zone di pernottamento. Ci finirono sepolti dentro quando la piattaforma si piegò su se stessa e il blocco scivolò in mare. Altri si arrampicarono sulla pista dell’eliporto, aspettando di essere salvati. Quando fu chiaro che non sarebbe arrivato nessuno (nel giro di un minuto dalla prima esplosione il fumo aveva avvolto l’eliporto e gli elicotteri non avrebbero potuto avvicinarsi), dovettero salvarsi da soli saltando in acqua da un’altezza di cinquanta metri. Quelli che non si ruppero il collo si trovarono davanti a una scelta: affondare nel buio e annegare, o nuotare verso la superficie e bruciare. È una storia di paure ancestrali. Fiamme violente. Mare che brucia. I sopravvissuti erano guidati dall’istinto più elementare: toccare terra.
Per i sessantuno che riuscirono a fuggire l’orrore non era finito. Alcuni cominciarono a bere. Più d’uno si suicidò. Molti soffrirono di disturbo da stress post traumatico, di cui allora si sapeva ben poco. Gli uomini adulti nel nord-est della Scozia non andavano in terapia. Quando vennero assegnati gli indennizzi, coloro che riuscirono ad articolare il dolore presero più soldi di quelli che erano troppo traumatizzati per parlare. Il senso di colpa del sopravvissuto si manifestava in altri e inquietanti modi. Una donna rientrò a casa e trovò il marito in fondo a una fossa di due metri che si era scavato da solo, d’impulso, nel giardino. Quell’uomo, Bill Barron, divenne poi il modello di Sue Jane Taylor, l’artista che scolpì il monumento in memoria della tragedia della Piper Alpha all’interno di Hazlehead Park. La scultura mostra tre figure rivolte a est, ovest e nord, rappresentanti rispettivamente la giovinezza, la prestanza fisica e il petrolio. Quando ho incontrato Taylor, lei mi ha guidato attraverso il giardino dove sorge il monumento, indicando le piante di rose scelte dalle famiglie delle vittime, le lunghe colonne di nomi scolpiti nel piedistallo.
Poi ci siamo sedute nella sala da tè, guardando la pioggia che scendeva lungo i vetri, finché il profilo verde del giardino non è scomparso completamente e si riuscivano a vedere solo le macchie rosa e rosse delle rose. Mi ha raccontato di aver lavorato furiosamente al monumento senza mai la certezza, fino alla fine, che ci sarebbero stati abbastanza fondi per completarlo. Il giardino commemorativo e il monumento insieme costarono 100 mila sterline. Gli azionisti della compagnia ne donarono 11 mila. La Occidental non voleva il monumento. La compagnia pensava che le famiglie avrebbero dovuto accontentarsi di un libro delle condoglianze. Il capo delle pubbliche relazioni della Occidental andò da Taylor, tentando di acquistare ogni schizzo, fotografia, negativo della piattaforma che fosse in suo possesso. Disse che il prezzo poteva farlo lei. Lei rifiutò. Alcuni artisti non possono essere comprati.
Si verificano ancora incidenti ma molti non vengono resi pubblici. La loro esistenza è limitata a un regno quasi metafisico: se i media non ne hanno mai sentito parlare, è successo davvero?
La Occidental vendette tutte le sue proprietà nel Mare del Nord e si preparò all’inchiesta. Alla fine fu costretta a pagare 100 milioni di sterline. Nonostante il Rapporto Cullen (la relazione finale della commissione d’inchiesta indipendente, presieduta da lord William Cullen, incaricata dal governo britannico di fare luce sulle circostanze dell’incidente, ndt) avesse condannato le procedure di sicurezza – trasformando così l’intera cultura offshore – non fu individuato un singolo responsabile. Oggi gli standard nel Mare del Nord sono i più rigidi del mondo, ma non si può tuttora escludere l’errore umano. Se chiedi alle persone di lavorare in turni da dodici ore, per ventun giorni consecutivi, alla fine si stancheranno e faranno degli sbagli. Si verificano ancora incidenti ma molti non vengono resi pubblici. La loro esistenza è limitata a un regno quasi metafisico: se i media non ne hanno mai sentito parlare, è successo davvero?
Qualche anno fa, i lavoratori della Magnus notarono uno strano odore provenire dalle docce. Dopo ulteriori indagini, venne fuori che le riserve d’acqua erano state contaminate dal diesel. La BP diffuse delle linee guida. Ai lavoratori fu detto di bere e lavarsi i denti con l’acqua in bottiglia, ma di continuare a fare la doccia normalmente. Magari avrebbero notato l’aroma “innocuo” del diesel, ma avrebbero dovuto ignorarlo. Vale la pena ricordare che la BP disse anche che il Corexit – il solvente che aveva spruzzato nel Golfo del Messico dopo l’incidente della Deepwater Horizon – era innocuo, mentre gli uomini che stavano lavorando alle operazioni di pulizia cominciarono a soffrire di vuoti di memoria, spasmi muscolari e irritazioni della pelle, una sintomatologia già vista nei soldati della Guerra del Golfo.
Si mettono a punto i processi per stabilire una catena di responsabilità, in modo che se qualcosa va davvero storto si può risalire a un individuo. In realtà, raramente gli incidenti sono colpa di una sola persona in particolare. Nei film come Deepwater Horizon sono rappresentati dei dirigenti perfidi perché è difficile sceneggiare il lassismo delle grandi compagnie e l’inefficienza sistemica. La Piper Alpha ha seguito a ruota Chernobyl, lo Space Shuttle Challenger, e la Herald of Free Enterprise, nome premonitore. Erano altri tempi, in un certo senso, un’epoca di deregolamentazione e catastrofici errori di valutazione. Ma la storia porta con sé una postilla, da cui si evince che le lezioni possono essere dimenticate alla stessa velocità con cui si imparano.
Estratto da Lo stato del mare di Tabitha Lasley, traduzione di Raffaella Menichini (NR edizioni, 2021). In esclusiva per Il Tascabile.