L’
idea di intervistare il giornalista Giuseppe Rizzo (l’autore di I fantasmi non esistono) nasce insieme a un’altra, quella di intervistare l’architetta e urbanista Keller Easterling. Nei loro ultimi libri entrambi tentano di indagare le forme della disuguaglianza nello spazio sociale, nello spazio immobiliare, urbano e virtuale. Se la conversazione con Easterling è più teorica, quella che segue è senza dubbio più diretta: si concentra sugli spazi-soglia che non ci interessano finché non ci toccano, ovvero i dormitori, i carceri minorili, i cosiddetti progetti di social housing. Soprattutto, si concentra sugli esseri umani che li subiscono.
Scippando dal gergo di Easterling, il libro di Rizzo invita a una riflessione sulle disposizioni non dichiarate dal potere, le strategie silenziose che si replicano dal “Centro”, dove l’intreccio tra governo, istituzioni bancarie e urbanistiche viene battezzato con il nomignolo esoterico di Governance. La lettura di I fantasmi non esistono crea il tempo per riflettere sul piano regolatore della realtà, sulle relazioni tra gli attori di questa scena. Gli assessori, le panchine e i sacchi a pelo danno forma a un assemblaggio: il libro di Rizzo tenta di smontarlo pezzo per pezzo, e ricostruirlo.
Katherine Boo si è occupata per vent’anni di politiche sociali sul Washington Post. Quando la citi nel libro, è per questo passaggio: “Nessuno è rappresentativo. Le persone possono fare parte di una cornice più grande, ma sono pur sempre persone. Rendendole rappresentative le perdiamo di vista. Chi è povero finisce così per essere rappresentato come un santo, perfetto nella sua sofferenza”. Come hai risolto questo nodo? Come si scrive di povertà senza pietismo? La mia sensazione è che libri come questi siano necessari, ma in pochi abbiano la voglia di sporcarsi le mani, di scriverli, di intrappolarsi nella frustrazione.
È un nodo complicato da sciogliere e penso che la cosa migliore da fare sia diffidare di se stessi ogni volta che si pensa di averlo sciolto. Quando si raccontano le vite degli altri, e in particolare quelle ferite o sconfitte, bisogna innanzitutto evitare di generalizzare: chi è scivolato nella povertà, nella malattia psichiatrica o nel carcere è spesso liquidato come parte di un blocco monolitico fatto di degrado, violenza, miseria. Ma raramente è così. Siamo sistemi complessi, in continuo cambiamento, pieni di ombre ma anche di risorse e desideri, una parola che si tende a cancellare dal vocabolario di chi vive per strada, in cella o in comunità. La santificazione e il pietismo, a volte accompagnate dal lirismo, sono scorciatoie: catturano chi legge, ma nascondono le contraddizioni che uno scrittore o un giornalista deve cercare di restituire.
Tutto questo come si traduce in fase di scrittura?
Faccio un esempio. Il libro si apre con la storia di Egbert Pascual, un filippino di 58 anni arrivato a Milano per cercare di costruirsi una vita migliore. Pascual abitava con la madre e la sorella, entrambe badanti. Dopo un po’ ha rotto con loro ed è finito per strada, poi in un dormitorio e infine è morto di covid. La famiglia non ne ha saputo niente per un anno. È toccato a me dirglielo, dopo che mi ero imbattuto in un articolo che accennava appena alla sua morte e avevo deciso di ricostruirne la vita. Dai racconti della mamma, della sorella e della zia emergeva un uomo fragile ma anche incline all’ira, scostante, chiuso. La mamma ne aveva paura. Eppure, continuando le ricerche è emerso un altro Pascual, che per anni aveva fatto volontariato e aiutato chi aveva bisogno. I volontari e gli attivisti ne avevano un ricordo commosso. Ma tutto questo è emerso dopo diversi mesi di lavoro, molti incontri e tante domande. Osservare, pazientare, fare domande è un altro modo di scrivere. Fa emergere dettagli – perfino minuzie – che possono illuminare una frase o una pagina, e permette di non generalizzare o semplificare.
Uno degli aspetti che emergono dal libro è quello economico. Ci sono delle pagine che rispondono al solito nodo: quanto costano questi fantasmi presunti? In un reportage in cui racconti di un’esperienza a Bologna per aiutare i senza dimora confronti i costi di una notte in un dormitorio, in un appartamento del progetto Housing first, in carcere…
A Bologna la cooperativa Piazza grande sta provando a seguire la strada dell’Housing first, un progetto che prevede di dare una casa a chi vive per strada senza porre condizioni. Secondo l’associazione fio.PSD, che segue questo tipo di progetti, il costo medio per ospitare una persona in uno di questi appartamenti è di 26 euro al giorno, in un centro per senza dimora è di 32, in carcere (dove chi vive per strada spesso finisce per reati di poco conto) è di 137. Ma non è solo una questione di soldi risparmiati, è un modo per ribaltare certi paradigmi. In Italia, così come in molti altri paesi, il sistema per aiutare i senza dimora si basa su un modello a scala, che prevede il passaggio nei centri diurni, nei dormitori, percorsi di disintossicazione e infine una sistemazione più stabile. La casa è la ricompensa suprema. Ma pochi ci arrivano. Il problema è che si ragiona quasi sempre secondo logiche d’emergenza, e con pochi soldi, molta stanchezza e tantissima disattenzione – se non malafede – delle istituzioni. Queste logiche intrappolano le stesse cooperative e associazioni, che spesso sono lasciate da sole a gestire tutto, senza il tempo e la forza per ripensare in modo anche radicale il proprio ruolo e immaginare un superamento del sistema di cui fanno parte.
Un altro paradosso che ti trovi ad attraversare, almeno mi sembra, è quello del lavoro come soluzione di tutti i problemi: c’è chi non riesce ad adattarsi al mondo del lavoro, e non per questo va abbandonato. Delle persone che racconti, la più felice mi sembra quella che è diventata educatore, in qualcuno utile agli altri, sganciato dal mondo dei servizi e del cottimo. Il lavoro è per forza la soluzione?
No, soprattutto per le persone più fragili, cioè per chi finisce per strada, in cella o vive in condizioni precarie e ogni giorno deve fare i conti con malattie psichiatriche gravi, dipendenze importanti o malattie invalidanti.
Il lavoro può funzionare solo se è parte di una rete più grande, in cui ci sono lo psicologo ma anche l’assistente sociale, la volontaria e i familiari, le terapie e l’ascolto. Da solo non basta. Del resto, molte persone che ho incontrato per scrivere I fantasmi non esistono un lavoro ce l’hanno: ma sono lavori precari, pagati male e spesso al limite dello sfruttamento.
Internazionale, come ogni progetto editoriale, chiede di adeguarsi alla sua linea, alla sua forma. Quanto ha influenzato la tua scrittura, il mondo di Internazionale? Questa coerenza ha semplificato o complicato l’assemblaggio del libro? Per esempio: le tue conclusioni, scritte a titolo personale, sembrano attraversate da una temperatura diversa, più calda.
Internazionale è un giornale con un’identità molto forte, che ragiona molto sul linguaggio, sulla forma, ma senza essere dogmatico. A me ha aiutato a sfrondare, a capire che togliere è meglio di aggiungere, a muovermi verso la semplicità e la chiarezza. Mi sembra che gli sforzi di autrici e autori come Emmanuel Carrère, Zadie Smith, Ta-Nehisi Coates, per citare alcuni di quelli che si muovono tra fiction e non-fiction, vadano in questa direzione. Ma penso anche alle pagine cristalline di Annie Ernaux, Tash Aw, John Berger; oppure alla grande lezione italiana di Goffredo Parise, Giuliana Saladino, Leonardo Sciascia.
Cerco la chiarezza che trovo nelle loro pagine. Tento di limitare al massimo gli aggettivi e di concentrarmi il più possibile sui dettagli. Provo a capire come una decisione collettiva, politica, ricade su una storia privata e intreccio i diversi piani, anche quello più noioso della burocrazia e delle leggi, tentando di non perdere l’attenzione di chi legge. Infine, più che cercare la mia voce provo a trovare quella degli altri. Forse per questo uso poco la prima persona, credo anche per reazione a un tipo di narrazione che oggi mi sembra abusato e un po’ logoro. Nelle conclusioni la prima persona è meno defilata perché sono un ragionamento sul lavoro fatto finora, per cui magari è per questo che la temperatura è diversa rispetto ad altri pezzi, come dici tu.
Il libro infila testimonianze che hai raccolto negli anni. Com’è cambiato il tuo sguardo, intorno a questo intreccio di problemi? E tu, come sei cambiato?
Ho messo meglio a fuoco il fatto che storie che ci sembrano lontanissime non lo sono affatto, e che pongono domande più universali di quanto crediamo. Per esempio: cosa ci succede quando cadiamo e non riusciamo ad alzarci? Come facciamo i conti con il male e la violenza? Riusciamo ad accettare che le ombre fanno parte di ciascuno, e che tipo di risposte abbiamo elaborato per affrontarle? Osservare le disuguaglianze, gli squilibri, la violenza con cui certe persone sono spinte ai margini aiuta a cogliere meglio i dettagli del panorama e a capire che il panorama siamo noi.
Inoltre, confrontarsi con queste storie significa anche interrogarsi continuamente sui rapporti di potere che si instaurano tra chi racconta e chi è raccontato. Come dice la scrittrice e attivista statunitense bell hooks, esiste uno squilibrio di cui è sempre bene tenere conto, così come la tentazione di voler imboccare gli altri, di parlare per loro.
Faccio un esempio. In due occasioni ho finto di essere un senzatetto. Una volta ho passato una notte d’inverno in un rifugio d’emergenza alla stazione Termini di Roma. Un’altra volta due giorni d’agosto insieme a un ragazzo che vive per strada da anni. In entrambi i casi le domande sull’opportunità o meno di fingere, di mettersi nei panni degli altri, hanno accompagnato la scrittura. Non so com’è il risultato, è meglio che lo dica chi legge, a me il processo è servito anche per confrontarmi con queste domande, e per intuire – intuire, non capire, che sarebbe presuntuoso – quanta violenza possa subire un corpo esposto alla vita di strada.
Dopo decenni di vagabondaggio, A. “abitava da tempo in una casa famiglia e faceva volontariato in carcere”. Arriva la pandemia, il lockdown. È aprile, A. esce di casa per una passeggiata e viene fermata da una pattuglia. “Aveva i documenti in regola, ma dal controllo era saltato fuori che dieci anni prima era stata accusata di rubare gli spicci in alcuni distributori di sigarette”. A. scopre di essere stata condannata in contumacia, e si fa quasi un anno di carcere. Quando ti incontra, ti dice che la sua vita è un libro aperto, “ma a che serve raccontarla? Non credo le cose cambieranno”. Come le hai risposto?
Le ho detto che capivo il suo pessimismo, ma che avrei provato lo stesso a raccontare storie simili alla sua. Ha sorriso.