M iltos Manetas è un artista di origini greche, nato ad Atene nel 1964. Ha studiato in Italia, all’Accademia di Belle Arti di Brera, è stato fidanzato con l’artista Vanessa Beecroft e ha vissuto a lungo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, negli Stati Uniti. Nel 2009 fu l’ideatore del padiglione internet della Biennale di Venezia. Nel 2013 Miltos è stato ospite al Next Fest, il festival organizzato dal magazine Wired a Milano, dove ha condiviso, nella penombra del planetario dei giardini di Porta Venezia, il ricordo di un episodio della sua vita passata. Il titolo dell’incontro era Intrappolati in un sogno psichedelico. La ketamina e il world wide web.
Era la prima volta che Manetas raccontava questa storia in pubblico. Si tratta di un aneddoto, strettamente biografico e personale, che rievoca le sorgenti psichedeliche e californiane di internet e che ha a che fare, in questo caso, con una specifica sostanza: la ketamina. Il discorso di Manetas, che ha preso forma di fronte al telescopio del Planetario Hoepli, ha risuonato nella semioscurità di quello spazio concavo come una sorta di favola e di mito sulla genesi del cyberspace, proprio come le cosmogonie, i poemi epici, i miti e le leggende, hanno tramandato per secoli la storia dell’origine del mondo naturale, dell’acqua, del cielo e della terra. Ecco, sbobinata, la favola raccontata da Miltos Manetas.
Ho cominciato ad interessarmi di cyberspace nel 1992. All’epoca non avevo neppure un computer, però avevo letto
Neuromancer, il romanzo di William Gibson (…) Molti anni più tardi, nel 2009, mi sono occupato del padiglione internet della Biennale di Venezia. Una volta ricevuto l’incarico mi chiesi che cosa volessi fare di quel padiglione. Non volevo replicare qualcosa che avevo già fatto, ma creare qualcosa di completamente nuovo. Allora presi la macchina e cominciai a viaggiare per gli Stati Uniti fino a quando arrivai da mister Leonard Kleinrock, uno degli inventori di internet (ovvero uno degli sviluppatori, nel 1969, di ARPANET, la rete progenitrice di internet. n.d.a.) e parlando con Leonard compresi che l’internet che lui aveva sognato, e che io stesso avevo sognato, non c’era, non era ancora arrivato. Quello che c’è, oggi, è soltanto uno schermo. Tu davanti a uno schermo. Kleinrock, invece, immaginava una specie di layer e di altro piano della realtà, a cui accedere direttamente, senza nessuna interfaccia di mezzo. Sognava che internet fosse ovunque e che i device di collegamento non esistessero o che fossero invisibili. Mi sarebbe piaciuto costruire quel tipo di internet, ma non ne ho e non ne ho mai avuto le competenze. Non sono uno scienziato, sono un artista. Per me, poi, dopo quel viaggio negli Stati uniti, è iniziata un’avventura spirituale, che mi ha portato anche sul monte Sinai.
Ma c’è una storia che non ho mai raccontato, e di cui forse non avevo ben compreso il significato, e che ho deciso di raccontare qui a Wired per la prima volta. E questa è, in qualche modo, la storia del cyberspace, dell’origine del cyberspace (…). E la storia è la seguente. Tra i miei primi amici nel periodo in cui abitai a Los Angeles, negli anni ’90, ci fu John Perry Barlow, uno dei pionieri e dei primi teorici di internet e un tempo autore dei testi per i Grateful Dead (amatissima band di rock psichedelico, fondata a San Francisco nel 1965, n.d.a.). John, tra l’altro, utilizzò internet quando ancora nessuno lo usava, proprio per promuovere l’attività dei Grateful Dead. Eppure quando gli parlavo di questa nuova generazione di artisti, a cui io stesso appartenevo, che cominciava a lavorare con internet e a servirsi delle nuove tecnologie, lui sembrava molto freddo, scettico, disinteressato alle mie parole, e assumeva un contegno un po’ snob. Dopo un po’ di mesi che ci conoscevamo, un pomeriggio, a New York, John all’improvviso mi fece una domanda: “Miltos, vuoi sapere la verità sul cyberspace?”. Poi scomparve nel suo appartamento.
Lo sentii aprire un armadio e dei cassetti, e dopo lo vidi tornare con due bellissime siringhe di metallo che riempì con una sostanza liquida, chiamata ketamina, un anestetico per cavalli usato anche come droga e ribattezzato “Special K”. Si può anche sniffare e sono sicuro che molti di voi la conoscano. John mi praticò quindi una iniezione di ketamina e poi mi disse: “Ma la vuoi sapere proprio tutta la verità sul cyberspace?”. Risposi di sì e allora mi fece una seconda iniezione di ketamina. A quel punto mi alzai dal divano, andai in cucina e… non c’era più niente. Quello che provavo non era associabile agli effetti fisici e psicologici riferibili al termine “psichedelia”. Non si trattò di una esperienza psichedelica, infatti, ma anti-psichedelica. Non è facile descrivere quella esperienza, proprio perché non è facile comunicare il concetto e l’esperienza del “niente”, del “nulla”. La ketamina, infatti, è una droga molto particolare, che arresta i messaggi che arrivano dal mondo esterno attraverso i sensi. È una droga che isola dalla realtà e che ottunde i sensi. Diventi impermeabile e quando dall’esterno non ti arriva più niente è come se non ci fosse più lo spazio e la tua identità scomparisse. Non c’è più nulla. Resta solo una memoria remotissima, forse, come un’eco del database in cui sono racchiuse le informazioni che ti riguardano: chi sei, da dove vieni e il fatto che sono qui, a casa di John Perry Barlow, e che fuori ci sono New York, il mondo e così via. Il tuo corpo, trovandosi in questo tipo di circostanza e dimensione prossimi al nulla, non è a proprio agio, non sa che cosa fare. Per questo John Perry mi prese per le braccia e cominciò a muovermele, a farmi fare una specie di ginnastica.
A questo punto del racconto di Manetas, diventa chiaro il contesto delle immagini che fin dall’inizio dell’incontro sono state proiettate in loop sulla volta del planetario. Nelle immagini un giovane Miltos Manetas si trova all’interno di un appartamento. Il corpo di Manetas oscilla avanti e indietro. Contemporaneamente Manetas muove le braccia dall’alto verso il basso, come un burattino. Il burattinaio, invece, è John Perry Barlow, che si trova alle sue spalle. Le immagini erano state riprese in videotape da un’amica comune, presente quel giorno a casa di John Perry Barlow.
Poi ci sedemmo di nuovo sul divano e dopo una decina di minuti, il tempo dell’effetto di una iniezione di ketamina, da quel nulla e
non place ritornai al tutto, alla realtà, proprio come se avessi rotto una parete di vetro. Questo era il significato di cyberspace secondo John Perry Barlow e oltre al fatto che John fu l’autore di un documento, il “Declaration of independence of cyberspace” pubblicato proprio sulla rivista Wired (nel marzo 1994, n.d.a.), si dà il caso che John fosse anche uno dei più grandi amici di William Gibson, lo scrittore di Neuromante e il creatore stesso della parola cyberspace. William Gibson, che all’inizio degli anni ’80, all’epoca della pubblicazione di Neuromante, non aveva mai usato un computer, fu a sua volta un grande sperimentatore di ketamina. Difatti il protagonista di Neuromante si chiama Case per assonanza con la lettera K. Con quella iniezione di ketamina John mi aveva voluto comunicare e procurare esperienza del significato originario del cyberspace, che coincideva con la fantasia di un drogato che immaginò internet e il cyberspace come una nuova dimensione, al pari di un viaggio con la ketamina, in cui il corpo scompare. Una esperienza di radicale scollegamento dalla realtà. Questo internet che abbiamo oggi, non è poi una così grande figata, ma qualcosa di ancora molto lontano da quello che intendeva Gibson.
Così finisce il racconto di Miltos, dopo aver colmato, parola dopo parola, quella specie di grande cucchiaio rovesciato formato dalla volta alta e rotonda del planetario. Il racconto di Manetas in fondo appartiene alla vulgata, alla serie di miti fondatori che collocano le origini di internet e della Silicon Valley nella cultura psichedelica californiana. Annotazione personale: mentre ascoltavo l’intervento di Manetas mi sono accorto d’indossare, per puro caso, una camicia a motivi paisley, cioè una di quelle camicie, indossate da gruppi californiani come Byrds e Grateful Dead, che un tempo venivano chiamate “camicie psichedeliche”. Anche Carlo Antonelli, il direttore di Wired che ha moderato molti degli incontri del Next Fest, indossava una maglia color panna a minuta fantasia paisley e un paio di Nike avveniristiche dall’estetica molto contrastata, fantasiosa e complessa (suola di gomma bianca, stringhe e baffo verde bottiglia su fantasia tartan), tanto da apparirmi, a loro modo, un esempio di creatività manifatturiera contemporanea, immersa nei cromatismi e nelle forme della computer aesthetics, ma remotamente debitrice del genio psichedelico.
C’è un ulteriore dettaglio rivelatore: durante la conversazione pubblica con Stefano Rodotà, giusto un paio d’ore più tardi dell’intervento di Manetas, a un certo punto, dopo aver parlato di Stendhal, Ottiero Ottieri, di Adriano Olivetti e Tim Berners Lee, divagando sul tema della cittadinanza digitale, fabbricando metafore da indiano hopi (“Internet è, come l’aria e l’acqua, qualcosa che appartiene di diritto all’umanità”), Rodotà ha fatto il nome di Aldous Huxley, cioè lo sperimentatore di LSD e mescalina e autore de Le porte della percezione. Ci siamo così trovati di nuovo, in questo meraviglioso, erratico cartellone di talk, testimonianze, technology evangelist e presentazioni di startup che è stata la Next Fest di Wired, in un punto del ‘900 in cui l’immaginazione sociale si era alimentata del talento più visionario e di cultura psichedelica. Così, di fronte a uno Stefano Rodotà magnificamente composto e divertito, il direttore di Wired ne ha approfittato per commentare: “Huxley, ma certo, quel grandissimo fattone”.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata originariamente nel giugno del 2013 su il Post; l’autore ne ringrazia la redazione.